giovedì 6 marzo 2014

Bonalumi la pittura come energia



Al Marca di Catanzaro una retrospettiva sul maestro delle «estroflessioni»

Nemmeno sei mesi fa, il 18 settembre 2013, moriva a Milano Agostino Bonalumi, protagonista del panorama artistico italiano degli Anni Sessanta. Oggi una solida mostra al Marca di Catanzaro, curata da Alberto Fiz e dal figlio dell’artista, Fabrizio (la prima dopo la sua scomparsa, ed è un segno della superficialità dei tempi che non sia stata realizzata nella sua città) ricostruisce tutta la sua ricerca, aiutando a comprendere, visivamente e per così dire tangibilmente, la particolarità del suo accento. 
Oltrepassato il grande Rosso, una scultura girevole del 2005 che accoglie il visitatore all’ingresso del museo, si entra nella prima sala al piano superiore. Ed è come penetrare immediatamente, con un salto all’indietro di oltre mezzo secolo, nell’atmosfera dei tardi anni Cinquanta. 

In una parete della sala troviamo opere in cui Bonalumi utilizza tessuto, rami, cemento: dialoga con Burri, ma in realtà anticipa anche l’Arte Povera. In un’altra parete ecco invece il suo primo capolavoro:Nero del 1959, la sua prima estroflessione. Sono gli anni (1959) in cui Piero Manzoni fonda con Castellani la rivista Azimuth. Bonalumi li aveva conosciuti nel 1957-58 e aveva esposto con loro sia alla Galleria Pater che al Prisma di Milano, ma si stacca presto dalla rivista, che esce solo in due numeri. Non partecipa nemmeno alle mostre che i due amici organizzano nella loro piccola galleria di via Clerici: Azimut (senza l’acca). Eppure la sua poetica affronta gli stessi problemi espressivi di Manzoni e Castellani. Muovendo dall’esperienza di Lucio Fontana, che invece di dipingere la tela l’aveva tagliata, Bonalumi vuole anche lui superare la pittura. E, invece di disegnare figure e cose, lavora con la tela stessa: la piega, la incurva, la flette. Lascia cioè che il telaio si dilati nello spazio, diventando un oggetto tridimensionale. Non si tratta più di porre un segno su una superficie, ma di trasformare la superficie in segno. Sospinta dall’interno, la tela si gonfia, si moltiplica, dà vita a una forma.  

Possiamo pensare al lavoro di Bonalumi, insomma, come a una meditazione sull’energia, sulle forze che creano il movimento, sul respiro delle cose. Il futurismo, oltre a Fontana, è il suo segreto punto di partenza. Il suo lavoro però dimostra che quell’energia, quelle forze e quel respiro non sono elementi viscerali. Sono elementi metafisici. Tutto avviene al di là del velo della tela, un velo che non è possibile sollevare. 

Quando Bonalumi inizia a ideare le sue estroflessioni è il periodo in cui l’informale ha raggiunto la maggiore diffusione ma anche la più insidiosa decadenza. È ormai una sorta di accademia: l’accademia dell’angoscia, come la definiva Longhi. I giovani aspirano invece a un’arte più mentale: alle tele grondanti di materia vogliono sostituire la ricerca del ritmo e della scansione spaziale; abbandonata l’unicità del gesto tendono alla ripetizione del segno; anziché la soggettività delle pulsioni vogliono esplorare il non-io, costruire un’opera che sia oggettività e oggetto. L’informale aveva espresso l’urlo, l’istinto immediato, l’evento: ora si cerca l’atto meditato, il progetto.  

E il silenzio: «Non c’è nulla da dire, c’è solo da essere, c’è solo da vivere», scrive Manzoni. In Bonalumi, come si vede nelle sale successive della mostra, la tela estroflessa si articola in molti modi: in ovali, ellissi, quadrati, rettangoli, circonferenze, rigonfiamenti a finestra, a tastiera, a colonnine di mercurio. A partire dal 1966 il contorno stesso dell’opera tende a tradire la convenzionale forma del quadro. E dal 1967 è l’ambiente a lievitare intorno allo spettatore. Lo si vede in Bianco del 1969, una installazione di tredici pannelli estroflessi, mai più esposta dopo la personale alla Galleria del Naviglio del 1969 e ora riproposta nel lungo corridoio del museo: un’opera in cui Bonalumi si dimostra un anticipatore dell’arte ambientale. 

Antipittura, dunque? Non del tutto, perché la nostalgia del colore non lo abbandona mai. A differenza di Manzoni e Castellani, Bonalumi non vuole rinunciare alla bellezza di un blu, di un verde, di un rosso. È fondamentalmente questo il motivo del suo distacco da Azimuth. Nelle sue opere, come si vede in una delle sale centrali della rassegna, la dimensione cromatica emerge con evidenza: il suo è un colore mentale, antimaterico, eppure intenso. Non è un caso che fino all’ultimo (la mostra si sofferma a lungo anche sulle opere più recenti dell’artista) la sua preoccupazione sia stata la ricerca cromatica. Racconta Fabrizio Bonalumi in un’intervista riportata nel catalogo (Silvana): «Non ha mai smesso di cercare. Quando è entrato in ospedale nel settembre del 2013 nessuno s’immaginava fosse l’ultima volta; sembravano dei normali controlli, invece, di giorno in giorno, le sue condizioni sono peggiorate. Sino all’ultimo istante, però, la sua mente era proiettata verso le creazioni future e il giorno prima di morire mi ha chiesto se il colorificio aveva consegnato le tinte, in particolare un acrilico viola».  

AGOSTINO BONALUMI  
CATANZARO, MUSEO MARCA  
VIA ALESSANDRO TURCO, 63  
FINO AL 31 MAGGIO  

FONTE: Elena Pontiggia (lastampa.it)

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