mercoledì 30 aprile 2014

Botticelli, Antonello da Messina e il Verrocchio "architetti" a Londra


Il pubblico sarà così incoraggiato ad osservare con nuovi occhi gli edifici e gli spazi reali o immaginari raffigurati nei dipinti. 

Mentre prosegue la granderetrospettiva su Veronese, che a luglio arriverà anche a Verona, dal 30 aprile al 21 settembre 2014 la National Gallery di Londra presenterà al pubblico un approfondimento sulle architetture rinascimentali italiane. 
Building the Picture: Architecture in Italian Renaissance Painting" accompagnerà l'occhio verso l'orizzonte, gli edifici, le ambientazioni e i paesaggi urbani tra il XIV e il XVI secolo, andando oltre i personaggi della scena. 

In mostra saranno presenti alcuni grandi capolavori del museo, opera di artisti come Duccio di Buoninsegna, Botticelli, Crivelli e Antonello da Messina. Il pubblico sarà così incoraggiato ad osservare con nuovi occhi gli edifici raffigurati nei dipinti e a domandarsi come gli artisti abbiano inventato spazi immaginari capaci di trascendere la realtà di mattoni, malta e marmo. 

L'evento è inoltre il risultato di un accordo di ricerca tra la National Gallery e la University of York, e offrirà un'interpretazione innovativa di alcune opere, sia della collezione rinascimentale italiana della galleria, sia di altre raccolte. Oltre agli artisti già citati, infatti, il percorso includerà anche il "Giudizio di Salomone" del maestro veneto Sebastiano del Piombo, che arriverà dalle collezioni di Kingston Lacy a Londra per la prima volta dopo 30 anni, e la "Madonna Ruskin" di Andrea del Verrocchio, proveniente dalla National Gallery of Scotland. 

Accanto alla mostra sono stati realizzati cinque cortometraggi, che presenteranno architetture reali ed immaginarie in chiave moderna. La produzione di questi video ha coinvolto l'architetto svizzero Peter Zumthor, la regista e produttrice inglese Martha Fiennes e alcuni esperti e storici dell'arte e del cinema. 

FONTE: E. Bramati (arte.it)

lunedì 28 aprile 2014

Dall'autoritratto al selfie: un libro su come si è perpetuato il mito di Narciso



Cosa ne è stato dell’autoritratto nel mondo della “riproducibilità tecnica”? Un’esplosione di selfie, inviati su scala globale attraverso i social network. 
La parola, da poco entrata nel dizionario Oxford dell’inglese parlato, è diventata di uso comune grazie alla grande diffusione delle macchine compatte digitali, e degli smartphone dotati di sensore adeguato. A volte il termine viene usato anche a sproposito. In un sito di fotografie online, a corredo di una galleria di ritratti di uomini illustri del Cinquecento, compariva la seguente didascalia: «I musei sono pieni di selfie del Rinascimento». Ma come si è arrivati a questa vera e propria ossessione per l’autoscatto (più o meno artistico), e l’autoritratto in generale? Da dove nasce la mania, tutta moderna, del mito di Narciso, innamorato della propria effigie?

IL SAGGIO
Un libro appena pubblicato, L’autoritratto - una storia culturale (Einaudi, 288 pagine, 28 euro) cerca di rispondere a questa domanda, mostrando come, attraverso i secoli, l’uomo, e gli artisti in particolare, abbiano cercato di raffigurare se stessi, dai primi scriba che fanno capolino nelle pergamene delle miniature medioevali, fino al boom del Rinascimento e all’esordio della fotografia e della scultura auto-referenziale. L’autore, il critico e storico dell’arte britannico James Hall, non usa mai la parola fatidicaselfie, ma utilizza il self-portrait come grimaldello per capire il fenomeno, per comprendere come siamo arrivati a questo punto. Un uomo allo specchio, presumibilmente l’autore, appare per la prima volta, con tutta la sua potenza espressiva, ne I coniugi Arnolfini, del pittore fiammingo Jan van Eyck, e nello stupefacente Uomo col turbante, che a metà del Quattrocento può ben dirsi il primo cultore dell’autoritratto. Ma è proprio lo specchio, e la sua diffusione nel mondo, che scatena la moda di ritrarre la propria immagine, e di utilizzarla come mezzo di promozione personale, così come oggi si mette la nostra foto meglio riuscita nella home page del social network preferito. Lorenzo Ghiberti compare con un altro turbante in una delle porte settentrionali del Battistero di Firenze, dove è possibile vederlo ancora oggi. Ma è il Rinascimento che consente l’esplosione del fenomeno, e l’ascesa di un nuovo tipo di artista, eroico e sensuale. Albrecht Dürer ritrae se stesso da bambino, in età giovanile e matura, esibendo una capigliatura fluente e articolata, in pose simili a quelle di un moderno Jesus Christ Superstar.

CARICATURE
Ben più severo (ma non per questo meno ironico) era il divino Michelangelo Buonarroti, autore di un autoritratto caricaturale abbozzato a corredo di un sonetto sulla pergamena che, come Giorgione, prende gusto a identificarsi con il giovane e mitico Davide. Il che, scrive Hall, «suggerisce una concezione dell’arte nuova, più iconoclastica, dove il giovane abbatte il vecchio e dove il genio è innato più che appreso». Celebre è l’autoritratto di Raffaello, vanto degli Uffizi. E desta ancor oggi stupore quello del Pamigianino, dipinto come se fosse stato copiato da uno specchio convesso, del tipo di quelli utilizzati da tante dame e pittori. Desta ammirazione anche l’autoritratto in miniatura di Sofonisba Anguissola, dipinto su un medaglione, che reca le stilizzate iniziali del nome del padre; ma è un’altra rara pittrice del suo tempo, Artemisia Gentileschi, a diventare “eroica” a sua volta, con la sua Allegoria della pittura, probabilmente dipinto alla corte di Carlo I d’Inghilterra, con quella posa di tre quarti, che cerca di eguagliare l’imponenza fisica dei corpi di Michelangelo, e il suo modo di rappresentare l’arte come una passione di rara intensità. Molto più tardi sarà Frida Kahlo a raccontare con simile passione i propri tormenti fisici e interiori.

DAVIDE E GOLIA
Poi vengono gli autoritratti “eroicomici”, e qui è Caravaggio a farla da padrone. Nel Bacchino malatoappare con una posa sfrontata, e l’aspetto cadaverico; al contrario di altri suoi colleghi, dona la testa a Golia, appena ucciso da Davide. Simile ironia aveva mostrato il Buonarroti, che nel Giudizio universale donava le sue sembianze alla pelle scorticata di San Bartolomeo, che possiamo rimirare nella Cappella Sistina.

Un “selfie” più intimista, più autoreferenziale, è la comparsa dello studio dell’artista in certe opere di Nicolas Poussin. Ma è Jan Vermeer a far esaltare l’atelier personale (che non era certo quello raffigurato) nell’Arte della pittura. E inarrivabile resta il quasi contemporaneo Las Meninas, di Diego Velázquez. Il pittore appare a margine della scena, intento a dipingere, probabilmente, il re la regina. Una vera «teologia della pittura», come la definì Luca Giordano.

Un altro “fissato” era Rembrandt, che esibiva volentieri i capelli scarmigliati e il naso rosso della maturità in tanti quadri celebri. L’inglese Joshua Reynolds e, soprattutto, il francese Gustave Courbet, seppero rompere gli schemi, con le braccia alzate in posizioni insolite, con giochi di luce e situazioni mai osate. Ma il vero rivoluzionario fu Van Gogh, con le sue pennellate nervose, l’arancio acceso della barba e l’orecchio mozzato, o la semplice sedia dell’artista, delegata a rappresentare il suo aspetto.

ESIBIZIONISMO
Di qui, arrivare a Picasso, a Andy Warhol e Giuseppe Penone il passo è breve. Se l’inventore della Pop Art seppe spingere il narcisismo al suo massimo storico (e fu duramente attaccato per questo), oggi sculture come quelle di Jeff Koons con Ilona Staller non rievocano altro che vuoto esibizionismo. Ben diverse le installazioni del giapponese Orimoto Tatsumi. Con la serie Art Mama ha raccontato un dramma personale, quello della madre malata di Alzheimer. In una foto si vede l’artista con i genitori in una casa tradizionale, che fanno capolino da una scatola di cartone.

FONTE: Riccardo De Palo (ilmessaggero.it)

domenica 27 aprile 2014

IOANNES, LA STORIA DEI PAPI SANTI ATTRAVERSO L'ARTE


Due papi santi in un solo giorno: cresce l'attesa

La canonizzazione di papa Roncalli e papa Wojtyla vista attraverso l’arte. Questa sera, alle 21.10, SkyArteHd presenta “Ioannes. Storie di Santi” di Mario Paloschi e Gianluigi Attorre che, dedicato a Giovanni XIII e Giovanni Paolo II, in un viaggio iconografico nel Sacro attraverso i secoli, punta l’attenzione sul nome di entrambi, Giovanni, Battista per il primo in onore del padre, Evangelista il secondo, ereditando il nome del suo predecessore papa Luciani.
 Prendendo le mosse dal discorso di elezione dei due papi, il video-racconto seguirà la rappresentazione iconografica dei due patriarchi della chiesa, Giovanni il Battista e Giovanni Evangelista. 
Vite e prodigi dei due santi dunque saranno ripercorsi attraverso le opere dei grandi artisti analizzate seguendo l’evoluzione della rappresentazione e della simbologia nei diversi periodi storici e nelle influenze dettate dalle correnti artistiche.
 
Il contesto è quello della Basilica di San Giovanni in Laterano, cattedrale dedicata al Battista e all’Evangelista, dove i due pontefici, dopo una settimana dalla loro nomina, si insediano come vescovi di Roma.

FONTE: Valentina Arnaldi (leggo.it)

venerdì 25 aprile 2014

Warhol e i suoi volti. Roma ricorda il padre della Pop art

Warhol e i suoi volti. Roma ricorda il padre della Pop art


Oltre 150 opere dell'acclamato artista americano, icona della cultura "popolare" mondiale dagli anni Sessanta in poi, in mostra nel museo Fondazione di Palazzo Cipolla. Sino al 28 settembre


Marilyn Monroe, Mao e Liz Taylor. Tre nomi che sono diventati icone ora sono in mostra insieme, per la mostra "Warhol" al Museo Fondazione Roma, in compagnia di altri volti noti ritratti in maniera inconfondibile da colui che è considerato padre della Pop Art. L'esposizione, curata da Peter Brant con il contributo di Francesco Bonami, è una retrospettiva che, dopo la tappa milanese a Palazzo Reale, dove ha contato 225mila visitatori, arriva nella capitale, a Palazzo Cipolla dal 18 aprile fino al 28 settembre. Sono esposte tele, serigrafie, foto, tutte provenienti dalla Brant Foundation di Peter Brant, grande collezionista oltre che amico di Warhol. Acquistò il suo primo lavoro nel 1967 per pochi dollari poi non smise mai, per oltre quaranta anni: oggi quel tesoro artistico, e ormai anche storico, è in buona parte in mostra. 


Ci sono molti dei pezzi più rappresentativi di Warhol, tra cui una delle quattro Marilyn del 1964, la "Shot  Ligth Blue". Ci sono anche i primi "Flowers" e "Campbell's Sup". Oltre ai lavori più noti, ce ne sono anche alcuni meno visti. A parte "Ladies & Gentlemen", la serie dedicata alle Drag Queens di New York, stupiscono, in mezzo alle opere più famose e colorate, quelle meno conosciute come "Oxidation Painting" realizzata nel 1978. Si tratta di una tela di circa due metri di lunghezza, dipinta non con i soliti colori fluorescenti, ma con pigmenti di rame e urina. Nella mostra c'è spazio anche per un'insolita sezione interamente dedicata alle famose polaroid: qui si ritrovano proprio tutti i protagonisti di un'epoca, immortalati da vicino e nel pieno del loro successo, dal collezionista e gallerista Leo Castelli a cui Warhol scattò la foto nel 1972, allo stilista Yves Saint-Laurent ritratto nello stesso anno, sempre con la macchina fotografica istantanea. Nel 1975 Warhol non si fece sfuggire un Mick Jagger sbarbato e a torso nudo, a fine anni Settanta incluse nella sua galleria, tra i tanti nomi, Pele e Liza Minelli. 

Non dimenticò nessuno neppure negli anni Ottanta, quando con la sua polaroid rubò la giovinezza di Sylvester Stallone, Diana Ross, Jane Fonda. Una intera sezione è dedicata alla "Silver factory": il leggendario studio creato nel 1962 in un edificio ormai demolito in Midtown Manhattan, spazio che fece da ritrovo  -  officina a un'intera generazione di artisti. A Palazzo Cipolla l'atmosfera di quel luogo e momento storico è ricreata con l'argento alle pareti, proprio come erano al quinto piano di 231 East 47th Street, dove la carta stagnola e la vernice d'argento circondavano tutta l'arte che stava nascendo.



INFORMAZIONI UTILI
"Warhol" 
Mostra a cura di Peter Brant con Francesco Bonami 
Fondazione Roma Museo  -  Palazzo Cipolla Via del Corso, 320
Date: Dal 18 aprile al 28 settembre 2014
Biglietti: Intero € 14 (audioguida inclusa) Ridotto € 12 (audioguida inclusa)
Orari: Lunedì dalle 14 alle 20 Da martedì a domenica dalle 10 alle 20 
(la biglietteria chiude un'ora prima)  Aperture straordinarie: 20, 21, 25 aprile, 1 maggio, 2 e 29 giugno, 15 agosto (10-20)

FONTE: Valentina Bernabei (repubblica.it)

giovedì 24 aprile 2014

La patologia dei complottisti

Una categoria che vede trame anche dove non ce ne sono

Il complottismo è una malattia culturale che distorce la percezione della storia mentre dà l’impressione di poterla finalmente dominare. Si immagina una dimensione occulta dove è nascosta la verità, una stanza nascosta dove i registi malvagi fanno e disfano i destini dell’umanità. Ma crea mostri fantastici.

I complottisti dicono: ma i complotti esistono! Certo, anche le stelle esistono, ma l’astrologia non è la chiave migliore per capirne la logica e la natura. Anche in Italia ci sono stati episodi della storia ancora poco chiari, manovre, stragi, strategie terroristiche, malefatte del potere. Ma il complottismo applicato alla storia italiana ha creato un nuovo catechismo, non il chiarimento di quei punti oscuri. Massimo Teodori e Massimo Bordin nel libro Complotto!, edito da Marsilio (pp. 222, e 14,50), raccontano punto per punto tutti i tasselli del mosaico complottista che il perfetto complottista nazionale ha imparato a padroneggiare grazie a una pubblicistica vastissima quanto ripetitiva. I complottisti amano rappresentarsi come gli autori della «vera storia d’Italia» (memorabile titolo con cui venne pubblicato l’atto d’accusa, poi in massima parte smentito dalle sentenze, dell’inchiesta che doveva inchiodare Giulio Andreotti a Palermo): la «controstoria d’Italia». 


Controstoria d’Italia (anti-complottista)
Ecco, Teodori e Bordin scrivono, ciascuno nel proprio ambito, una «contro-controstoria d’Italia», in chiave anticomplottista. Cominciando dalla fine, gli autori spiegano quali sono le ultime varianti del paradigma complottista. Un paradigma così potente da poter trasmigrare da sinistra a destra per poi tornare a sinistra, se del caso. Adesso i campioni del complottismo italiano sono tre. Uno è quello che tenta il centrodestra berlusconiano. Il quale, invece di riflettere sul bilancio fallimentare di un ciclo politico, o comunque sull’estenuazione di una formula politica che sembra, si sarebbe detto un tempo, aver esaurito la propria spinta propulsiva, si lancia in spiegazioni cospirazioniste, al limite dell’autolesionismo. Perché non sono state fatte le riforme promesse? Perché un complotto delle «toghe rosse» ha brigato per detronizzare Berlusconi. Oppure perché dei nemici interni (Follini, Casini, Fini, Alfano) gli hanno impedito di governare come avrebbe voluto. E perché si è passati al governo Monti per sostituire uno sfibrato governo Berlusconi? Perché un complotto architettato dalla Merkel e dai «poteri forti», dalle banche e dalla speculazione internazionale ha deciso un colpo di Stato contro il leader del centrodestra italiano. Il complottismo solitamente non è nel mondo materia delle destre liberali. In Italia è diverso. Non per colpa di un complotto, ma forse perché la destra italiana non è liberale.


Il Movimento Cinque Stelle
Un’altra potentissima calamita di umori complottisti è il movimento di Beppe Grillo. Qui, come si spiega con dovizia di particolari nel libro di Teodori e Bordin, ogni fantasticheria ha la sua degna collocazione, ogni paranoia viene coltivata, vezzeggiata, presa in considerazione, denunciata, creduta. Creduta addirittura nelle sue forme più bizzarre e stravaganti, fino ad atterrare nelle elucubrazioni di un parlamentare che dice di sapere come le potenze occulte americane abbiano già provveduto a inserire misteriosi microchip sotto la pelle di chissà quanti milioni di ignari esseri umani.
Il terzo terreno in cui il complottismo trova in questi ultimi tempi terreno fertile è quello relativo alla cosiddetta e presunta «trattativa Stato-mafia», in cui, secondo Massimo Bordin che ne scrive diffusamente, ci si trova a «utilizzare in alcuni passaggi fondamentali schemi logico-interpretativi propri delle cosiddette teorie del complotto». Al di là della traduzione in campo giudiziario (un processo è aperto a Palermo), quello schema storiografico prevede che il «complotto» (la trattativa) possa gettare una luce sinistra e inquietante su ogni passaggio della storia italiana, fino a ricondurre a esso ogni singolo frammento della politica, in una concatenazione logica che tutto appiattisce. Uno schema ossessivo e asfissiante, che criminalizza comportamenti riletti alla luce del paradigma complottista e si affida alla ricostruzione di improbabili pentiti e testimoni cui non sembra vero di apparire come i nuovi narratori della storia italiana. Della «vera» storia italiana, occulta e ben occultata dai suoi criminali protagonisti.
Il racconto del libro si srotola lungo i decenni, prendendo in considerazione, e smontandoli con fatti e argomenti convincenti, tutti i passaggi in cui lo schema si concretizza. La teoria complottista dello sbarco alleato in Sicilia in combutta con la mafia. La teoria complottista sul presunto colpo di Stato, poi passato alla storia come «Piano Solo». La teoria complottista sulle finalità e l’origine della P2. Qui il racconto di Massimo Teodori si svolge in un intreccio di ricostruzione storica e testimonianza personale, giacché Teodori partecipò come deputato radicale ai lavori della commissione parlamentare presieduta da Tina Anselmi ed ebbe modo di visionare una gran mole di documenti. E il giudizio sulle conclusioni della «versione Anselmi» appare oggi drastico, perché divennero «la verità obbligata sulla loggia», destinata ad avere «un’influenza deformante» sulla vulgata. Secondo Teodori «sono trent’anni che si spaccia la patacca P2 come il grande complotto dietro i tanti misteri dell’Italia repubblicana». Una vulgata che ancora oggi non accenna a svanire nelle interpretazioni più in voga della storia italiana.


Senza dimenticare i Radicali

Per chi è addentro alle cose della politica non sfuggirà certo il capitolo del libro in cui Teodori, una lunga militanza radicale alle spalle, come del resto quella di Bordin, che di Radio Radicale è stato direttore fino a pochissimi anni fa, ricostruisce anche la parabola politica di Marco Pannella come molto vulnerabile al complottismo. Meravigliosa, per uscire dal terreno della storia italiana, è invece la citazione di Mordecai Richler messa a epigrafe del libro: «Il mio problema con i teorici della cospirazione è che, se gli dai un dito di porcherie accertate, loro si prendono tutto un braccio di fantasie. O peggio». È quello che succede, purtroppo, ancora oggi.

FONTE: Pierluigi Battista (corriere.it)

mercoledì 23 aprile 2014

Van Gogh-Artaud dialogo tra grandi “folli”


A Parigi i capolavori del pittore in mostra seguendo un testo del drammaturgo

«Van Gogh era uno squilibrato con eccitazioni violente di tipo maniacale, con scatenamenti brutali come manie rabbiose (…) La sua mancanza di ponderazione mentale si rivelava nell’eccentricità: ingoia colori, minaccia Gauguin e il dottor Gachet, esce di notte per dipingere alla luce di una corona di candele fissata sul cappello. Ossessionato da idee di autocastrazione, si mozza il lobo di un orecchio…» Queste sono alcune righe di un testo su Van Gogh dello psichiatra François-Joachim Beer pubblicato su una rivista nel gennaio 1947, quando al museo dell’Orangerie è in corso una mostra retrospettiva dell’artista.  
Bisogna ringraziare Beer perché è proprio questo suo commento (uno dei tanti incentrato sulla follia dell’olandese) a scatenare l’indignazione di Antonin Artaud e a spingerlo a scrivere il memorabile saggioVan Gogh, le suicidé de la société. Il saggio è un lucido atto di accusa contro la società (e la sua «coscienza malata») che secondo lui aveva spinto Van Gogh al suicidio per impedirgli di manifestare verità insopportabili.  

Ed è in particolare una denuncia della violenza del sistema psichiatrico e delle pratiche «terapeutiche» dell’internamento, di cui lui stesso era ancora vittima. A consigliargli di scrivere un testo su Van Gogh, in occasione dell’esposizione, era stato l’amico gallerista Pierre Loeb. Inizialmente Artaud rifiuta, perché sta lavorando alla sua raccolta di scritti che deve uscire da Gallimard, ma poi accetta per reagire a Beer. Visita la mostra e studia delle monografie, entrando in sintonia profonda con lo spirito dell’artista (con cui in parte si identifica). In circa un mese scrive e in parte detta (a Pauline Thévenin) il testo, che viene pubblicato alla fine del 1947. La decisione del Musée d’Orsay di organizzare un’esposizione incentrata sul rapporto e il dialogo a distanza fra i due grandi «folli» Van Gogh e Artaud, è legata a queste significative vicende.  

Non si tratta certo di una trovata ad effetto, ma di un’intelligente maniera di riproporre da un lato una inedita rilettura di quarantacinque quadri del pittore, in gran parte celebri (che provengono da musei come lo stesso d’Orsay, il Metropolitan, la National Gallery di Washington, e soprattutto dal Van Gogh Museum di Amsterdam) e dall’altro lato uno straordinario gruppo di grandi disegni di Artaud, in particolare i suoi esplosivi e allucinati autoritratti (realizzati negli Anni 40).  

Il percorso espositivo delle opere di Van Gogh è articolato in una serie di sezioni che fanno diretto riferimento alle considerazioni e analisi dello scrittore, tanto che si potrebbe dire che Artaud, non è solo uno dei protagonisti della mostra, ma anche, in un certo senso, il curatore. Ed è con il suo occhio, con la sua mente e con le sue appassionate interpretazioni, che il pubblico è sollecitato a riesaminare e riscoprire i dipinti di Van Gogh: gli autoritratti; la spoglia stanzetta di Arles; la sedia di Gauguin; il pacifico ritratto di Père Tanguy e quello melanconico del dottor Gachet; le vecchie e bituminose vecchie scarpe o le due struggenti aringhe su un piatto (donate a Signac); i contorti paesaggi con cipressi e i cieli stellati; i suoi fiori; e infine gli ultimi desolati campi di grano dipinti a Auvers-sur-Oise appena prima di morire il 29 luglio 1890.  

Le analisi di Artaud sono di folgorante acutezza. Ecco qualche esempio. Sulla «terribile sensibilità» degli autoritratti: «Un matto Van Gogh? (…) Io non conosco un solo psichiatra capace di scrutare un volto di uomo con una forza così schiacciante, e dissecarne come con un bisturi l’essenza psicologica». E sicuramente Artaud pensava anche ai suoi autoritratti (esposti in una saletta accanto) da cui emergono con tragica verità le tracce devastanti degli elettroshock. Il commento su Le fauteuil de Gauguin è una vera e propria poesia: «Un portacandela su una sedia, una poltroncina di paglia intrecciata/un libro sulla poltroncina,/ecco il dramma chiarito./Chi entrerà?/Sarà Gauguin o un altro fantasma?». A proposito dei girasoli, considerati come la quintessenza dell’arte del pittore, il giudizio è di solare verità tautologica: «… Sono dipinti come dei girasoli, e niente di più, ma per comprendere un girasole nella natura bisogna ormai ritornare a Van Gogh». 

Quello che più colpisce Artaud nell’arte di Van Gogh, «il più pittore di tutti i pittori», è il fatto che «senza andare più in là di ciò che definiamo pittura e che è la pittura, senza andare al di là del tubetto di colori, del pennello, del motivo e dei limiti della tela, per rincorrere l’aneddoto, il racconto, il dramma, l’azione immaginata, alla bellezza intrinseca del soggetto o dell’oggetto, è arrivata a impregnare di passione la natura e gli oggetti» con un’intensità che non ha nulla di meno, sul piano psicologico e drammatico, rispetto ai racconti di scrittori come Poe, Melville, de Nerval o Hoffmann. Da parte di uno scrittore, attore, drammaturgo come il teorico del Teatro e il suo doppio, questo elogio della sublime semplicità della dimensione espressiva di un artista che ha sempre dipinto «per uscire dall’inferno», è un insegnamento su cui meditare per cercare di comprendere almeno in parte qualche frammento dell’essenza del processo creativo.  

VAN GOGH/ARTAUD  
LE SUICIDÉ DE LA SOCIÉTÉ  
MUSÉE D’ORSAY, PARIGI  
FINO AL 6 LUGLIO

FONTE: Francesco Poli (lastampa.it)

martedì 22 aprile 2014

STUCCHI E HLADILOVÀ I VINCITORI DELLA IV EDIZIONE DI 6ARTISTA. IN MOSTRA AL MACRO DI ROMA



Sono Davide Stucchi ed Helena Hladilovà i vincitori della quarta edizione di “6Artista”, programma di residenze promosso dall’Associazione Civita e dalla Fondazione Pastificio Cerere, nato con l’obiettivo di supportare la crescita professionale degli artisti under 30 che vivono in Italia.
 I lavori dei due vincitori sono in mostra al Macro di Roma, fino al 18 maggio.
Davide Stucchi ed Helena Hladidovà hanno trascorso un periodo di residenza di sei mesi a Roma presso la Fondazione Pastificio Cerere e altre tre mesi presso la Cité Internationale des Arts di Parigi, istituto no profit per l’internazionalizzazione delle arti. Obiettivo, favorire l’incontro con diversi lunguaggi, tecniche e idee.
 
La doppia personale al MACRO presenta le opere nate dalla ricerca e dal lavoro dei due artisti, durante i nove mesi di residenza tra Roma e Parigi.
 
Partendo dalla riflessione sulla questione dell’aura dell’opera d’arte, Davide Stucchi analizza il tema dell'opera d’arte danneggiata come fenomeno in grado di aprire un nuovo feticismo rispetto all’oggetto artistico e alla sua trasmissione. Una mostra “danneggiata” dunque, che vede l’artista riproporre sulle opere i segni e i gesti usati per realizzarle.
 
Helena Hladilovà, invece, interviene sullo spazio museale, cercando di modificarne la percezione, proponendo un’opera monocromo in attesa dell’intervento del visitatore, chiamato a modellarne la superficie. Al termine della mostra, l’opera sarà smontata e saranno esposti i risultati dell’interazione.

FONTE: Valeria Arnaldi (leggo.it)

giovedì 17 aprile 2014

Ostia Antica, sotto terra si nasconde una città più grande di Pompei


L'area destinata a magazzini sarebbe talmente vasta da consentire una rivalutazione della potenza commerciale della Roma imperiale

Oltre il Tevere, in un tratto dove non gli scavi non sono mai arrivati, c'è ancora un mondo da scoprire, o meglio, una città. 

Se fino a poco tempo fa gli archeologi ritenevano che il fiume delimitasse i confini settentrionali di Ostia Antica, le recenti scoperte hanno permesso di identificare un'intera area commerciale oltre la sponda opposta, molto più vasta perfino rispetto a Pompei, con imponenti mura e torri di 6 metri, magazzini e strade. 

La Soprintendenza ai Beni Archeologici di Roma la considera una notizia eccezionale, poiché alla luce di queste informazioni sarebbe da rivalutare interamente la potenza commerciale della Roma Imperiale. 

I rilevamenti sono stati effettuati grazie ad indagini geofisiche e agli studi effettuati dagli archeologi della Soprintendenza speciale, in collaborazione con alcuni studiosi inglesi della Southampton-British School at Rome e della University of Cambridge. 

FONTE: E. BRAMATI (ARTE.IT)

mercoledì 9 aprile 2014

Bernardo Cavallino e Lorenzo Lotto, capolavori al Museo Diocesano di Molfetta


Il "San Felice in Cattedra" di recente esposta in Piemonte, e rimarrà a Molfetta durante il restauro della chiesa dalla quale proviene.

Nell'ambito di una intensa attività di promozione delle bellezze del territorio, realizzata in collaborazione con le diocesi di Ruvo, Giovinazzo e Terlizzi, il Museo Diocesano di Molfetta si è impegnato ad ospitare due nuovi capolavori tra le sue collezioni. 

All'interno del consueto percorso allestitivo i visitatori potranno ammirare il "San Felice in Cattedra" di Lorenzo Lotto, proveniente dalla Chiesa parrocchiale di S. Domenico a Giovinazzo. Fino all'inizio di febbraio 2014 l'opera è stata esposta nella mostra "I Volti e l'Anima" presso il Castello di Miradolo, in Provincia di Torino, e rimarrà a Molfetta per circa due mesi, in attesa che si concludano i lavori di restauro della sua sede originaria. 

Accanto a questo il Museo esporrà uno dei sui pezzi più importanti, la "Pietà" di Bernardo Cavallino. Il prezioso dipinto evidenzia un forte realismo ispirato al Merisi ed è stato recentemente definito da Vittorio Sgarbi "il più sensibile pittore napoletano della generazione post-caravaggesca".

FONTE: E. BRAMATI (ARTE.IT)

giovedì 3 aprile 2014

AL VIA ROMICS 2014, GRANDE FESTA PER I 75 ANNI DI BATMAN



Settantacinque anni e non sentirli. Batman, il super eroe di Gotham City nato alla fine degli anni Trenta dalla matita di Bob Kane e Bill Finger, festeggerà il suo compleanno alla quindicesima edizione di Romics, il Festival del fumetto, dell'animazione e dei games.
 

A spegnere le candeline con il celebre pipistrello ci sarà il suo attuale disegnatore, nonché di Superman, Jae Lee, giovane disegnatore coreano noto in tutto il mondo per le sue tavole per la Marvel e la Dc Comics, che verrà premiato con il Romics D'Oro.
Premiati anche l'italiano, autore di centinaia di copertine fantasy, Paolo Barbieri e il regista e animatore inglese Barry Purves che ha collaborato con Tim Burton e Peter Jackson. Fra le guest star il maestro giapponese della fotografia Naoya Yamaguchi.
 
Tra gli appuntamenti ormai fissi della kermesse, il Movie Village (con l'anteprima del film horror Oculus), l'Officina del fumetto, il Cosplay Romics Award e il Cosplay Kids, le gare dei fan che amano vestirsi come i beniamini dei fumetti e lo spazio Romics junior, dove i più piccoli potranno aggirarsi tra le strade di Gotham City e i set di Guerre Stellari. Per la prima volta, dedicato agli appassionati delle anime giapponesi, si terrà il Nippon World Karaoke Gran Prix Cosplay by Live Dam, gara in cui si cantano in lingua originale le sigle delle serie. Negli stand si potranno trovare le novità, le grandi case editrici, le fumetterie, i collezionisti, i videogiochi, i gadget e incontrare autori ed editori.

FONTE: Federica Piccini (leggo.it)