mercoledì 14 aprile 2010

I Preraffaelliti, Medioevo prossimo


A Ravenna una grande mostra ripercorre l’avventura del movimento che a metà ’800 sognava l’Italia di Dante

Per fortuna non siamo più in anni di trionfalismo avanguardistico (visto i guasti che nonostante il loro indiscutibile «genio» quei movimenti hanno provocato nei seguaci stenterelli) e soprattutto di dittatura del teleologismo progressivo, alla Vasari. Per cui «il faut être absolument moderne», per dirla con Rimbaud, e superare cancellandolo tutto quello che ci ha preceduto. La ridicola devozione dell’essere Nuovi A Tutti i Costi. Come ricorda il curatore di questa meditata mostra, Claudio Spadoni, è curioso per esempio ricordare come Renato Barilli, che è stato il primo in Italia, dopo Praz ed insieme a Maria Teresa Benedetti, ad occuparsi di Preraffaelliti, sia stato anche il primo a lamentare il loro «passatismo», stigmatizzandoli perché non abbastanza «avanguardistici» e «sperimentali», rispetto «alle due principali rivoluzioni che l’Ottocento ci avrebbe dato, nella sua seconda metà». Ovvero i vincenti Impressionisti e i «sintetici» pittori simbolisti. Bastonando, come fecero pure molti contemporanei bacchettoni della Confraternita: «quel loro meticoloso “finito” e l’asciuttezza e il rigore di linee». Che può risultare in effetti un po’ acerbo e gracile (alla maniera del Manierismo) ma che invece oggi, dopo tanta digerita Art Nouveau e cultura dell’eclettismo, al di là dei pregiudizi modernisti, molto ci attrae, senza corsette agonistiche a chi arriva Primo. 

Ma la cosa singolare è che, quando gli adepti della Confraternita cosiddetta P.R.B., iniziano a perseguire il loro intenso credo artistico primitivista, son convinti d’esser ultra-moderni e proprio per questo vengono perseguitati dalla critica ufficial-accademica. E difesi invece da quel santone ormai indiscusso, ch’era il teorico e non soltanto, Ruskin, presente anche in questa bella mostra, con i suoi dettagliatissimi acquerelli di monumenti antichi, meglio se italiani e meglio ancora se gotici (come è noto Ruskin odiava Rinascemento e Barocco, aprendosi alle luci tormentate del pittoresco Romantico). Ruskin che ama fin da bambino il grande rivoluzionario Turner, ma ironizza sulla velocità sommaria di Whistler, che avrebbe l’ardire «di gettare barattoli intieri di tinte grigie in faccia ai visitatori» e si merita una denunzia, da parte del pittore, che in conseguenza vede azzerarsi il proprio successo. Ruskin era all’epoca un guru.

Ma Whister vince simbolicamente la causa (una ghinea, nulla) al grido di: «Sì, ho realizzato il mio Notturno sul Tamigi, in meno di un giorno, e chiesto molte sterline, ma perché per ottenerlo così c’è voluta tutta la meditazione pittorica d'una vita». Curiosamente Ruskin ama il liquido Turner, ma detesta chi sceglie la via sommaria della scorciatoia compendiaria tipo Whistler (che già era degli antichi pittori pompeiani). Oggi è invece proprio quel dettaglismo, quasi ossessivo ed un po' fiammingo d’ispirazione, e mai pompier, che ci seduce, anche perché è pastellato di materia e liricamente vivo, gonfio di letteratura e di morbosi sensi. Come si rese conto subito, precocemente, l’esteta D'Annunzio, e come bene illuminò il Divino Anglista Praz, alla ricerca delle sue dislocate Belle Dames sans merci: senza remissione, per i poveri maschi calpestati. «In cui elementi desunti dallo Stil Nuovo vengono resi più complessi e raffinati e s’armonizzano in una visione di simbolismo sessuale e melanconico. Beate Donzelle e Donni Fatali, Astarti e Sibille, immagini bifronte della stessa sessualità, morbosa ed insaziata». 

In realtà ad essere calpestate e travolte, in questo rapinoso vento morboso, che si nutre anche molto di paradisi artificiali e di laudani visionari, son spesso le povere mogli-sorelle-modelle, che passano da uno studio all’altro, oltre che dalle braccia inesperte e smaniose dei loro turbati compagni di vita e talvolta vengon tenute troppo a mollo nelle bagnarole d’acqua diaccie, per simulare domestici naufragi poetici di Ofelie imbibite, finendo poi dritte nell’al di là, afflitte da lunghe sedute (e non pittoriche) di tisi letali. Jane Morris, per esempio, che è la moglie insoddisfatta del primo teorico del design, ancora artigianale, William, e si lascia amare da Dante Gabriele Rossetti, che la ripaga trasformandola in volto riconoscibile e musa ossessiva di tutta la sua pittura.

Facendole incarnare i ruoli così diversi ma uniformati da quella riconoscibile fisionomia, di Beatrice, Gemma Donati, Lucrezia Borgia (corteggiata incestuosamente dal padre pontefice Alessandro VI e dal fratello ribaldo Cesare, che le carezza le tipiche cascate di capigliatura arroventata, rubensiana). Ed è presente pure, Jane, mentre Giorgione dipinge le sue etere antiche, e Giotto medita le sue nuovo iconografie, ritrattando immaginariamente Dante (secondo l’ipotesi di un ritrovamento al Bargello, nel 1840). Perché poi i personaggi, e le fonti d’ispirazione, sono in fondo questi e ricorrenti, Dante e Francesca da Rimini e la Vita Nova, Shakespeare e i suoi estivi folletti, la Bibbia e sporadicamente Boccaccio («bocca baciata non perde ventura/ anzi rinnuova come fa la luna» - un bel po’ in anticipo sul Falstaff di Verdi). 

Peccato che non sia presente quel classico incredibile del preraffaellismo fiorito, che è la minuta, quasi miniaturistica, «narrazione» del giovane Gesù apprendista, nella moderna bottega del padre falegname, firmato da Everest Millais, che è curiosamente assente dalla mostra ed ingiustamente, visto che era considerato anche una sorta di teorico del gruppo, in dialogo con Ruskin (ma la decisione tassativa ed indecifrabile viene dai co-curatori inglesi e dunque conviene non fiatare, visto le belle opere che ci hanno inviato). Ci sono tutti gli altri, infatti, e con opere giuste e non soffocanti, da Hunt a Lord Leighton, da i vedutisti Boyce e Brett, da Burne-Jones a Crane, compreso il poeta-pittore non-sensical Edward Lear (anche in rapporto al vedutista della campagna romana Nino Costa). Ognuno che prende la sua via, a dimostrare ch’esser preraffaelliti non vuol dire soltanto idolatrare l’antico e la semplicità purista di Beato Angelico e Benozzo Gozzoli e del Camposanto gotico di Pisa, guastata dai «brillanti veleni insipidi» del demonizzato Raffaello. Ma esser «onesti» nel proprio assunto. E vicini alla verità dell’immaginario.

FONTE: Marco Vallora (lastampa.it)

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