lunedì 24 marzo 2014

El Greco, le radici della modernità


El_Greco_-_Laocoon

Perché quel Cristo si eleva in una torsione bizzarra che sembra sfidare secoli di iconografia sacra? E perché quel san Giovanni spicca in primo piano, monumentale, vestito di una tunica scomposta, alzando le braccia al cielo al pari delle altre figure sullo sfondo, senza veli, in una danza dionisiaca?Perché insomma El Greco sembra oggi così moderno? Così vicino ai giorni nostri, perfettamente a suo agio nel gusto pop con i suoi colori fortissimi, acidi; così aderente a un modo di pensare che, nel secolo scorso, ha infranto regole su regole, arrivando all’informale?
Ce lo chiediamo oggi, a quattrocento anni dalla morte, mentre uno strano destino si va via via delineando per questo pittore che rappresenta uno dei misteri più fitti della storia dell’arte. Nato a Candia (Creta) nel 1541, Dominikos Theotokopoulos è stato probabilmente il primo vero artista «europeo»: sin da bambino si forma alla Scuola cretese, un movimento pittorico post bizantino che predilige figure allungate e sottili, mani eleganti, cura dei dettagli, particolari inediti nell’iconografia sacra. Poi si sposta e va a Venezia (abbandonando moglie e figlio) e si incanta davanti ai volti di Tiziano, Veronese, Tintoretto. I suoi dipinti si addolciscono, i colori diventano più accesi. Infine, va in Spagna, elegge Toledo «città adottiva» e qui resterà fino alla morte, nel 1614.
Strano destino, si diceva. Sì perché mentre con il suo tempo El Greco ingaggiò spesso furibonde lotte per affermare una certa indipendenza artistica, la sua vera riscoperta si è avuta con la modernità, a cavallo tra Otto e Novecento. No, non ebbe vita facile: nonostante fosse amico di personalità sofisticate come il poeta Luis de Góngora (il quale, sull’epitaffio del pittore, scrisse qualcosa come: «Infuse il naturale nell’arte/ e l’arte nella ricerca») la sua arte era vista come troppo«fuori dagli schemi» per una committenza in gran parte formata da chierici e aristocratici vicini alle alte sfere ecclesiastiche.
Per dire, nel 1581, Filippo II fece rimuovere una pala di El Greco dall’Escorial perché proprio non riusciva a raccogliersi in preghiera davanti a quelle figure inquietanti, forti, latrici di messaggi profondi e spesso indicibili.
Lo hanno amato e odiato con pari impeto.  Giambattista Marino lo definiva «uno sciocco pintor», le cui opere meriterebbero «aqua e foco», ma Théophile Gautier, in un viaggio in Spagna alla metà del XIX secolo, parlava di «follia geniale». Così non stupisce che sia stato proprio il più anticonformista dei francesi ottocenteschi, Édouard Manet, a imporlo come esempio di straordinaria modernità in Europa. In Francia, a metà ’800, al Louvre era stata allestita la «Galérie Espagnole», mostra che fu una sorta di rilancio per il cretese. Però bisognerà aspettare ancora.
Aspettare quella straordinaria vitalità edipica che, nell’arte e non solo, portò a un vero e proprio parricidio nei confronti delle tradizioni. Picasso che riscopriva l’arte africana, Kandinski che prendeva a indagare le origini figurative della sua tradizione. Fu così che questo artista così puro, incorrotto, libero dagli schemi, venne preso a modello. Una mostra allestita a Düsseldorf nel 2012, dal titolo «El Greco e il Modernismo» ha fatto luce su questo tema, composto di assonanze, rimandi, echi ben percepibili. Pare che Picasso abbia dipinto Les demoiselles d’Avignon dopo aver visto L’apertura del quinto sigillo di El Greco, un’apoteosi panica del sacro (contrapposizione voluta, cercata, rimarcata); La terribile Deposizione dalla Croce di Max Beckmann esalta queste figure emaciate, stravolte; persino in certi cupi ritratti di Kokoschka si ritrovano gli incubi del cretese. Ma furono davvero incubi?
O forse furono più opportunamente suggestioni culturali, etiche e religiose che gli venivano dal suo tempo, dal Paese che aveva scelto, persino dalla città che aveva eletto come sua (Toledo, il cuore della Santa Inquisizione). Non lo sappiamo e forse non è nemmeno giusto chiederselo. Di certo, nelle grandi mostre che la Spagna propone in questo 2014 dedicato al El Greco, da Toledo a Madrid, avremo modo di studiarlo. O, meglio, di sentirlo.

FONTE: Roberta Scorranese (corriere.it)

domenica 23 marzo 2014

Carlo Saraceni, il Veneziano che ritorna da Roma


Per la seconda edizione una breve guida e un allestimento nuovo, in un confronto con la pittura veneta del suo periodo.


La prima grande mostra antologica del pittore seicentesco Carlo Saraceni, ospitata presso il Museo Nazionale di Palazzo Venezia a Roma, si è conclusa lo scorso 2 marzo. A grande richiesta giungerà ora a Venezia, in un'edizione rinnovata che sarà ospitata alle Gallerie dell’Accademia dal 22 marzo al 29 giugno 2014. 


"Carlo Saraceni. Un Veneziano tra Roma e l’Europa", è un'esposizione ideata da Rossella Vodret e curata da Maria Giulia Aurigemma, e sarà allestita in questa seconda sede attraverso un percorso specifico, appositamente concepito per sottolineare i legami del pittore con l’entroterra veneto e con la città lagunare, dove nacque nel 1579 e morì nel 1620.  


Il Saraceni fu uno dei più precoci e importanti interpreti di Caravaggio e contribuì alla diffusione del linguaggio caravaggesco attraverso un'originale sintesi con il tradizionale cromatismo del '500 veneto. A circa vent’anni egli avviò una fortunata attività nella Capitale, dove si guadagnò l'appellativo di “Veneziano”. Chiamato per compiere un telero per Palazzo Ducale, rientrò poi nella sua città natale, ma morì a distanza di pochi mesi. 


Oltre ad una sessantina di opere già presentate a Roma, l'edizione veneziana è arricchita da importanti lavori. Tra questi compaiono il disegno raffigurante "Andromeda" del Gabinetto disegni e stampe delle Gallerie dell’Accademia di Venezia, che sarà posto a confronto con il piccolo dipinto giovanile di Saraceni di analogo soggetto, il  "San Rocco" della Galleria Doria Pamphilj accostato al "San Girolamo" di Jacopo Bassano e il dipinto della "Maddalena penitente" della Pinacoteca Civica di Vicenza, accostato ad altre due versioni della stessa. 

In occasione dell’edizione veneziana, oltre al catalogo ufficiale già presente a Roma sarà stampata una breve guida, curata da Roberta Battaglia. 

FONTE: E. BRAMATI (arte.it)

domenica 16 marzo 2014

A Milano i capolavori di Gustav Klimt


Gustav Klimt è stato tra i massimi esponenti dell’Art Nouveau e anche tra i protagonisti della Secessione viennese, movimento artistico nato alla fine dell’Ottocento che puntava alla fusione completa delle varie forme d’arte. Fino al 13 luglio 2014 andrà in scena a Milano con la mostra «Klimt. Alle origini di un mito», che si terrà nelle sale di Palazzo Reale. Attraverso una raccolta di venti oli - che rappresenta circa un quinto di tutte le opere conosciute - il pubblico potrà scoprire, o riscoprire, il genio del grande maestro austriaco.  

La mostra si propone di indagare in particolare i rapporti familiari e affettivi di Klimt, esplorando gli inizi della sua carriera alla Scuola di Arti Applicate di Vienna e la sua grande passione per il teatro e la musica, attraverso l’esposizione di diversi capolavori come «Adamo ed Eva», «Salomé», «Girasole» e «Acqua in movimento». La riproduzione dell’originale del «Fregio di Beethoven», esposto nel 1902 a Vienna all’interno del Palazzo della Secessione, costruito nel 1897, occupa un’intera sala: l’obiettivo è immergere il visitatore nell’opera d’arte totale, massima aspirazione degli artisti della Secessione Viennese, sulle note della Nona sinfonia di Beethoven. Nella prima sezione, dedicata alla famiglia, accanto a opere dei fratelli Ernst e Georg, sono esposti anche ritratti giovanili fatti a membri della sua famiglia, nonché fotografie originali provenienti dal lascito dell’artista.  

La seconda parte della mostra è dedicata all’apprendistato dei fratelli Klimt alla Scuola d’Arte Viennese, nell’ambito della quale fondarono, insieme a Franz Matsch, la cosiddetta Kunstler-Compagnie (Compagnia degli Artisti). Si prosegue con la crisi, contestualizzata in quella dell’arte viennese stessa, attraverso opere della prima fase della Secessione che testimoniano il rifiuto definitivo della tradizione storicistica e del successivo passaggio all’avanguardia internazionale. Due sale sono dedicate al ritratto e al paesaggio, generi prediletti da Klimt dalla fondazione della Secessione. In questa sezione si trova una panoramica sul paesaggismo austriaco del tempo, dalle prime tendenze impressionistiche di fine Ottocento ai dipinti secessionisti di Carl Moll e di Koloman Moser. La rassegna si chiude con due dipinti, «Fuochi fatui» e «La famiglia», che illustrano la pittura simbolista di Klimt.  

FONTE: lastampa.it

lunedì 10 marzo 2014

Pontormo e Rosso, gemelli diversi


Antonio Tabucchi una volta ha scritto: «Ci vuole un grande coraggio per farsi un autoritratto in mutande e Pontormo lo ha avuto». Guardate infatti questo disegno: è l’autoritratto (forse) più straordinario di tutta la storia dell’arte. Nel 1525 Jacopo Carucci, conosciuto come Jacopo da Pontormo, o semplicemente come il Pontormo, (Pontorme, 24 maggio 1494 – Firenze, 2 gennaio 1557), decise di auto-immortalarsi così, a torso nudo, con delle mutande e con l’indice puntato verso lo spettatore, al pari dello sguardo.Questo straordinario lavoro è parte della mostra dedicata a Pontormo e Rosso Fiorentino, a Palazzo Strozzi (Firenze) fino al 20 luglio.

Sia Pontormo che Rosso, rappresentarono due esempi di quella stirpe artistica di «toscanacci», geniali e irascibili, un po’ eccentrici, che comprese anche Brunelleschi E Botticelli.

I curatori della mostra Carlo Falciani e Antonio Natali hanno fatto un lavoro doppio, di confronto e spiegazione, tra gli artisti.

I pittori più anticonformisti e spregiudicati fra i protagonisti del nuovo modo di intendere l’arte in quella stagione del 500 italiano che Giorgio Vasari chiama «maniera moderna». Una rassegna che rappresenta anche un viaggio attraverso le vite parallele di questi artisti «gemelli diversi».

L’esposizione è promossa e organizzata da Fondazione Palazzo Strozzi, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Soprintendenza PSAE e per il Polo Museale della città di Firenze, con Comune di Firenze, Provincia di Firenze, Camera di Commercio di Firenze, Associazione Partners Palazzo Strozzi e Regione Toscana. Con il contributo di Ente Cassa di Risparmio di Firenze. Il catalogo è di Mandragora.

FONTE: corriere.it

sabato 8 marzo 2014

Due secolo d'oro degli Estensi


A Venaria gli splendori della corte di Ferrara e Modena. Capolavori della provincia che divenne capitale del Barocco
L’occasione, certo drammatica, è stata la chiusura della Galleria Estense di Modena per il terremoto del 29 maggio 2012: «Speriamo di riaprirla entro l’anno» spiega il soprintendente ai Beni storici, artistici ed etnoantropologici di Modena e Reggio Emilia, Stefano Casciu, curatore anche della mostra Splendori delle corti italiane: gli Este, che si inaugura sabato 8 marzo nelle Sale delle Arti della Reggia di Venaria, quelle che avevano già ospitato il Cavalier calabrese Mattia Preti, Veronese e Bassano.
Una quarantina di opere sulle novantuno presenti, divise in nove sezioni, arriva appunto dalla Galleria Estense: «Siamo stati molto generosi , ma ne valeva la pena» ammette Casciu. Ci sono però altri prestiti eccellenti: dalla Collezione dei principi Liechtenstein arriva l’Apoteosi di Ercole del Garofalo; da Cracovia Il Giove pittore di farfalle di Dosso Dossi; dalla Palatina di Firenze il Ritratto di Tommaso Mosti di Tiziano; dagli Uffizi il Riposo nella fuga in Egitto del Correggio.
Il risultato è un itinerario artisticamente sospeso tra Umanesimo, Rinascimento e Barocco; geograficamente in bilico tra Ferrara (sede originaria e capitale del primo dominio estense) e Modena (che ne diventerà la capitale dal 1598, dopo la restituzione forzata dei territori ferraresi al dominio diretto del Papa); criticamente giocato sul collezionismo e il mecenatismo di un casato (uno dei più longevi d’Italia) che nelle sue stanze, più o meno private, aveva saputo riunire capolavori di Cosmè Tura, Tintoretto, Guercino, Velázquez, Antonio Lombardo, i Carracci, Guido Reni, Salvator Rosa.
Si tratta di opere uniche nel loro genere anche quando non si parla di tele dipinte o di marmi scolpiti, destinati a raccontare la storia degli Este (detti anche Estensi) come mecenati e collezionisti nei due secoli d’oro della loro committenza (il Cinquecento e il Seicento). E se a Venaria non ci sarà il bellissimo busto di Francesco I del Bernini che resterà nella Galleria modenese, chiuso in uno scrigno di legno, ci saranno invece i volumi e i codici che documentano lo strettissimo legame dei duchi con l’Ariosto e altri abitualmente inamovibili da Modena, che a loro volta ne celebrano la passione musicale (Gesualdo da Venosa e Girolamo Frescobaldi composero per gli Este madrigali, capricci, concerti). Come il violoncello barocco di Domenico Galli e l’arpa in legno d’acero e pero verniciato, commissionata dal duca Alfonso II per il concerto delle dame principalissime di Margherita Gonzaga, la stessa arpa riprodotta, tra il 1969 e il 1981, sulle banconote italiane da mille lire.
Questa mostra (che apre la stagione 2014 della Reggia di Venaria e che sarà la prima di una serie interamente incentrata sulle corti italiane), assicura Casciu, «rappresenta una buona possibilità per far conoscere e promuovere non solo i tesori della Galleria di Modena, uno dei più importanti musei nazionali, una collezione amatissima da Adolfo Venturi, padre nobile modenese della storia dell’arte, ma anche di tutto il territorio, come il Palazzo Ducale di Sassuolo ». La chiusura di un museo, d’altra parte, è ormai diventata un’opportunità di promozione: lo dimostra il tour mondiale della Ragazza con l’orecchino di perla di Vermeer (fino al 25 maggio a Bologna, Palazzo Fava) scaturito appunto dalla chiusura temporanea della Pinacoteca Mauritshuis de L’Aia. Più volte Casciu (55 anni, «un giovane rispetto alla media dei soprintendenti italiani») ribadisce però «che le mostre non devono mai dimenticare il loro compito didattico-educativo, mentre oggi sempre più spesso si tratta di eventi, dione man show, che privilegiano l’aspetto economico».
Dunque, gli splendori della corte estense. Splendori che sembrano aver spesso guardato ben oltre l’orizzonte del proprio tempo. In mostra c’è, ad esempio, il Libro dei diversi terremoti di Pirro Ligorio (1513-1583), napoletano trapiantato alla corte di Alfonso II d’Este, «un vero diario, ancora attualissimo», dello sciame sismico che colpì Ferrara dal novembre 1570 al gennaio 1571 (le scosse durarono fino al 1574), distruggendo il 40 per cento delle abitazioni e la maggior parte degli edifici pubblici e delle chiese. Secondo Casciu «un momento di riflessione, magari non gioioso, ma necessario». Un’esposizione scientifica «che farà conoscere le vicende che hanno trasformato una piccola città di provincia in una capitale del Barocco».
Charles de Brosses, ministro francese e connoisseur, nel suo Il viaggio in Italia (1739) descrive così la Galleria al suo massimo splendore: «Il Duca possiede indubbiamente la più bella galleria d’Italia, non la più ricca, ma la meglio conservata, la meglio ordinata, quella sistemata con gusto migliore. Qui tutto è squisito; in ogni stanza un piccolo numero di quadri, mirabilmente incorniciati e appesi in modo ben visibile su stoffe di damasco. Essi sono sistemati in ordine crescente di bellezza: in ogni nuova stanza Lei troverà quadri più belli che nella precedente».
Pochi anni dopo, nel 1746, per risanare le esauste finanze del Ducato dopo le guerre di successione polacca e austriaca, il duca Francesco III d’Este avrebbe poi venduto (per 100 mila zecchini) i cento più pregiati quadri della Galleria ad Augusto III re di Polonia e principe elettore di Sassonia, che li avrebbe trasferiti a Dresda, creando il nucleo dell’attuale Gemäldegalerie. Anche in questo caso la storia — se osserviamo che cos’è successo a Detroit e Lisbona in bancarotta — sembra ripetersi.
FONTE: Stefano Bucci (corriere.it)

venerdì 7 marzo 2014

Martin Creed: la felicità è gioco da bambini



Alla Hayward Gallery di Londra la retrospettiva dell’ artista che fece suonare le campane alle Olimpiadi

Martin Creed, artista inglese tra i più noti della scena contemporanea, rende giustizia a quanti di noi avrebbero voluto portare a termine o almeno dare una forma compiuta a sogni d’infanzia, a progetti sconclusionati, a desideri senza una precisa razionalità, abbandonati proprio perché censurati dalla nostra parte adulta, dal nostro super Io, si sarebbe detto qualche tempo fa. Magari abbiamo immaginato di accumulare sedie, collezionare palloni di colori differenti, accostare oggetti fino a creare una mappa in cui non esistano le stesse coordinate della realtà, ma abbiamo desistito convinti che il nostro dovere in quel momento ci chiamava altrove. Peccato, allora, penserete, guardando lo strabiliante risultato raggiunto da Creed che, di immagine in immagine, ha creato installazioni visionarie e coerenti, come un calcolo matematico. 

Forse a sentirsi dare del coerente Creed si offenderebbe, come quando si prova a definire il suo lavoro concettuale. In un mondo come quello dell’arte contemporanea abituato da anni a qualsiasi estremismo di materia, forma, idea, il suo approccio ludico continua infatti a scandalizzare. Quando vinse nel 2001, il più prestigioso dei premi Made in Britain, il Turner Prize, furono in molti a gridare allo scandalo: la sua proposta era una stanza vuota in cui come diceva il titolo, sempre piuttosto letterale nel suo lavoro,Work No. 227: The lights going on and of, la luce si accendeva e spegneva ogni cinque secondi. Poi ci sono state le Olimpiadi a Londra, e allora Martin Creed per inaugurarle, ha pensato di fare suonare tutte le campane del paese per 3 minuti consecutivi senza eccezioni, compreso il Big Ben. Idee semplici, svuotate di qualsiasi intenzione progettuale e tanto più ideale, che vogliono mostrarci come tutto accada senza l’intervento della nostra volontà, sebbene ci piaccia illuderci del contrario. Idee che nella loro inconsistenza rispettano inaspettatamente un percorso, fino a creare un mondo con delle regole comprensibili più di quelle che siamo obbligati a seguire ogni giorno. 

E’ questa l’impressione che si ha visitando la grande retrospettiva, la prima che un’istituzione museale inglese dedica a questo artista, che nel frattempo ha esposto ovunque, molte volte in Italia, nato nel 1968 in Scozia da madre tedesca. Una grande mostra in cui Creed, insieme al curatore Cliff Lauson, ha potuto ripensare ogni spazio, dal primo piano alla terrazza, senza tralasciare nulla, neppure l’ascensore e ci racconta con il consueto aplomb quanto il nonsense possa svelarci della realtà. Che stiamo varcando l’ingresso di uno spazio in cui la quotidianità debba essere lasciata fuori lo si intuisce subito, dal ritmo delle luci e dei metronomi, 39 per l’esattezza, programmati per scandire ognuno un ritmo differente. E poi la grande scultura al neon Mothers che gira su se stessa e ci lascia lì a pensare con quanta apparente immediatezza possa evocarsi la più importante e complessa di tutte le relazioni. Presto incontriamo altri ritmi a scandire il resto del percorso: l’universo visivo di Martin Creed ha trovato nella musica la sua principale fonte di ispirazione e nella possibilità della ripetizione un appiglio per ordinare una serie di intuizioni. Un pianoforte bianco si apre e richiude creando scompiglio precisamente ogni quindici minuti, mentre sulla terrazza la più ordinaria delle utilitarie, grigia e anonima, prende vita aprendo tutti gli sportelli e i finestrini contemporaneamente per poi richiudersi subito dopo. 

La musica e poi il design, che vuole portare l’arte nella vita e renderla più bella attraverso un linguaggio comprensibile a tutti. Quello di Martin Creed lo è, molto più semplice di quello che si potrebbe pensare. Ecco così i muri della Hayward Gallery decorati con una serie di bande alternate alla stessa distanza, fino a formare una griglia optical bianco e rossa, o un sipario multicolor da sfondo a piccoli disegni, in dialogo con le fotografie, ritratti di amici spesso, persino con una serie discendente di cactus ordinati nei loro vasi o di travi in legno dalla base sempre più stretta. E poi i dipinti, quasi un campionario della pittura astratta, cosi come i colori sovrapposti uno dopo l’altro che sembrano voler scomporre ogni elemento delle opere in cornice o le sculture che vogliono arrivare, nella loro essenzialità, al grado zero della forma.  

E i mobili anche loro ordinati, ma non orizzontalmente come accade nel mondo reale, piuttosto impilati fino a formare una piramide improbabile, un tavolino in legno classico sopra un altro, bianco e minimale, e poi, per finire, una sedia. In una grande fotografia è immortalato un cane, che poi ritroviamo, animato protagonista di un video. Tutto torna, dialoga, viene ribadito. In fondo tutto era già deciso con il suo lavoro più noto, un classico ormai: Work No. 200. Half the air in a given space, una stanza riempita per metà da palloncini gonfiati e colorati dello stesso colore, nel caso di questa mostra londinese, il bianco. 

Chissà quanti di noi hanno pensato di riempire una stanza di palloncini gonfi fino a creare un morbido mare dove tuffarsi. Ma poi hanno rinunciato. Un peccato, davvero un peccato. Ma intanto ci si può rifare grazie a questa mostra che ha una domanda come titolo, «What is the point of it?», e la risposta sembra piuttosto chiara. 

MARTIN CREED, WHAT IS THE POINT OF IT?  
LONDRA, HAYWARD GALLERY  
FINO AL 27 APRILE  

FONTE: Elena Del Drago (lastampa.it)

giovedì 6 marzo 2014

Bonalumi la pittura come energia



Al Marca di Catanzaro una retrospettiva sul maestro delle «estroflessioni»

Nemmeno sei mesi fa, il 18 settembre 2013, moriva a Milano Agostino Bonalumi, protagonista del panorama artistico italiano degli Anni Sessanta. Oggi una solida mostra al Marca di Catanzaro, curata da Alberto Fiz e dal figlio dell’artista, Fabrizio (la prima dopo la sua scomparsa, ed è un segno della superficialità dei tempi che non sia stata realizzata nella sua città) ricostruisce tutta la sua ricerca, aiutando a comprendere, visivamente e per così dire tangibilmente, la particolarità del suo accento. 
Oltrepassato il grande Rosso, una scultura girevole del 2005 che accoglie il visitatore all’ingresso del museo, si entra nella prima sala al piano superiore. Ed è come penetrare immediatamente, con un salto all’indietro di oltre mezzo secolo, nell’atmosfera dei tardi anni Cinquanta. 

In una parete della sala troviamo opere in cui Bonalumi utilizza tessuto, rami, cemento: dialoga con Burri, ma in realtà anticipa anche l’Arte Povera. In un’altra parete ecco invece il suo primo capolavoro:Nero del 1959, la sua prima estroflessione. Sono gli anni (1959) in cui Piero Manzoni fonda con Castellani la rivista Azimuth. Bonalumi li aveva conosciuti nel 1957-58 e aveva esposto con loro sia alla Galleria Pater che al Prisma di Milano, ma si stacca presto dalla rivista, che esce solo in due numeri. Non partecipa nemmeno alle mostre che i due amici organizzano nella loro piccola galleria di via Clerici: Azimut (senza l’acca). Eppure la sua poetica affronta gli stessi problemi espressivi di Manzoni e Castellani. Muovendo dall’esperienza di Lucio Fontana, che invece di dipingere la tela l’aveva tagliata, Bonalumi vuole anche lui superare la pittura. E, invece di disegnare figure e cose, lavora con la tela stessa: la piega, la incurva, la flette. Lascia cioè che il telaio si dilati nello spazio, diventando un oggetto tridimensionale. Non si tratta più di porre un segno su una superficie, ma di trasformare la superficie in segno. Sospinta dall’interno, la tela si gonfia, si moltiplica, dà vita a una forma.  

Possiamo pensare al lavoro di Bonalumi, insomma, come a una meditazione sull’energia, sulle forze che creano il movimento, sul respiro delle cose. Il futurismo, oltre a Fontana, è il suo segreto punto di partenza. Il suo lavoro però dimostra che quell’energia, quelle forze e quel respiro non sono elementi viscerali. Sono elementi metafisici. Tutto avviene al di là del velo della tela, un velo che non è possibile sollevare. 

Quando Bonalumi inizia a ideare le sue estroflessioni è il periodo in cui l’informale ha raggiunto la maggiore diffusione ma anche la più insidiosa decadenza. È ormai una sorta di accademia: l’accademia dell’angoscia, come la definiva Longhi. I giovani aspirano invece a un’arte più mentale: alle tele grondanti di materia vogliono sostituire la ricerca del ritmo e della scansione spaziale; abbandonata l’unicità del gesto tendono alla ripetizione del segno; anziché la soggettività delle pulsioni vogliono esplorare il non-io, costruire un’opera che sia oggettività e oggetto. L’informale aveva espresso l’urlo, l’istinto immediato, l’evento: ora si cerca l’atto meditato, il progetto.  

E il silenzio: «Non c’è nulla da dire, c’è solo da essere, c’è solo da vivere», scrive Manzoni. In Bonalumi, come si vede nelle sale successive della mostra, la tela estroflessa si articola in molti modi: in ovali, ellissi, quadrati, rettangoli, circonferenze, rigonfiamenti a finestra, a tastiera, a colonnine di mercurio. A partire dal 1966 il contorno stesso dell’opera tende a tradire la convenzionale forma del quadro. E dal 1967 è l’ambiente a lievitare intorno allo spettatore. Lo si vede in Bianco del 1969, una installazione di tredici pannelli estroflessi, mai più esposta dopo la personale alla Galleria del Naviglio del 1969 e ora riproposta nel lungo corridoio del museo: un’opera in cui Bonalumi si dimostra un anticipatore dell’arte ambientale. 

Antipittura, dunque? Non del tutto, perché la nostalgia del colore non lo abbandona mai. A differenza di Manzoni e Castellani, Bonalumi non vuole rinunciare alla bellezza di un blu, di un verde, di un rosso. È fondamentalmente questo il motivo del suo distacco da Azimuth. Nelle sue opere, come si vede in una delle sale centrali della rassegna, la dimensione cromatica emerge con evidenza: il suo è un colore mentale, antimaterico, eppure intenso. Non è un caso che fino all’ultimo (la mostra si sofferma a lungo anche sulle opere più recenti dell’artista) la sua preoccupazione sia stata la ricerca cromatica. Racconta Fabrizio Bonalumi in un’intervista riportata nel catalogo (Silvana): «Non ha mai smesso di cercare. Quando è entrato in ospedale nel settembre del 2013 nessuno s’immaginava fosse l’ultima volta; sembravano dei normali controlli, invece, di giorno in giorno, le sue condizioni sono peggiorate. Sino all’ultimo istante, però, la sua mente era proiettata verso le creazioni future e il giorno prima di morire mi ha chiesto se il colorificio aveva consegnato le tinte, in particolare un acrilico viola».  

AGOSTINO BONALUMI  
CATANZARO, MUSEO MARCA  
VIA ALESSANDRO TURCO, 63  
FINO AL 31 MAGGIO  

FONTE: Elena Pontiggia (lastampa.it)