martedì 25 gennaio 2011

Vip art fair: l'arte si trasferisce sul web


Un sito per il vernissage. Una chat per la vendita. 8 mila opere e 137 gallerie. Da Rauschenberg a Hirst

Via dalla “pazza folla” che affolla le fiere d’arte. Qui lo spazio è libero, navigabile, gli stand dei galleristi vuoti come non mai (ma in questo caso non è un cattivo segno, anzi). Ci sono 137 gallerie, con oltre ottomila opere esposte online. La Vip Art Fair è la prima mostra-mercato che si può visitare dal proprio computer, e ovunque si sia con il blackberry, l’Iphone o l’Ipad. Non è gratis collegarsi e far parte di questa community: per il vernissage del 22 occorre infatti registrarsi sul sito e sborsare cento dollari, poi la cifra scende democraticamente a dieci. Ma i nomi che contano ci sono tutti, sia dalla parte dei galleristi (da Gagosian, a Gladstone, alla Lisson, a Cohan, per arrivare ai nostri Lia Rumma, Continua, De Carlo, Tucci Russo e Francesca Kaufmann) che degli artisti, da Rauschenberg a Dan Graham, da Sol LeWitt a Damien Hirst. In anteprima con il New York Times, abbiamo visitato questa innovativa fiera sul web, una piattaforma molto elaborata dal punto di vista tecnologico, ma molto facile da utilizzare, alla maniera di Google. Le gallerie presenti – divise in principali, medie ed emergenti- propongono una fotogallery di opere esposte (20 “appese”, per le gallerie più importanti su un totale di cento consentite, per le emergenti 15 su 75 in totale). Ancora prima dell’apertura, il sito della fiera ha già riscontrato 19mila utenti registrati, di cui mille dall’Italia, 13.500 vip internazionali di cui 700 italiani. Non c’è da stupirsi, sono i “numeri” di internet. 
NON È UN VIDEOGAME - Questa fiera non ha il format di un videogioco. Non ci sono effetti speciali, realtà virtuali, l’unica concessione è un’applicazione assai utile (e in fase di brevetto) di una sagoma umana (non animata) che compare vicino alle opere per evidenziare le misure di queste; una tecnologia nuova di zecca che si avvale di un algoritmo inventato da un esperto informatico. Questa piattaforma (il cui valore si può stimare in una decina di milioni di dollari) è una vera invenzione nel mondo dell’arte, con una grandissima potenzialità, subito recepita dai maggiori galleristi internazionali che, per essere qui, pagano un fee di 20mila dollari (3mila per gli emergenti). Il progetto ideativo nasce da quattro cervelli che abitano a New York e da una circostanza fortuita. Jonas e Alessandra Almgren (nata però ad Asola, vicino a Mantova), uno informatico della Silicon Valley e l’altra con un master in marketing comprano un giorno un’opera del videoartista Bill Viola alla galleria Cohan e da semplici acquirenti, frequentando Jane e James Cohan che, come loro, vivono a Brooklyn, diventano amici. L’arte non è più solo un argomento di conversazione ma di riflessione per un investimento in rete. Si ritrovano a parlarne ogni lunedì mattina, per tre anni. Nasce così la loro società chiamata appunto Monday morning partners, proprietaria del marchio Vip art fair, che concepisce un software ad hoc. «Ma questo non è un luogo di e-commerce, e non c’è transazione di denaro», dice Alessandra Cirani Almgren «la fiera dura dal 22 al 30 gennaio e poi chiuderà, non è quindi un sito. Il virtuale si fermerà là dove inizierà invece la trattativa economica: il collezionista si collegherà in chat, avrà dal gallerista informazioni riservate ma poi l’acquisto si concretizzerà altrove, qui non c’è alcun clic per comperare le opere», sottolinea. Una parte resterà dunque sempre reale. La chat del gallerista è un luogo di scambio in cui egli potrà invitare il collezionista in una private room a visionare altre opere “riservate”, non caricate nella fotogallery.

FONTE: Francesca Pini (corriere.it)

lunedì 24 gennaio 2011

Non solo arabeschi nei dipinti dell'Islam

A Palazzo Reale la preziosa raccolta dello sceicco al-Sabah


Quando si parla di arte islamica subito ci vengono in mente gli arabeschi. Stilizzazioni elegantissime di elementi vegetali che diventano pura astrazione. Quasi che la religione islamica fosse radicalmente iconoclasta e vietasse qualsiasi forma di figurazione. A sfatare questo luogo comune è la mostra dedicata all'Arte della civiltà islamica, scenograficamente allestita nelle sale di Palazzo Reale. 

Una rassegna di 350 pezzi selezionati tra le oltre 30 mila opere della Collezione al-Sabah: un corpus straordinario di piccoli e grandi capolavori raccolti dal 1975 ad oggi dello sceicco kuwaitiano Nasser Sabah Ahmed alSabah e da sua moglie. 

Il percorso espositivo è scandito in due parti. Prima si procede cronologicamente, ripercorrendo lo sviluppo della civiltà islamica dal VII secolo al XVIII. Dagli esordi in Arabia, seguiti dalla veloce, e anche violenta, espansione dall'Occidente di allora, la Spagna, fino al medio ed estremo Oriente. La seconda sezione documenta tematiche trasversali a tutta l'arte islamica. La calligrafia anzitutto, forma artistica privilegiata da una religione che combatte l’idolatria e che è tutta incentrata sulla parola di Maometto.

Tra tanti esempi, si veda il foglio in pergamena con una frase del Corano scritta in stile epigrafico kufico, reperto del IX secolo proveniente da Kairouan. Quasi coevo è lo sviluppo di motivi geometrici e degli arabeschi ideati come astrazione di elementi fitomorfi e zoomorfi, come la scatola cilindrica di avorio scolpito con la raffigurazione di unicorni, uccelli e piante, un capolavoro d'inizio XI secolo proveniente dalla Spagna, e nella brocca di vetro decorata con girali spiraliformi (Iran, X secolo). Il percorso si chiude con una sezione di arte figurativa e con le sale riservate ai gioielli, gran finale di tutta la mostra. Qui ammiriamo pugnali di giada incastonati con rubini, pezzi in cristallo di rocca, tra cui un set di pedine per il gioco degli scacchi, bracciali d'oro diamanti e pietre preziose, una collana con pendente di diamanti e un gigantesco grano di smeraldo (India, Deccan, fine XVIII secolo). 


Osservando le opere e leggendo le didascalie redatte con chiarezza dal curatore della rassegna Giovanni Curatola, scopriamo una civiltà che produce non solo i tappeti sontuosi - in mostra uno immenso proveniente dall' Iran che ha le forme stilizzate di un giardino quadripartito - ma anche splendidi libri miniati, il Corano ovviamente, e, a dispetto dell’aniconismo, splendide pagine miniate dal naturalismo vivace. In particolare quelle prodotte nell'India islamica e in Persia. Si veda una raffigurazione del Khamsa di Nizami che illustra il viaggio a Gerusalemme di Maometto, opera iranica del XVI secolo. Senza tralasciare gli elementi di architettura in terracotta smaltata, i capitelli marmorei, i piatti e le coppe in ceramica dipinta, brocche di bronzo, vasi di vetro smaltato a disegni sfavillanti colori, tessuti di seta, lastre tombali con eleganti iscrizioni. 

ARTE DELLA CIVILTÀ ISLAMICA. LA COLLEZIONE AL-SABAH, KUWAIT
MILANO, PALAZZO REALE
FINO AL 30 GENNAIO


FONTE: Giudo Curto (lastampa.it)

martedì 18 gennaio 2011

Il ritorno della Croce di Giotto gioiello dimenticato da un secolo

Rimasta 84 anni in sacrestia, la monumentale opera è tornata nella chiesa fiorentina per la quale era stata dipinta nel 1310-1315. Dopo un prudentissimo restauro di otto anni all'Opificio delle pietre dure che ha restituito la luminosità e brillantezza dei colori e dei vetri, i volumi e il modellato


Qualcuno dovrà avere la pazienza  di fare una storia dell'arte narrando i crimini degli spostamenti  delle opere all'interno delle chiese fino a farle diventare invisibili quando andava bene o piuttosto pronte a dispersioni o danneggiate. Per esempio la "Maestà" di Duccio che rimase sull'altare maggiore del Duomo di Siena fino al 1506 quando fu appesa ad una parete del transetto. Nel 1771 la tavola venne tagliata nelle due facce dipinte, separate in due cappelle, parte spostata in sacrestia. Ben presto cominciò la vendita a vantaggio di collezionisti e musei stranieri.

In questa particolare storia dell'arte un posto di prima fila spetta alla monumentale "Croce" di Giotto (4,67 metri in altezza e 3,60 in larghezza) della chiesa fiorentina di Ognissanti. Realizzata per la critica nel periodo 1310-1315 o verso gli anni Venti, per l'ordine dei frati Umiliati che allora reggeva chiesa e convento, era sistemata sul muro di tramezzo alto circa quattro metri e mezzo che separava il coro riservato al clero dalla navata per i fedeli. Un muro, che pure dotato di una porta centrale, appare ai nostri occhi una brutale cesura, ma che doveva essere uno spettacolo. Perché la "Croce" era accompagnata da altre quattro tavole di Giotto citate dal Ghiberti (che scriveva a un secolo dalla morte del maestro). La  grande (325 per 204 cm) Madonna col Bambino in trono fra gli angeli, la celebre "Madonna d' Ognissanti" ora agli Uffizi. Il piccolo (75 per 178 cm) "Transito della Vergine" finito a Berlino, Gemäldegalerie. La "meza Nostra Donna col fanciullo in braccio" (perduta) e una tavola non precisata. E dagli affreschi di Domenico del Ghirlandaio ("San Gerolamo nello studio") e di Botticelli che è sepolto nella chiesa ("Sant'Agostino nello studio"). 

Fra 1564 e 1566 fu il Vasari a demolire il muro (con stacco "a massello" degli affreschi trasferiti nel refettorio), e ristrutturare "Ognissanti" (come Santa Maria Novella ed altre chiese), per le modifiche liturgiche apportate dal concilio di Trento del 1563. La "Croce" venne spostata sulla controfacciata, poi in una cappella del transetto, trascurata e tanto mal usata da essere qualificata come guardaroba nella quale la "Croce" si dovette sistemare (con danni) fra gli armadi. Infine in sagrestia nel 1926 quando il braccio del transetto venne trasformato in sacrario della Prima Guerra Mondiale. 
Da 84 anni quindi la "Croce" di Giotto è in pratica scomparsa, passata nel dimenticatoio anche per i fedeli. Ma qualcuno se ne era ricordato se nel 2000, Antonio Paolucci, allora soprintendente, con "clamorosa concessione" fece spostare la "Croce" nella storica mostra della Galleria dell'Accademia che fece il punto sul "bilancio critico di sessant'anni di studi e ricerche su Giotto". La "Croce" venne presentata come "Bottega di Giotto ('Parente di Giotto')" nel volume del bilancio critico e come "Giotto" nella guida della mostra, ideata e a cura di Angelo Tartuferi e Franca Falletti.  

La concessione della "Croce" era stata condizionata da un futuro restauro e l'Opificio delle pietre dure, finito l'intervento nel 2001 sulla "Croce" giovanile di Giotto per  Santa Maria Novella (1285-1290), l'anno dopo cominciò il prudentissimo intervento sulla "Croce" di Ognissanti. E dopo otto anni di studi, indagini scientifiche, ricerche per un nuovo metodo di pulitura, restauro, ecco di nuovo la "Croce" nella chiesa di Ognissanti, nella cappella sopraelevata del braccio di sinistra, la cappella dei Caduti, raggiungibile con una breve scala. Collocata su di una base metallica di nuova concezione ora spicca in alto, quasi sollevata, sotto le antiche volte gotiche, ancora di più grazie al sistema di illuminazione dal basso e la leggera inclinazione in avanti (come lo era sul tramezzo). 
A Santa Maria Novella la "Croce" di Giotto era stata ricollocata al centro della navata nell'antica posizione "più attendibile". Cosa impossibile ad Ognissanti che "mantiene tutte le opere della ristrutturazione cinquecentesca e del periodo barocco" e nella navata non c'è  spazio.

FONTE: Goffredo Silvestri (repubblica.it)

giovedì 13 gennaio 2011

Bentornati Farnese: apre al pubblico uno dei palazzi più belli di Roma

Fino al 27 aprile in mostra i capolavori dell'ambasciata francese


Due Barbari prigionieri alti due metri e mezzo, scavati alle Terme di Caracalla e confiscati ai Colonna, danno il benvenuto all’ingresso del Salone d’Ercole; nel cortile, l’immenso Apollo citaredoaccompagna le gigantografie di opere che non si possono trasportare, e stavano sotto gli archi; davanti alla Galleria dei Carracci (20 metri per 6) e all’ufficio più bello che un ambasciatore possa avere, affrescato da Francesco Salviati e Taddeo Zuccari, due “poli” sciorinano ritratti d’imperatore e famosi dipinti: Tiziano, El Greco, Sebastiano del Piombo; ci sono una tra le prime copie del Giudizio di Michelangelo, e Venusti la realizza senza i “braghettoni”, con l’intera genealogia di famiglia in tanti ritratti; la Venere callipigia, famosa per il suo “lato B”, rivaleggia con un quadro di Annibale Carracci dalle terga generose; il suo Ercole al bivio è di nuovo al suo posto, e riecco anche l’Afrodite accovacciata con Eros e l’Atlante di due metri del II secolo: bentornati Farnese, e un grazie all’ambasciatore di Francia Jean-Marc de la Sablière, che per quattro mesi ce li restituisce.

Domani si apre, a Palazzo Farnese, l’ultima grande mostra dell’anno, che durerà fino al 27 aprile: Roberto Cecchi e Francesco Buranelli hanno curato una selezione dell’antica collezione, quasi tutta finita a Napoli quando i Borbone divengono eredi della famiglia per matrimonio; e così, una ambasciata per necessità poco visitata («10 mila persone all’anno» dice la “feluca”) restituisce a Roma il “cubo” edificato da Sangallo, Michelangelo, Vignola, Della Porta, palazzo dei più ammirati in città, con oltre 200 opere, di cui molti capolavori, che lo arredavano. Già nel Seicento, i diplomatici d’Oltralpe erano qui; e la rappresentanza vi ha sede dal 1874; l’edificio è dato in affidamento per 99 anni, «e tenuto come forse nemmeno noi sapremmo», dice il sottosegretario Gianni Letta; e all’Embassade, i francesi hanno sempre tenuto assai: lo dimostrano, per esempio, gli intonaci opera di Balthus quando dirigeva l’Académie di Villa Medici, e che vi si collocasse dal 1911 L’homme qui marche, splendida scultura di Rodin; i benpensanti gridano però all’oltraggio, lui muore, e dal 1923 è destinata a un museo in Francia. Ora, non c’era dell’altro da volere: «Impossibile vuotare i musei napoletani per ricomporre la raccolta; abbiamo voluto dare un’impressione e regalare sensazioni», dice Cecchi; «e ora è tempo di restaurare la Galleria dei Carracci», aggiunge Buranelli: l’ambasciatore ammette che la cosa è più che allo studio. Per inaugurare tutto questo bendiddio, altro esempio di quanto conti per i francesi, è giunto Frédéric Mitterrand, ministro della Cultura e già al vertice dell’Académie; per l’Italia anche una visita privata del premier Berlusconi.

FONTE: Fabio Isman (ilmessaggero.it)


lunedì 10 gennaio 2011

Ferrata, scultore dell'anima barocca

Alla Pinacoteca civica con il pittore intelvese Carloni


Una serie di statuette lignee da usare come passe partout per sbirciare nel retrobottega di uno scultore. L'artista è Ercole Ferrata, lombardo, accorto imprenditore, titolare a Roma di un’attrezzata bottega, strategico crogiuolo per la formazione dei più noti statuari del secondo '600. Un inventario del 1686 elenca gli oggetti conservati nel suo studio: centinaia di pezzi fra calchi dall’antico, modelli, cere, gessi, sculture in legno, opere sue e di artisti con i quali aveva collaborato, da Gian Lorenzo Bernini ad Alessandro Algardi, a François Du Quesnoy e Melchiorre Cafà. Strumenti di lavoro preziosi per capire che l'arte è anche un mestiere, per leggere attraverso quali percorsi si arriva dall'idea (talora un pensiero, uno schizzo veloce) alla sua realizzazione e come si fa formazione trasmettendo le conoscenze agli allievi. 

La mostra racconta questa storia, mettendo in relazione un nucleo di statuine con i cantieri della città pontificia, grazie a un articolato apparato didattico. È un’esposizione bifronte, dedicata allo scultore Ferrata e al pittore Carlo Innocenzo Carloni, accomunati dalla nascita in Val d'Intelvi (nel comasco). E accosta due momenti di storia e di arte: i cantieri romani di pieno ‘600 e il gusto decorativo delle corti mitteleuropee del ‘700, partendo da un nucleo di opere conservato nel museo diocesano di Scaria d'Intelvi, oggi chiuso per lavori. Non si conobbero, i due; moriva l'uno nel 1686 e nasceva l'altro, ma condivisero la sorte di migranti, comune in quei territori. Ferrata partì giovanissimo, andò apprendista a Genova, poi si recò a Napoli, all'Aquila e infine a Roma, ove lavorò per decenni e vi morì, e fu uno dei più apprezzati collaboratori sia di Gian Lorenzo Bernini che di Giovanni Algardi le due anime, barocca e classica, dei grandi cantieri della città. 

Carloni, invece, figlio d'arte (furono stuccatori il padre e il fratello), decoratore veloce e di effetto, appresa, per accorta scelta paterna, la lingua tedesca, alternò presenze e viaggi al di qua e al di là delle Alpi, a Venezia e poi Roma, tra la Lombardia e gli stati asburgici e tedeschi, fra chiese e dimore principesche, divenendo dagli anni quaranta del '700 uno dei divulgatori del gusto rococò internazionale, senza abbandonare mai del tutto il luogo natio. Entrambi suggellarono il profondo legame con la comunità di origine lasciandovi testimonianza della propria fortuna. Così Carloni decorò a sue spese la parrocchiale di Scaria (ove fu sepolto). E al Comune di Lanzo d’Intelvi è pervenuta una serie di ritratti di personaggi della famiglia De Allio, legata alla corte viennese, da lui dipinti, appena restaurati ed esposti in mostra. Ferrata, invece, dispose in testamento di destinare alla sua patria alcune opere conservate nello studio romano. 

E così, dopo la sua morte giunsero alla parrocchia otto statuette raffiguranti la Vergine del Rosario e vari santi, la cui attribuzione è in parte ancora discussa. La piccola mostra, curata da Maria Letizia Casati, Ernesto Palmieri e Daniele Pescarmona, che gioca in positivo la temporanea chiusura del museo di Scaria, è un’intelligente occasione di divulgazione di opere inserite in percorsi artistici nazionali e internazionali. 

FONTE: Elena De Filippis (lastampa.it)

lunedì 3 gennaio 2011

Suggestioni dal profondo Sud a Genova l'arte subsahariana

Tra Palazzo Ducale e Castello d'Albertis, una grande mostra svela l'arte africana di Mali, Congo, Costa d'Avorio. Trecento tra maschere e feticci testimoniano un patrimonio sconosciuto che sedusse Picasso, Matisse e Modigliani


GENOVA  -  Tutta la suggestione delle maschere africane. Picasso le immortalò sui volti enigmatici della Demoiselles d'Avignon, Modigliani ne subì la fascinazione evocandole nelle sue sculture essenziali, Matisse le cantò nelle sue figure stilizzate e tribali, così come Derain che ne ricalcò la forza primitiva. I grandi protagonisti delle avanguardie storiche ne sono rimasti sedotti, facendo della cosiddetta "arte negra" una chiave di volta della loro ricerca estetica. E per scoprirne fino in fondo tutta la magia ecco una grande mostra, "L'Africa delle meraviglie. Arti africane nelle collezioni italiane" che dal 31 dicembre (con tanto di festa di capodanno a tema) al 5 giugno invade le sale di due sedi prestigiose come Palazzo Ducale e il Museo delle Culture di Castello d'Albertis, sotto la cura di Ivan Bargna e Giovanna Parodi da Passano, antropologi e specialisti d'arte africana, con la collaborazione di Marc Augé. Una mostra capace di regalare una forte suggestione nel visitatore anche grazie all'allestimento d'autore griffato Stefano Arienti, che orchestra più di trecento pezzi dell'arte tradizionale delle culture dell'Africa subsahariana, dal Mali al Congo, dalla Costa d'Avorio al Camerun, in un'ambientazione di spettacolare intimità. 

Si tratta di maschere, figure d'altare, "feticci", pali funerari, oggetti rituali e d'uso quotidiano, opere in gran parte inedite, un patrimonio sconosciuto che ha stregato e appassionato tanti collezionisti private italiani "L'obiettivo  -  racconta Stefano Arienti - è fare una mostra con una grande potenzialità di coinvolgimento dei visitatori, focalizzando il più possibile l'attenzione proprio sugli oggetti d'arte africana e sulla loro particolare materialità e tattilità, cercando un'ambientazione di massima immediatezza, e rinunciando dove possibile a vetrine o apparati che diminuiscono l'intimità con le opere". Inoltre, come avverte sempre Stefano Arienti: "Nell'allestimento trova spazio anche l'allusione alla dimensione privata del collezionismo con la ricostruzione di piccoli angoli che sintetizzano l'atmosfera delle Wunderkammern dei loro proprietari, personaggi spesso schivi e a volte eccentrici. Alcuni di loro compaiono in primo piano su televisori domestici in spezzoni d'interviste girate appositamente". 

Così, nella teatrale presenza di bianco, rosso e nero, la triade cromatica che caratterizza l'arte africana tradizionale, giocando con le potenzialità narrative immediate dei video, va in scena l'Africa delle Meraviglie. Si parte da Palazzo Ducale, con il prologo della mostra nel Sottoporticato, trasfigurato nella navata centrale di una cattedrale, dove incombe una vasta pedana bianca che fa da altare a settantatre opere di quattro collezioni, raggruppate per aree stilistico-culturali. La mise en scene continua con la forza magnetica dei "feticci", di questi antichi e famigerati oggetti portatori di forze magiche ambivalenti: una parata di trentadue sculture polimateriche schierate in una vetrina centrale, cariche di inquietante bellezza dal forte impatto emotivo. E' la volta poi delle circa cinquanta varietà di maschere sono affiancate a una importante collezione di colorate bandiere delle tradizionali compagnie paramilitari Asafo dei Fante del Ghana. "Qui l'ambientazione allude al mercato dell'arte e al mondo dei collezionisti attraverso la scelta di grandi scaffalature-espositori", sottolineano i curatori. Si scoprono, poi, le Bundu, insondabili maschere-elmo della società segreta femminile Sande provenienti dalla Liberia, sagome nere che appaiono come sospese in uno spazio suggestivo. 


Passando al Castello d'Albertis, si trovano una cinquantina di oggetti, riletti con un gioco di ombre, costruite per rendere l'idea della pluralità degli sguardi. "Qui il percorso ha come tema l'autenticità  -  dicono i curatori - tanto quella degli oggetti che delle culture da cui provengono, per riflettere intorno ai fantasmi della purezza e della contaminazione che animano i nostri desideri e paure". Chicca del percorso è un'istallazione a file concentriche composta da una quarantina di Ibeji Yoruba, statuette lignee che rappresentano bambini gemelli. "Le piccole sculture vengono trattate  come veri bambini, diventando anche oggetto di culto, essendo i gemelli considerati canali privilegiati con il mondo invisibile", dicono i curatori. Al centro dell'opera, una irradiante statua di maternità Yoruba non può che sancire il ruolo fondamentalmente generativo della figura femminile tradizionale. 

FONTE: Laura Larcan (repubblica.it)