giovedì 24 gennaio 2013

Fuksas firma gli Archivi Nazionali di Francia


Dopo tre anni di cantieri inaugura oggi la nuova sede a' Pierrefitte-sur-Seine, Saint-Denis, Parigi. Istituzione storica per la Francia, custodisce i documenti sui regimi politici dal VII secolo ad oggi. E sotto l'estro di Massimiliano e Doriana diventa un "gioco di equilibri" tra due edifici opposti

Fuksas e la Rivoluzione francese. Un binomio che segna la nuova opera pubblica dell'archi-star italiano in Francia. Dopo il Liceo Georges-Frêche a Montpellier inaugurato lo scorso settembre, è la volta della nuova sede degli Archivi Nazionali a' Pierrefitte-sur-Seine, Saint-Denis, Parigi. Complesso che porta la firma di Massimiliano e Doriana Fuksas, inaugurato "puntualmente" oggi dopo tre anni di cantiere. Una vera istituzione per la storia della Francia, visto che gli Archivi Nazionali furono creati proprio durante la Rivoluzione del 1789, e conservano documenti eccezionali come i papiri merovingi, i processi dei Templari, il diario di Louis XVI, il testamento di Napoleone, la Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino, il giuramento del Jeu de Paume, le Costituzioni successive della Francia.

Un progetto che, come dichiarano gli architetti, " vuole emozionare", con la strategia di due "corpi" principali in un gioco di equilibrio perfetto tra forze opposte. Un edificio, infatti, si sviluppa orizzontalmente, l'altro con una tensione in altezza. Uno "sospeso, leggero, trasparente", l'altro "ancorato al terreno, imponente, riflettente". Due "corpi", due "mondi", dicono Massimiliano e Doriana Fuksas, collegati simbolicamente da passerelle, che in un "continuo rimando tra di loro danno vita a un'identità che affonda le sue radici nella memoria del passato con lo sguardo rivolto alla contemporaneità e al futuro. Un'identità e una memoria che appartengono alla Francia, e all'intera umanità".

Quasi una "liaison dangereuse" tra ordine e caos. Il primo edificio, che sembra protendersi verso la città, si articola in volumi a sbalzo come "satelliti", ospitando gli uffici, la sala conferenze (300 posti) e la sala espositiva. Vetro, luce, trasparenza, leggerezza impalpabile delle facciate, sembra la caratteristica essenziale di questo corpo i cui volumi, di diverse proporzioni, si susseguono con effetto "sospensione" su delle superfici d'acqua. L'edificio che ospita gli Archivi (220 magazzini su 10 livelli) appare invece come un imponente monolite di alluminio. E' il luogo dedicato alla memoria e alla ricerca, accoglie i documenti d'archivio e la sala di lettura. Rivestito da una "pelle" di alluminio lungo tutto il volume, si accende di luce con l'inserzioni di vetrate per la sala di lettura e il percorso d'ingresso.

Coup de thêatre, tra il monolite e i volumi "satelliti" compare una scultura-installazione di Antony Gormley, solo uno dei tre interventi artistici. Una creatura che si solleva dal velo d'acqua sottostante, e che si muove, come avesse una sua energia vitale interiore, tra le facciate del complesso architettonico. Le facce geometriche che articolano l'opera lungo il suo passaggio danno vita alla struttura di una concatenazione di dodecaedri, che si riflette e si proietta tra il bacino d'acqua e le superfici specchianti dei volumi. A questo si aggiunge la serie di "casseforti" in cemento di Pascal Convert, incastonate nell'area antistante i volumi "satelliti", che riportano in bassorilievo i volti di alcune personalità che hanno lasciato un segno nella memoria collettiva.

E' poi il tocco artistico di Susanna Fritscher ad arricchire lo spettacolo della hall a doppia altezza che accoglie il visitatore. L'effetto "sospeso" dei volumi "satelliti" è messo in risalto attraverso un tocco minimale che consta della realizzazione di controsoffitti come "fogli" di inox sfumati di rosso. Il tutto si arricchisce con l'intervento paesaggistico di Florence Mercier. La sua progettazione degli spazi verdi ha dato vita a una reale interazione tra natura, architettura e pubblico. La passeggiata verde che introduce e accompagna il visitatore al complesso è come una quinta scenica che alterna geometrie, forme, colori e sfumature.

FONTE: Laura Larcan (repubblica.it)




lunedì 21 gennaio 2013

Alpi, laghi e danze. La modernità di Hodler


La Fondazione Beyeler di Basilea celebra l'artista svizzero considerato il pioniere della modernità. In scena la sua produzione tarda ed "estrema": paesaggi, ritratti e cicli decorativi, tra simbolismo e astrattismo

Ferdinand Hodler, il pittore-poeta di "energia pura" per il quale è stato coniato il termine di "protoespressionismo". Pioniere della modernità, l'artista svizzero è scivolato in una formazione all'insegna dell'impressionismo più alla moda, col cuore rivolto sempre ai cari maestri del passato - il "suo" Dürer - per maturare poi nell'aura simbolista, divenendo uno dei personaggi più autorevoli delle Secessioni di Vienna e Berlino. I suoi paesaggi alpini - autentica cifra stilistica - e i ritratti conquistarono l'attenzione dei suoi contemporanei, tra la fine dell'800 e l'alba del '900, per la loro energia. Hodler era il pittore dei colori netti, dal tratto forte ed espressivo, dal vigore concreto che ricercava una vena di realismo esasperato. E l'apice del suo "simbolismo" coloristico viene raccontata ora, per la prima volta, da una grande mostra, "Ferdinand Hodler", ospitata dalla Fondazione Beyeler dal 27 gennaio al 26 maggio, arrivata dopo il debutto alla Neue Galerie di New York in coproduzione con l'istituzione museale di Basilea.
Una rassegna, curata da Ulf Küster e Jill Lloyd, che mette insieme gli spettacolari maestosi paesaggi alpini del pittore senza dimenticare anche le altre grandi tematiche della sua arte. Dall'autoritratto, alla fascinazione per la donna, alla morte e l'eternità. Un viaggio nella creatività tarda ed "estrema" di Hodler, nato a Berna nel 1853 e scomparso a Ginevra nel 1918, e passato per i palcoscenici dell'élite culturale di Monaco di Baviera, Vienna, Berlino e Parigi. Linee e movimenti, colori che animano forme dalla sconcertante euforia realistica, grandi composizioni storico-decorative, questi sono gli elementi che spiccano nella sua produzione che splendidamente sfila nelle sale, quasi ad orchestrare un confronto diretto con gli scenari montani che circondano il museo.

E come sottolineano i curatori, proprio quelle linee e movimenti si combinano armoniosamente tra loro, come nella grande versione di "Sguardo sull'infinito" conservata a Basilea. "Lo stesso Kandinskij - dicono Küster e Lloyd - riconosceva nel genere della composizione melodica hodleriana un modo per eliminare il dato oggettivo e conferire autonomia alle linee e alle forme. Il dipinto Sguardo sull'infinito testimonia anche l'interesse di Hodler per le riforme del ballo introdotte fra gli altri da Isadora Duncan ed Emile Jaques-Dalcroze con la danza moderna. La predilezione per la naturalezza dei movimenti, per il libero utilizzo del corpo, che Jaques-Dalcroze in quanto coreografo coltivava, affascinavano Hodler, cui non sfuggiva la carica erotica delle movenze naturali, non codificate".

Tant'è che nel 1911 Paul Klee, che di Hodler non accettava acriticamente il patos e l'abilità negli affari, espresse tuttavia ammirazione per la sua capacità di "rappresentare l'anima attraverso il corpo". In mostra sfilano le vedute del lago Lemano, delle cime, dei massici alpini e dei torrenti di montagna, così come il ritmo quasi danzante dei ritratti. I suoi temi prediletti compaiono in una variazione di dettagli seriale. Ed emerge tutta la sua passione "moderna" per la fotografia, che collezionava e utilizzava per la preparazione e l'esecuzione delle sue opere. Ci sono tutte le famose e popolari pitture di paesaggio che celebrano la magnificenza e maestosità delle montagne svizzere, in un caleidoscopico gioco di primi piani e panoramiche. Le campiture di colore diventano gradualmente l'anima dei quadri, i contorni si allargano. E l'effetto finale, l'acme della modernità, è tutta in queste opere che, come commentano Ulf Küster e Jill Lloyd, sembrano preannunciare la pittura astratta a distese monocrome di un Marc Rothko o di Barnett Newman.

Notizie utili - "Ferdinand Hodler", dal 27 gennaio al 26 maggio 2013, Fondation Beyeler, Beyeler Museum AG, Baselstrasse 77, Riehen, Basilea (Svizzera)


Orari: tutti i giorni 10.00 - 18.00, mercoledì fino alle 20.00.

Informazioni: www.fondationbeyeler.ch






venerdì 18 gennaio 2013

Allarme. I led oscurano il giallo di Van Gogh


Team internazionale di scienziati: i sistemi di illuminazione Led provocano una trasformazione chimica per alcuni pigmenti. Il famoso "chrome" del pittore olandese si trasforma in un marrone verdastro

Il giallo per Van Gogh era come il blu per Kandinskij o l'oro per Klimt. Un colore vitale, una cifra stilistica, simbolo della propria arte. E' il giallo brillante a personalizzare molti dei capolavori sommi di Van Gogh, come i Girasoli. L'idea che i celebri gialli brillanti del pittore olandese possano "scurirsi" e deteriorarsi in un processo di alterazione sarebbe una "ferita" incalcolabile per la storia dell'arte. Eppure il rischio è altissimo. A provocare questa trasformazione chimica sono i sistemi di illuminazione Led, considerati fino ad oggi ultra-sicuri, e per questo installati in gallerie e musei d'arte in tutto il mondo. In sostanza, il pigmento giallo luminoso che caratterizza tante opere di Van Gogh dopo un'esposizione alle luci al Led cambia in uno spento marrone-verde olivastro. Ecco che i "Girasoli" di Van Gogh "appassiscono", come denunciava qualche giorno fa l'Indipendent.


A lanciare l'allarme è infatti un team internazionale di scienziati, di cui fa parte anche l'Istituto di scienze e tecnologie molecolari (Istm) del Cnr. Alla base della ricerca, pubblicata su "Analytical Chemistry", lo studio su una serie di dipinti di Van Gogh provenienti da musei olandesi e francesi, realizzati tra il 1887 e il 1890, anno della morte del pittore a 37 anni. Le opere-campione sono state sottoposte ad analisi ai raggi X.

 presso laboratori italiani e olandesi e presso l'Europen Synchrotron Radiation Facility (Esrf) di Grenoble (Francia) e il Deutsches Elektronen-Synchrotron (Desy) di Amburgo (Germania). Al centro dello studio, i pigmenti usati nei quadri da Van Gogh per testare gli effetti di cambiamento nelle condizioni di ore prolungate sotto un'illuminazione Led, caratteristica per emettere una luce con una componente spettrale blu molto elevata. Non tutti i pigmenti, e quindi non tutte le opere, sono soggette al fenomeno di degrado.

A risultare chimicamente instabile è il colore ad olio cosiddetto "giallo cromo", quanto mai prediletto dagli artisti della metà dell'800, e ritrovato anche in molte opere di Paul Cézanne e Paul Gauguin. Colore che dopo una serie di ore di esposizione a semplice luce verde o blu si trasforma in uno spento marrone-verde olivastro. I ricercatori però hanno individuato tre tonalità di colore giallo cromo. Il cosiddetto "Middle yellow", o cromato di piombo, è la forma di colorazione risultata chimicamente stabile. Ma le altre due variazioni, il "Lemon yellow" e il "Primrose yellow", prediletto dal pittore, cominciano a diventare marrone o verde olivastro dopo alcuni giorni di esposizione a semplice luce verde o blu emessa da alcune luci al Led. Le motivazioni sono da imputare alla diversa struttura cristallina e al più alto contenuto di solfati.

Ecco che i ricercatori hanno invitato le istituzioni museali a riconsiderare i sistemi di illuminazione con faretti Led, magari utilizzando dei filtri, e contestualmente a verificare se tra le opere d'arte esposte vi siano esempi di colori chimicamente instabili. L'appello da parte degli scienziati è rivolto a tutti quei quadri realizzati nell'epoca di Van Gogh. Il primo museo ad essere allertato è proprio il Van Gogh di Amsterdam, che custodisce i famosi "Girasoli" e il "Ritratto di Gauguin", un altro capolavoro di Van Gogh che utilizza il colore instabile. Certo, l'oscurità come cura risolutiva non può essere compatibile con la fruizione da parte del pubblico, ma, secondo gli scienziati, il museo dovrebbe trovare un giusto equilibrio rivedendo i progetti di esposizione in funzione dell'illuminazione.

FONTE: Laura Larcan (repubblica.it)


giovedì 10 gennaio 2013

Rinascimento e cavalli al Castello

A Venafro inaugura il 18 dicembre la prima pinacoteca della regione. Ad accoglierla, lo straordinario Maniero di Enrico Pandone, signore d'armi appassionato di equitazione che fece ritrarre da illustri artisti iberico-fiamminghi

Il Molise, terra di sanniti, di antiche vie della transumanza, e oggi anche di pale eoliche, salite all'onore delle cronache per ridisegnare il paesaggio sotto il peso di vasti e controversi progetti di insediamento, sta per inaugurare la sua prima pinacoteca. Non una "semplice" galleria di quadri che ricostruiscono la più interessante attività pittorica di maestri locali o residenti. Ma un luogo "speciale", unico nel suo genere, che diventa "museo di se stesso". Si tratta del Castello di Pandone, storica roccaforte che domina Venafro, principale centro dell’alta Valle del Volturno per la posizione sulla biforcazione della via Latina verso la Campania e il Sannio.


Non altro che la "porta del Molise” nel punto di incontro con Lazio, Campania e Abruzzo. E' qui che il 18 dicembre apre le porte il nuovo Museo nazionale frutto del lavoro della Soprintendenza per i beni storico artistici del Molise in sinergia con la Direzione regionale per i beni culturali del Molise. Un evento, in tempo di crisi sotto la scure dei tagli alla cultura. Il Castello, restaurato e riqualificato per la nuova fruizione, è già di per sè un concentrato di storia. Il nucleo originario, la Torre Longobarda, risale al X secolo eretta su precedenti strutture romane. Seguono numerose trasformazioni nelle epoche successive, a partire da quella angioina, ma è nel Rinascimento che acquisisce la sua personalità imponente, quando diviene la dimora della famiglia Pandone, che aveva ricevuto il feudo dai re aragonesi.

Personaggio chiave sarà Enrico Pandone, con una passione smisurata per i cavalli. Allevatore doc, fu il patron di una serie di esemplari eccezionali che raggiunsero le corti più autorevoli di mezza Europa. Un amore che si tradusse anche in arte, perchè Pandone fece decorare il castello con una particolare galleria di "ritratti" equini a grandezza naturale. Unico nel panorama italiano, il cui solo possibile confronto è con la Sala dei Cavalli in Palazzo Tè a Mantova, affrescata per i Gonzaga da Giulio Romano ma solo poco dopo il ciclo venafrano.

L'eccezionalità non risiede solo nel tema, ma anche nella tecnica esecutiva di intonaco a rilievo e affrescato. La si deve alla probabile provenienza della bottega incaricata dell’impresa dall’ambiente napoletano, caratterizzato da pittori iberico-fiamminghi e artisti romani e lombardi, dai quali potrebbe derivare la ricerca di effetti prospettici nella rappresentazione dei cavalli a dimensione naturale. E i cavalli sono accompagnati anche da eleganti epigrafi che si scoprono negli strati di intonaco su cui lavorò la bottega, tra disegni preparatori, schizzi di navi, caricature, conteggi, versi, proverbi a carattere morale e amoroso in italiano, spagnolo, latino. Ecco l’immaginario preferito di un uomo d’arme come Pandone, che finì i suoi giorni nel 1528.

Il percorso museale si aggiunge a questo tesoro riscoperto. A partire dai frammenti di affresco del VII secolo da Santa Maria delle Monache di Isernia. Tante le chicche, come il polittico con scene della Passione di Cristo, realizzato in alabastro nel XV secolo da una bottega inglese di Nottingham. ioccano opere prodotte a Napoli per il Molise o da artisti molisani formatisi a Napoli nel Sei e Settecento, come la Madonna con Bambino e santi dalla Chiesa del Carmine di Venafro, che il raro pittore napoletano Simone Papa, allievo di Belisario Corenzio, firmò e datò 1612 influenzato dalla pittura tardo manierista e dal realismo caravaggesco.

O come San Sebastiano curato da Irene, proveniente dalla Chiesa Parrocchiale di Gildone, del caravaggesco Giuseppe Di Guido (Maestro di Fontanarosa), in un duetto con l’Andata al Calvario di Pacecco De Rosa. "E’ quindi opportuno considerare per questa regione un viavai di pittori, scultori, architetti e un traffico di opere con forme e contenuti aggiornati - avverte il direttore regionale Gino Famiglietti - una circolazione stimolata da committenti consapevoli di consolidare il controllo del proprio potere attraverso imprese decorative e architettoniche di qualità e di sorprendente originalità, come nel caso appunto di Enrico Pandone per il Castello di Venafro".

Notizie utili - "Museo nazionale di Castello Pandone", dal 18 dicembre 2012, Via Tre Cappelle

Venafro (Isernia).

Orari: martedì-sabato 10-13, domenica e festivi 9-13, 15-19.

Informazioni: tel. 0865-904698

mercoledì 9 gennaio 2013

C’è Serodine sulle orme di Caravaggio


Alla Pinacoteca Zust il grande del ’600 torna a casa

La prima mostra monografica di «Giovanni Serodine pittore d’Ascona» nel ticinese Palazzo delle Isole di Brissago risale al 1950 e precede di un anno il trionfo della mostra del Caravaggio nel Palazzo Reale di Milano. Le quattro opere del Serodine passate nel 1951 da Brissago a Milano, dove incontrarono il Tributo della moneta del Museo di Edimburgo e la Figura allegorica dell’Ambrosiana, fruttarono al pittore un’ammirata considerazione internazionale e una patente di sconvolgente eterodossia prerembrandtiana nel contesto del caravaggismo europeo di marca romana. Costituivano una sorta di tesoretto al quale andavano aggiunti altri capolavori esposti solo a Brissago, l’Invito ad Emmaus di Ascona, l’Elemosina di San Lorenzo dell’abbazia di Casamari, l’unica tela dell’artista esposta pubblicamente a Roma, e la colossale opera testamento del 1633, l’Incoronazione della Vergine della Parrocchiale di Ascona. Non era ancora stato scoperto il Cristo fra i dottori del Louvre, pubblicato solo nel 1986.

Intorno a questo tesoretto di uno dei massimi artisti del ’600, la cui nascita è ancora oggi dibattuta fra il 1594 ad Ascona e il 1600 a Roma da una famiglia immigrata, morto a Roma nel 1630 e del quale non c’è traccia documentale in patria, si sono susseguite le mostre ticinesi, a Locarno nel 1987 e a Rancate nel 1993, fino a questa con catalogo Silvana, a cura di Laura Damiani Cabrini e di Roberto Contini. Contini integra il tesoretto con due belle proposte, entrambe riferite alla metà degli Anni 20 del 1600 ed entrambe di collezioni private: una variante del Cristo fra i dottori del Louvre ribaltata da sinistra a destra e un Cristo deriso. Questo era stato esposto nel 1950 a Brissago come opera di Gerrit van Honthorst, detto Gherardo delle Notti, già appartenuta alla storica collezione ticinese Grecchi Luvini. In questa si trovavano originariamente e sono in mostra il formidabile Ritratto del padre del Museo Civico di Lugano, il San Pietro in carcere di Rancate e la Sacra Famiglia di Ascona, esposti. Una copia coeva del Cristo deriso proviene dalla parrocchiale di Gordola nel luganese. Qui emerge la succosa novità della mostra «territoriale» come spiega il sottotitolo «Brezza caravaggesca sulla Regione dei laghi».

Il radicamento profondo, carnale dello straordinario maestro nel suo ceppo famigliare e, per suo tramite, nella terra d’origine è testimoniato da molti segni, ben al di là dell’invio di capolavori in patria. Basta guardare l’emergere dall’ombra caravaggesca del possente, compatto gruppo della Chiamata dei figli di Zebedeo di Ascona. Questa presenta al centro la testa scolpita di luce del pittore, che la scritta dedicatoria dichiara ventitreenne. Intorno a questa si accalcano, di fronte al Cristo additante il cielo, che è il fratello Pietro, il padre con altri due fratelli in piedi e la madre che abbraccia Giovanni e il quarto fratello Bartolomeo inginocchiati. Le piante dei piedi di quest’ultimo firmano la discendenza dalla romana Madonna dei Pellegrini di Caravaggio. Si affiancano in mostra le specifiche consonanze coeve delle opere di Tanzio da Varallo, di Borgianni, di ter Brugghen e soprattutto dell’olandese Stom, oltre agli approdi caravaggeschi nel territorio ticinese e lombardo fra il Lario e il Cusio-Verbano. Domina all’inizio la stupenda pala con la Visione dell’Angelo e i santi Cecilia,Valeriano e Tiburzio, dipinta da Orazio Gentileschi nel 1607 a Roma per Santa Cecilia a Como e oggi a Brera.

SERODINE E LA BREZZA CARAVAGGESCA

RANCATE, PINACOTECA CANTONALE ZUST

FINO AL 13 GENNAIO

FONTE: Marco Rosci (lastampa.it)




venerdì 4 gennaio 2013

Dai Gonzaga a Boldini, attenti a queste mostre



Ancora pochi giorni per vedere alcuni dei grandi eventi del 2012. Tra i tesori archeologici dell'Abruzzo, i capolavori salvati dal terremoto dell'Emilia e i luoghi sacri all'uomo nel mondo. Da Chieti ad Agrigento, passando per Treviso, ecco una guida alle "occasioni" da non perdere


Anno nuovo, saldi di stagione. Anche per l'arte. Chi non è riuscito a visitare le grandi mostre d'autunno, può approfittare degli ultimi weekend a disposizione, prima che chiudano i battenti. Il mese di gennaio segna il classico turn over nelle fasi espositive e val la pena cogliere ancora gli ultimi scampoli di aperture per ricordare il 2012 all'insegna della cultura. Ecco una nostra guida alle occasione da non perdere.

A Chieti, al Museo Archeologico Nazionale Villa Frigerj, ancora fino al 6 gennaio si può visitare la bella rassegna archeologica sui "Tesori dell'età del Ferro dalle necropoli dell'antico Abruzzo", frutto delle recenti campagne di scavo e di restauri. Al centro dello studio, le sepolture che hanno restituito corredi ricchi di armi in metallo ed elementi di ornamento, di oggetti preziosi e vasellame. 

A Firenze, è stata prorogata fino al 6 gennaio la mostra "Firenze negli occhi degli artisti" nelle sale della galleria d'arte moderna di palazzo Pitti. L'occasione è d'oro per riscoprire 49 dipinti, tutti dedicati a vedute o rappresentazioni della città ripresa da varie prospettive: dalle ariose visioni del Settecento di Giuseppe Maria Terreni a quelle romantiche di Giovanni Signorini fino alle opere dal tono domestico del pieno Ottocento di Lorenzo Gelati o alle raffigurazione di spaccati cittadini dai toni accesi della macchia come il Mercato Vecchio di Telemaco Signorini.

A Mantova ancora fino al 6 gennaio Palazzo Ducale apre le stande dell'appartamento di Isabella d'Este per accogliere la mostra incentrata sulla figura di Barbara Gonzaga di Mantova (1455-1503) figlia di Ludovico II, sposa di Everardo il Barbuto che rivestì in qualità di prima duchessa del Württemberg una particolare importanza nella storia del paese. A svelarne l'ambiente della sua corte, manoscritti, disegni e incisioni a bulino, pezzi di stoffe e gioielli, monete e vasellame da tavola incorniciati dalla grandiosa musica di corte dei Gonzaga.

A Milano, a Palazzo Reale, imperdibile fino al 6 gennaio, l'evento dedicato a "Picasso", tra le mostre che davvero hanno segnato la stagione 2012. Oltre 200 opere, molte delle quali mai uscite dal Museo Picasso di Parigi, un excursus cronologico sulla produzione dell'artista, mettendo a confronto le tecniche e i mezzi espressivi con cui si è cimentato nel corso della sua lunga carriera. Innumerevoli i capolavori, come "La Celestina" (1904), "Uomo con il mandolino" (1911), "Ritratto di Olga" (1918), "Due donne che corrono sulla spiaggia" (1922), "Paul come Arlecchino" (1924), "Ritratto di Dora Maar" e "La supplicante" (1937).

A Roma, quasi doverosa è la visita, disponibile fino al 6 gennaio, al Mitreo delle Terme di Caracalla. Aveva aperto lo scorso 29 ottobre dopo dieci anni di chiusura e un complesso intervento di restauro. Il più grande dei luoghi di incontro dei seguaci del culto del dio Mitra ritrovati a Roma. L'aula, che è stata oggetto di una pulitura completa, misura circa 25 metri di lunghezza ed è larga 10. Il mitreo delle Terme di Caracalla rappresenta un unicum anche per la presenza della fossa sanguinis, una buca rettangolare profonda 2,5 metri e scavata al centro dell'aula in cui veniva realmente e non simbolicamente praticato il sacrificio del toro. Con il restauro la fossa è stata messa in sicurezza e protetta con una recinzione, e sono stati ripuliti tutti gli intonaci dell'aula compreso l'affresco di Mitra. Sempre a Roma, da mettere in agenda che il 13 gennaio è l'ultimo giorno per vedere la straordinaria "Tavola Doria" al Palazzo del Quirinale, capolavoro che raffigura la "Lotta per lo Stendardo", un momento della "Battaglia di Anghiari" di Leonardo da Vinci. Opera scomparsa dall'Italia da più di settant'anni e rientrata grazie ad un accordo di cooperazione internazionale tra il Tokyo Fuji Art Museum e il Ministero per i Beni e le Attività Culturali.

A Ferrara, c'è ancora tempo fino al 13 gennaio per visitare a Palazzo dei Diamanti la bella rassegna "Boldini, Previati e De Pisis. Due secoli di grande arte a Ferrara", una sfilata dei più importanti artisti ferraresi dell'Ottocento e del Novecento. Una mostra ideata all'indomani della chiusura del complesso di Palazzo Massari, che ospita le collezioni delle Gallerie d'Arte Moderna e Contemporanea, in seguito al sisma che nel maggio scorso ha colpito l'Emilia-Romagna. Protagonisti, un'ottantina tra dipinti, sculture e opere su carta che raccontano oltre centocinquant'anni di produzione artistica locale. 

A Venezia, una chicca fino al 13 gennaio è la personale dell'americana Lynn Davis al Museo archeologico nazionale. Una delle più sofisticate fotografe della scena internazionale. Un viaggio nel mondo alla ricerca dei luoghi sacri all'uomo. Ed ecco che sfilano le sue tombe monumentali in mezzo al deserto, i templi che si ergono come stalagmiti nella pianura, figure ieratiche che emergono dalle montagne. Immagini che la fotografa insegue nella sua costante ricerca di un luogo "senza tempo". 

Ad Agrigento, godibile fino al 13 gennaio alle Fabbriche Chiaramontane, è l'omaggio ad Antonio Sanfilippo (1924-1980), uno dei più grandi interpreti dell'Astrattismo in Italia. Il maestro siciliano nato a Partanna, firmatario nel 1947 a Roma del pionieristico manifesto di "Forma", viene raccontato attraverso un nucleo consistente dei lavori che inviò alla Biennale di Venezia del 1966, oltre a numerose opere documentate in importanti mostre degli anni Sessanta in Italia e all'estero, oggi di proprietà di musei pubblici e di collezionisti privati.

A Sarmede (in provincia di Treviso) fino al 20 gennaio la nuova Casa della Fantasia accoglie l'evento espositivo della Mostra internazionale dell'illustrazione, arrivata alla sua trentesima edizione. Grandi e piccini possono scoprire le più variegate produzioni di autori italiani e stranieri, storici e attuali, dedicate alle favole e al libro illustrato. Oltre 350 illustrazioni provenienti da numerosi paesi, riflette sulle modalità espressive di oltre 100 illustratori, viaggia sul filo delle parole di un centinaio di libri e suggerisce infiniti spunti di dialogo che affiorano sfogliando emozionanti pagine illustrate.

A Bolzano, c'è tempo ancora fino al 27 gennaio, per gustarsi al Palazzo Mercantile i capolavori del Guercino arrivati dalla Pinacoteca di Cento chiusa per i danni riportati nel terremoto del maggio scorso. Si tratta di sei pale d'altare del Guercino e quattro dipinti dei suoi amatissimi nipoti, Cesare e Benedetto Gennari, prosecutori dell'attività dello zio alla sua morte (1666). A queste si aggiunge il dipinto, "La Visione di Soriano", prestato dalla Chiesa dei Domenicani di Bolzano. Quest'opera fu commissionata dal Magistrato mercantile nel 1635 per abbellire l'allora cappella dei Mercanti nel convento domenicano. Molto interessanti le lunghe trattative tra il pittore centese e il Magistrato bolzanino, riportate nei documenti locali, che mostrano come a volte il rapporto artista-committente fosse tutt'altro che semplice.

FONTE: Laura Larcan (repubblica.it)

mercoledì 2 gennaio 2013

Geometrie artistiche


Sol LeWitt, un sogno matematico che dialoga con il passato

«Con i wall drawings, dipinti murali, Sol LeWitt ha ideato un'arte che non conclude. Che non rimane solo un oggetto finito dopo che l'esperienza esistenziale del suo creatore si è compiuta, ma che ha in sé i germi per rinnovarsi attraverso la realizzazione artistica degli affreschi affidata ad altri artisti che operano sulla base dei bozzetti del Maestro, che altro non sono se non la parte concettuale». Le parole di Adachiara Zevi, curatrice della mostra «Sol LeWitt. L'artista e i suoi artisti» rappresentano una delle prospettive attraverso le quali accostarsi all'arte di Sol LeWitt, scomparso cinque anni fa a New York e celebrato nell'antologica che il Museo d'Arte Contemporanea Donnaregina Madre di Napoli ha scelto per inaugurare il nuovo corso dopo un periodo di difficoltà finanziarie.

L'esposizione, aperta fino al primo aprile del 2013, accoglie il visitatore con una sezione in cui sono esposti cinque wall drawings inediti realizzati da due assistenti di LeWitt con l'occhio attento ai bozzetti della serie «Scribbles», scarabocchi. Gli «artisti dell'artista», per citare il titolo della mostra, hanno dato vita con la matita nera a grovigli grafici fitti e scuri su alcune parti della superficie muraria mentre su altre hanno inciso con minor forza la presenza del segno lasciando macchie chiare di luce, ripetendo così quando indicato nei disegni preparatori di LeWitt a loro volta ispirati dal chiaroscuro di uno scatto in bianco e nero del fotografo americano surrealista John Laughlin. Le altre due sezioni sono composte da 47 opere del Maestro, soprattutto gouaches, e da cento lavori della sua sterminata e «onnivora» collezione di quattromila artisti (altri «artisti dell'artista», per citare di nuovo il titolo e il senso della mostra) con tendenze totalmente differenti dalla sua: dai Neoespressionisti a esponenti della Transavanguardia.

Alla base dei wall drawings di LeWitt c'è senza dubbio la grande tradizione dell'affresco italiano che l'artista, nato ad Hartford nel Connecticut nel 1928, ebbe modo di conoscere visitando «The Great Age of Fresco: Giotto to Pontormo», mostra organizzata al Metropolitan Museum di New York nel 1968. Prima di quella data gli statunitensi che non erano mai stati nella nostra Penisola avevano come esempio di tecnica «a fresco» solo il muralismo messicano degli anni Trenta. A Jackson Pollock, per esempio, ispirò l'idea di evadere dall'utilizzo tradizionale della tela sul cavalletto e del colore come medium per creare forme, figurative o astratte che fossero. LeWitt, invece, si fece influenzare proprio dalla mostra del Metropolitan e diede alla sua pittura una scala ambientale architettonica unendo il concetto, cioè il bozzetto, a un'opera materica capace di regalare emozioni estetiche, contrariamente a quanto faceva il concettualismo più rigoroso.

Come i grandi maestri italiani disegnavano sul muro solo la sinopia - o, più tardi, solo il cartone preparatorio - e lasciavano l'esecuzione dell'affresco agli allievi, LeWitt si occupa solo di esprimere «l'idea» nel bozzetto. Per questo motivo la Zevi ha pensato di accompagnare alla mostra del Madre il suo libro «L'Italia nei wall drawings di Sol LeWitt». Afferma il professor Pierpaolo Forte, Presidente della Fondazione Donnaregina che ha organizzato la mostra con la partnership del Centre Pompidou di Metz e con la Fondazione LeWitt di Chester: «Dallo scorso luglio, quando abbiamo potuto ricominciare a lavorare seriamente grazie a nuovi finanziamenti e a un cambiamento nello Statuto della Fondazione che l'ha resa più tecnica affidandola a specialisti, non ci siamo più fermati. In parallelo alla mostra di LeWitt esponiamo nella Sala Dorica del Palazzo Reale di Napoli un'installazione site-specific di Jimmie Durham, artista Cherokee, ma organizzeremo anche eventi didattici al Madre e mostre in altre città della Campania e in alcuni Paesi che si affacciano sul Mediterraneo. Il nuovo direttore del museo non è stato ancora nominato, ma sarà lui a riempire di contenuti culturali questi progetti che non saranno ripetizioni delle mostre del Madre ma "prodotti" nuovi. E non baderemo affatto alla diffusione dell'arte italiana. L'arte non ha passaporto».

FONTE: Giorgia Rozza (corriere.it)