venerdì 7 marzo 2014

Martin Creed: la felicità è gioco da bambini



Alla Hayward Gallery di Londra la retrospettiva dell’ artista che fece suonare le campane alle Olimpiadi

Martin Creed, artista inglese tra i più noti della scena contemporanea, rende giustizia a quanti di noi avrebbero voluto portare a termine o almeno dare una forma compiuta a sogni d’infanzia, a progetti sconclusionati, a desideri senza una precisa razionalità, abbandonati proprio perché censurati dalla nostra parte adulta, dal nostro super Io, si sarebbe detto qualche tempo fa. Magari abbiamo immaginato di accumulare sedie, collezionare palloni di colori differenti, accostare oggetti fino a creare una mappa in cui non esistano le stesse coordinate della realtà, ma abbiamo desistito convinti che il nostro dovere in quel momento ci chiamava altrove. Peccato, allora, penserete, guardando lo strabiliante risultato raggiunto da Creed che, di immagine in immagine, ha creato installazioni visionarie e coerenti, come un calcolo matematico. 

Forse a sentirsi dare del coerente Creed si offenderebbe, come quando si prova a definire il suo lavoro concettuale. In un mondo come quello dell’arte contemporanea abituato da anni a qualsiasi estremismo di materia, forma, idea, il suo approccio ludico continua infatti a scandalizzare. Quando vinse nel 2001, il più prestigioso dei premi Made in Britain, il Turner Prize, furono in molti a gridare allo scandalo: la sua proposta era una stanza vuota in cui come diceva il titolo, sempre piuttosto letterale nel suo lavoro,Work No. 227: The lights going on and of, la luce si accendeva e spegneva ogni cinque secondi. Poi ci sono state le Olimpiadi a Londra, e allora Martin Creed per inaugurarle, ha pensato di fare suonare tutte le campane del paese per 3 minuti consecutivi senza eccezioni, compreso il Big Ben. Idee semplici, svuotate di qualsiasi intenzione progettuale e tanto più ideale, che vogliono mostrarci come tutto accada senza l’intervento della nostra volontà, sebbene ci piaccia illuderci del contrario. Idee che nella loro inconsistenza rispettano inaspettatamente un percorso, fino a creare un mondo con delle regole comprensibili più di quelle che siamo obbligati a seguire ogni giorno. 

E’ questa l’impressione che si ha visitando la grande retrospettiva, la prima che un’istituzione museale inglese dedica a questo artista, che nel frattempo ha esposto ovunque, molte volte in Italia, nato nel 1968 in Scozia da madre tedesca. Una grande mostra in cui Creed, insieme al curatore Cliff Lauson, ha potuto ripensare ogni spazio, dal primo piano alla terrazza, senza tralasciare nulla, neppure l’ascensore e ci racconta con il consueto aplomb quanto il nonsense possa svelarci della realtà. Che stiamo varcando l’ingresso di uno spazio in cui la quotidianità debba essere lasciata fuori lo si intuisce subito, dal ritmo delle luci e dei metronomi, 39 per l’esattezza, programmati per scandire ognuno un ritmo differente. E poi la grande scultura al neon Mothers che gira su se stessa e ci lascia lì a pensare con quanta apparente immediatezza possa evocarsi la più importante e complessa di tutte le relazioni. Presto incontriamo altri ritmi a scandire il resto del percorso: l’universo visivo di Martin Creed ha trovato nella musica la sua principale fonte di ispirazione e nella possibilità della ripetizione un appiglio per ordinare una serie di intuizioni. Un pianoforte bianco si apre e richiude creando scompiglio precisamente ogni quindici minuti, mentre sulla terrazza la più ordinaria delle utilitarie, grigia e anonima, prende vita aprendo tutti gli sportelli e i finestrini contemporaneamente per poi richiudersi subito dopo. 

La musica e poi il design, che vuole portare l’arte nella vita e renderla più bella attraverso un linguaggio comprensibile a tutti. Quello di Martin Creed lo è, molto più semplice di quello che si potrebbe pensare. Ecco così i muri della Hayward Gallery decorati con una serie di bande alternate alla stessa distanza, fino a formare una griglia optical bianco e rossa, o un sipario multicolor da sfondo a piccoli disegni, in dialogo con le fotografie, ritratti di amici spesso, persino con una serie discendente di cactus ordinati nei loro vasi o di travi in legno dalla base sempre più stretta. E poi i dipinti, quasi un campionario della pittura astratta, cosi come i colori sovrapposti uno dopo l’altro che sembrano voler scomporre ogni elemento delle opere in cornice o le sculture che vogliono arrivare, nella loro essenzialità, al grado zero della forma.  

E i mobili anche loro ordinati, ma non orizzontalmente come accade nel mondo reale, piuttosto impilati fino a formare una piramide improbabile, un tavolino in legno classico sopra un altro, bianco e minimale, e poi, per finire, una sedia. In una grande fotografia è immortalato un cane, che poi ritroviamo, animato protagonista di un video. Tutto torna, dialoga, viene ribadito. In fondo tutto era già deciso con il suo lavoro più noto, un classico ormai: Work No. 200. Half the air in a given space, una stanza riempita per metà da palloncini gonfiati e colorati dello stesso colore, nel caso di questa mostra londinese, il bianco. 

Chissà quanti di noi hanno pensato di riempire una stanza di palloncini gonfi fino a creare un morbido mare dove tuffarsi. Ma poi hanno rinunciato. Un peccato, davvero un peccato. Ma intanto ci si può rifare grazie a questa mostra che ha una domanda come titolo, «What is the point of it?», e la risposta sembra piuttosto chiara. 

MARTIN CREED, WHAT IS THE POINT OF IT?  
LONDRA, HAYWARD GALLERY  
FINO AL 27 APRILE  

FONTE: Elena Del Drago (lastampa.it)

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