sabato 8 marzo 2014

Due secolo d'oro degli Estensi


A Venaria gli splendori della corte di Ferrara e Modena. Capolavori della provincia che divenne capitale del Barocco
L’occasione, certo drammatica, è stata la chiusura della Galleria Estense di Modena per il terremoto del 29 maggio 2012: «Speriamo di riaprirla entro l’anno» spiega il soprintendente ai Beni storici, artistici ed etnoantropologici di Modena e Reggio Emilia, Stefano Casciu, curatore anche della mostra Splendori delle corti italiane: gli Este, che si inaugura sabato 8 marzo nelle Sale delle Arti della Reggia di Venaria, quelle che avevano già ospitato il Cavalier calabrese Mattia Preti, Veronese e Bassano.
Una quarantina di opere sulle novantuno presenti, divise in nove sezioni, arriva appunto dalla Galleria Estense: «Siamo stati molto generosi , ma ne valeva la pena» ammette Casciu. Ci sono però altri prestiti eccellenti: dalla Collezione dei principi Liechtenstein arriva l’Apoteosi di Ercole del Garofalo; da Cracovia Il Giove pittore di farfalle di Dosso Dossi; dalla Palatina di Firenze il Ritratto di Tommaso Mosti di Tiziano; dagli Uffizi il Riposo nella fuga in Egitto del Correggio.
Il risultato è un itinerario artisticamente sospeso tra Umanesimo, Rinascimento e Barocco; geograficamente in bilico tra Ferrara (sede originaria e capitale del primo dominio estense) e Modena (che ne diventerà la capitale dal 1598, dopo la restituzione forzata dei territori ferraresi al dominio diretto del Papa); criticamente giocato sul collezionismo e il mecenatismo di un casato (uno dei più longevi d’Italia) che nelle sue stanze, più o meno private, aveva saputo riunire capolavori di Cosmè Tura, Tintoretto, Guercino, Velázquez, Antonio Lombardo, i Carracci, Guido Reni, Salvator Rosa.
Si tratta di opere uniche nel loro genere anche quando non si parla di tele dipinte o di marmi scolpiti, destinati a raccontare la storia degli Este (detti anche Estensi) come mecenati e collezionisti nei due secoli d’oro della loro committenza (il Cinquecento e il Seicento). E se a Venaria non ci sarà il bellissimo busto di Francesco I del Bernini che resterà nella Galleria modenese, chiuso in uno scrigno di legno, ci saranno invece i volumi e i codici che documentano lo strettissimo legame dei duchi con l’Ariosto e altri abitualmente inamovibili da Modena, che a loro volta ne celebrano la passione musicale (Gesualdo da Venosa e Girolamo Frescobaldi composero per gli Este madrigali, capricci, concerti). Come il violoncello barocco di Domenico Galli e l’arpa in legno d’acero e pero verniciato, commissionata dal duca Alfonso II per il concerto delle dame principalissime di Margherita Gonzaga, la stessa arpa riprodotta, tra il 1969 e il 1981, sulle banconote italiane da mille lire.
Questa mostra (che apre la stagione 2014 della Reggia di Venaria e che sarà la prima di una serie interamente incentrata sulle corti italiane), assicura Casciu, «rappresenta una buona possibilità per far conoscere e promuovere non solo i tesori della Galleria di Modena, uno dei più importanti musei nazionali, una collezione amatissima da Adolfo Venturi, padre nobile modenese della storia dell’arte, ma anche di tutto il territorio, come il Palazzo Ducale di Sassuolo ». La chiusura di un museo, d’altra parte, è ormai diventata un’opportunità di promozione: lo dimostra il tour mondiale della Ragazza con l’orecchino di perla di Vermeer (fino al 25 maggio a Bologna, Palazzo Fava) scaturito appunto dalla chiusura temporanea della Pinacoteca Mauritshuis de L’Aia. Più volte Casciu (55 anni, «un giovane rispetto alla media dei soprintendenti italiani») ribadisce però «che le mostre non devono mai dimenticare il loro compito didattico-educativo, mentre oggi sempre più spesso si tratta di eventi, dione man show, che privilegiano l’aspetto economico».
Dunque, gli splendori della corte estense. Splendori che sembrano aver spesso guardato ben oltre l’orizzonte del proprio tempo. In mostra c’è, ad esempio, il Libro dei diversi terremoti di Pirro Ligorio (1513-1583), napoletano trapiantato alla corte di Alfonso II d’Este, «un vero diario, ancora attualissimo», dello sciame sismico che colpì Ferrara dal novembre 1570 al gennaio 1571 (le scosse durarono fino al 1574), distruggendo il 40 per cento delle abitazioni e la maggior parte degli edifici pubblici e delle chiese. Secondo Casciu «un momento di riflessione, magari non gioioso, ma necessario». Un’esposizione scientifica «che farà conoscere le vicende che hanno trasformato una piccola città di provincia in una capitale del Barocco».
Charles de Brosses, ministro francese e connoisseur, nel suo Il viaggio in Italia (1739) descrive così la Galleria al suo massimo splendore: «Il Duca possiede indubbiamente la più bella galleria d’Italia, non la più ricca, ma la meglio conservata, la meglio ordinata, quella sistemata con gusto migliore. Qui tutto è squisito; in ogni stanza un piccolo numero di quadri, mirabilmente incorniciati e appesi in modo ben visibile su stoffe di damasco. Essi sono sistemati in ordine crescente di bellezza: in ogni nuova stanza Lei troverà quadri più belli che nella precedente».
Pochi anni dopo, nel 1746, per risanare le esauste finanze del Ducato dopo le guerre di successione polacca e austriaca, il duca Francesco III d’Este avrebbe poi venduto (per 100 mila zecchini) i cento più pregiati quadri della Galleria ad Augusto III re di Polonia e principe elettore di Sassonia, che li avrebbe trasferiti a Dresda, creando il nucleo dell’attuale Gemäldegalerie. Anche in questo caso la storia — se osserviamo che cos’è successo a Detroit e Lisbona in bancarotta — sembra ripetersi.
FONTE: Stefano Bucci (corriere.it)

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