martedì 27 dicembre 2011

Com'è viva la natura morta

Panettoni, polli e frutta in collezioni lombarde

L’ampia e minuziosa mostra a cura di Giovanna Ginex, con catalogo Skira, dedicata alla natura morta lombarda dell'800 dalla rinascita postneoclassica a un trittico di Ireos di Previati del 1913 si apre con un sontuoso Vaso di fiori di Hayez, presentato alla mostra annuale di Brera del 1834, proprietaria donna Bianca Gualdo Taccioli. Il riconoscimento accademico di una dignità, almeno mercantile, paritetica al ritratto e al paesaggio fu sancita a Brera nel 1862 dall'affidamento al fiorante specialista Luigi Scrosati della cattedra di Decorazione pratica e Pittura floreale nell'ambito della Scuola di Ornato. Tre suoi quadri di fiori fra 1862 e 1869 documentano in mostra questi primordi assieme all'Hayez e ai fiori di Amanzia Guerillot, la moglie di Angelo Inganni.

Il secolo borghese per eccellenza non poteva non rinverdire la memoria del '600 fiammingo e olandese, trapassando dai fioranti alla natura morta vera e propria con un suo peculiare «genius loci» anche gastronomico. Lungo la mostra ci imbattiamo anche in un Panettone del 1882 di Emilio Longoni e in una succosa fetta di gorgonzola nella Natura morta con piatto del 1887 di Cesare Tallone. Qui siamo già negli anni in cui nei salotti della grande borghesia mercantile e intellettuale milanese e lombarda l'avanguardia scapigliata e poi divisionista della seconda metà del secolo si incrociava con disinvoltura con una robusta vena di naturalismo lombardo. L’approfondita ricerca della Ginex si basa da un lato sulla crescente presenza di nature morte nei cataloghi dell’annuale di Brera (in quello del 1878 compare la tempera e acquerello Natura morta con Santa Cecilia del ventenne Segantini, esposta) e dall'altra sui nuclei presenti in grandi collezioni del secondo '800 e del '900.

Sono esemplari, nei due secoli, quelle del triestino emigrato a Milano Giuseppe Treves, fratello e socio di Emilio nella fiorente casa editrice, e quella dell’imprenditore tessile gallaratese Guido Rossi. Delle quattro nature morte di Segantini commissionate da Treves nel 1886, ma poi rese all'autore, sono esposte le due imponenti tele Pesci del Museo Segantini di St.Moritz e Polleria di collezione privata. Dal lascito del 1957 della collezione di Guido Rossi al Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano provengono le tre luminose nature morte di Pellizza di Volpedo del 1889 e del 1893, Carne fresca, Uva e mele e Pollo appeso.

LA MERAVIGLIA DELLA NATURA MORTA
TORTONA, PINACOTECA DELLA FONDAZIONE CASSA DI RISPARMIO
FINO AL 19 FEBBRAIO

sabato 24 dicembre 2011

Addio a Chamberlain, scultore dei ferrivecchi


Americano, 84 anni, riplasmava le vecchie automobili con la forza dell'immaginazione

È morto a Manhattan lo scultore americano John Chamberlain: uno dei primi ad usare parti di vecchie auto e rottami di metallo colorato per realizzare le opere. Aveva 84 anni.

Negli Stati Uniti (Rochester, Indiana), dov'era nato nel 1927, lo consideravano una sorta di mago capace di fondere (mai un termine è stato usato in maniera così appropriata come in questo caso) Espressionismo astratto e Pop art. Perché John Chamberlain non solo assemblava metalli, ma li fondeva. La stessa cosa avveniva, più o meno negli stessi anni, in Europa, a opera di César (1921-1998), toscanaccio di Marsiglia.
Solo che quest'ultimo aveva combattuto, assieme a Tinguely, Arman, Raysse, Hains e altri, sotto la bandiera di quel Nouveau réalisme di cui Pierre Restany era considerato il profeta. Ma come César, John era pieno di contraddizioni, sornione, spiritoso, amante delle frasi a effetto, della mimica.
Per entrambi contavano le idee. Non importava loro che per realizzarle si impossessassero di scarti di ferro, di bronzo, dando vita a sculture-spettacolo. Certo avevano delle differenze; ma solo di formazione.
Dai 16 ai 19 anni, Chamberlain aveva prestato servizio nella marina militare statunitense. Poi, a Chicago, s'era iscritto all'Istituto d'arte. Furoreggiava, allora, l'Espressionismo astratto ed egli, guardando a David Smith, aveva confezionato le prime sculture saldate. Quindi, nel '55, aveva approfondito lo studio sui materiali.
Trasferitosi a New York, aveva cominciato a lavorare come un forsennato: portiere d'auto, lastre di metallo leggero, pezzi di binari ferroviari venivano fusi in parte e saldati. Durante la crisi del petrolio, aveva sostituito le auto con i barili.
In Francia, César - che per vivere faceva il barista, vendeva legnami e guidava un taxi - nell'osservare, casualmente, una pressa che trasformava vecchie automobili in blocchi compatti («una mano gigantesca al servizio dell'immaginazione»), aveva pensato di fare la stessa cosa con, in più, il coraggio di portarli al «Salone di maggio» dove qualcuno, a sua volta, aveva avuto il coraggio di esporli.
Al contrario di John, César era piuttosto incolto. A Marsiglia aveva frequentato le scuole comunali per gente povera. Una borsa di studio lo aveva portato a Parigi.
E qui, anche se costeggiava un'Accademia, aveva appreso di più frequentando gli artisti che conducevano una vitabohémienne, piuttosto che ascoltando qualcuno che gli insegnasse i rudimenti della scultura.
La loro filosofia? Cercare i punti di contatto fra l'arte e la nuova realtà del mondo industrializzato e meccanizzato. E così i «Benvenuto Cellini dei ferrivecchi» - anche se in continenti diversi - avevano finito col seguire la stessa strada.
FONTE: Sebastiano Grasso (corriere.it)

venerdì 23 dicembre 2011

Carl Fredrik Hill, artista massimo in genio e follia

Poco noto da noi, ma la sua vena visionaria influenzò molti

Non è stato Giorgio de Chirico (1888-1978) il solo artista ad autodefinirsi pictor maximus. Prima di lui lo ha fatto Carl Fredrik Hill (1949-1911), di cui, adesso, la Svezia celebra il centenario della morte con una grande retrospettiva al museo Waldemarsudde di Stoccolma, a cura di Sten Åke Nilsson: 133 lavori fra oli (71) e disegni (62); comprese sette versioni dell'Albero da frutta in fiore. Altre due rassegne, anche se minori, al museo d'arte di Malmö (48 disegni di Hill e altrettanti di artisti che a lui si sono ispirati) e alla Konsthall di Lund (27 dipinti e circa 200 disegni del lascito al Museo).
In Italia, Hill è noto esclusivamente in una piccola cerchia di specialisti. E in Europa occorre risalire al 1949, centenario della sua nascita, per una serie di mostre a Londra, Lucerna, Basilea, Ginevra, Amburgo e Parigi. Città, quest'ultima dove il pittore svedese era arrivato nell'estate del 1874, fermandosi per quasi un triennio. La Scuola di Barbizon (dove conosce László Moholy-Nagy e Michael Munkacsy) e Camille Corot («Ha scoperto un nuovo modo di guardare il vecchio» scriverà) influenzeranno la sua pittura, soprattutto quella di paesaggio. Ammira anche Alexandre Decamps, Charles Daubigny, Jean-François Millet, il doganiere Rousseau; Parigi, ma anche le vedute di Montigny le Bretonneux e di Champagne e della Normandia.
Vuole «stupire il mondo e guadagnare un sacco di soldi». Scrive al padre: «Mi limiterò a ricordare che con me la Svezia ha un pittore mai visto». E si fa chiamare pictor maximus. Durante il soggiorno parigino muoiono la sorella Anna e il padre. Soprattutto la scomparsa della sorella, cui Carl era molto legato, mina le sue capacità intellettive; aggravate, sul piano artistico, da una grande delusione: i saloons rifiutano i suoi quadri. Gli effetti saranno piuttosto devastanti.
Carl comincia a soffrire di quella che Eraclito definiva una malattia sacra: paranoia e allucinazioni. Di notte grida come un ossesso; i vicini si lamentano e l'artista viene ricoverato in un ospedale psichiatrico, dove disegna una serie di motivi osceni. Quando rientra definitivamente in Svezia, va a vivere con la madre e una sorella nella casa natale di Lund.
Seguono anni di intenso lavoro. È come se Carl avesse un desiderio di rivalsa, atto a dimostrare che il fallimento parigino era colpa dei francesi: non avevano capito nulla del suo genio.
Dipinti, migliaia di disegni - anche quattro al giorno - fra allucinazioni e cefalee: paesaggi, qualche ritratto. Ma anche figure fantastiche e visionarie che gli venivano suggerite sfogliando la collezione paterna di libri illustrati: un leone gigante che ruggisce a una giovane sposa nuda e triste; un coccodrillo-leone che vuole accoppiarsi con una donna il cui corpo galleggia in un fiume blu; due elefanti in uno stagno, una donna con serpenti, una tigre - vengono in mente le tigri di Antonio Ligabue - che si aggira fra i colonnati.
Stile? Carl Hill è un eclettico. C'è sì nelle vedute l'impronta della Scuola di Barbizon, uno spruzzo di impressionismo in paesaggi con figure ( Mia sorella Anna ) e, ancora, negli occhi a mandorla, contornati di nero, di talune donne, l'eco dei ritratti del Fayyum. Anche se talvolta si è dinanzi a tecniche diverse, si tratta, comunque, di immagini private, emotive, rese a tinte forti.
Ma una domanda lo ossessiona: «È noto Hill?». Non lo saprà mai. Solo dopo la morte i suoi lavori cominciano a girare per l'Europa e a lui spesso si ispireranno artisti come Arnulf Rainer, Günter Brus e Georg Baselitz; o poeti come Jesper Svenbro (Eccomi accanto alla sua tomba. / La lapide guarda ad Est / come volesse salutare il sole / che annuncia al mattino: / il mondo è nuovo. / La rugiada brilla sull'erba. / Tutt'intorno risplendono / umidi tronchi d'albero. / S'alza, implacabile, il sole, / impossibile incontrare il suo sguardo) e Gunnar Ekelöf.
Carl nasce nel sud della Svezia, a Lund. Il padre, professore di matematica, all'inizio avversa le sue aspirazioni di pittore, ma, una volta convintosi che non si tratta di un capriccio momentaneo, lo manda a studiare all'Accademia di Stoccolma. Nei musei, Carl si esercita a copiare i maestri olandesi, soprattutto i paesaggi del secentista Jacob van Ruisdael. Ma il suo sogno resta Parigi, crocevia internazionale dell'arte. I tre anni trascorsi fra i café de la Ville Lumiére e la campagna circostante contribuiranno moltissimo alla sua formazione di pittore. Disperazione e follia faranno il resto.
FONTE: Sebastiano Grasso (corriere.it)

domenica 18 dicembre 2011

Gli inuit si raccontano con le matite colorate

Esplode il fenomeno dell’arte esquimese. A Roma apre una mostra tutta al femminile

Cape Dorset, o piuttosto Kinngait - questo il nome del villaggio nel linguaggio degli «inuit», quelli che comunemente da noi si chiamano eschimesi - è un mucchietto di case dove vivono 1.300 anime. Si trova su una baia della parte sud della Terra di Baffin, appena sotto il Circolo polare artico, nel cuore del Territorio del Nunavut. In questo lembo settentrionale di Canada, dove la temperatura media nel «caldo» luglio è di 7 gradi, e di 25 gradi sottozero in gennaio, da molti anni è concentrato il cuore dell’arte del popolo Inuit. Qui dagli anni ‘50 le forme più tradizionali di arte, come la scultura su pietra o su ossa, si sono incontrate con quelle più moderne come la grafica fino a far diventare Kinngait la comunità del Canada «più artistica», con oltre il 20% della manodopera che lavora nel campo dell’arte. Tantissime di queste artiste sono donne: disegnano o dipingono a casa, usando strumenti semplici come le matite colorate, raccontando spesso scene di vita quotidiana o scegliendo invece raffigurazioni più astratte. Questi disegni, poi, vengono portati a Kinngait dai maestri stampatori della West Baffin Eskimo Co-op.

Nel solco delle «capostipiti del gruppo», Pitseolak Ashoona e Napachie Pootoogook, la quarta generazione di artiste vede protagoniste Annie Pootoogook, Shuvinai Ashoona, Ningeokuluk Teevee e Siassie Kenneally. Il fascino, la freschezza innovativa di questa arte che unisce memorie della tradizione del popolo Inuit con gli influssi moderni in un tratto semplice si sta diffondendo nel mondo: molte gallerie in Canada e negli Stati Uniti ne espongono le opere. Che ora sbarcano in Italia, con una mostra a Roma al museo Pigorini all’Eur aperta fino a febbraio, sostenuta dalla collaborazione del Mibac e dell’ambasciata del Canada.

Come spiega Leslie Boyd Ryan, la direttrice del Dorset Fine Arts di Toronto, la galleria che diffonde nel mondo queste stampe, «in questo matrimonio tra modernità e tradizione queste artiste riscoprono i motivi della cultura Inuit». Sono normalissime madri di famiglia, o persone che lavorano e disegnano quando possono. Per loro, poi, i proventi della vendita delle opere costituiscono una importante fonte di reddito. E ci raccontano la vita e le memorie dell’Artico, un ambiente difficile e aspro e insieme delicatissimo.

FONTE: Roberto Giovannini (lastampa.it)

sabato 17 dicembre 2011

A Napoli atmosfere astratte E' di scena Fausto Melotti


Il Museo Madre celebra con un'antologica un maestro della scultura italiana. Oltre 200 opere ricostruiscono tutta la sua carriera, con la predilezione per le terrecotte


Scultore, ma con un'inclinazione versatile nei confronti della materia. Astrattista rigoroso ed essenziale, ma animato sempre da una tensione lirica, quasi poetica. Protagonista delle avanguardie, ma senza lasciarsi incasellare in "regimi" definiti, sfoderando una produzione vastissima quasi senza confini apparenti. Maestro di forme allusive dotate di un'energia simbolica ed evocativa, ma pioniere anche di una ricerca plastica ispirata ad un senso musicale della ritmicità strutturale. Fausto Melotti (Rovereto 1901 - Milano 1986) è un concentrato di sapiente figurazione, che viene celebrato a dovere da una grande mostra antologica al Museo Madre dal 16 dicembre al 9 aprile, dove sfilano oltre duecento opere selezionate dal curatore Germano Celant.
Un percorso capace di echeggiare a sorpresa tutte le suggestioni dell'universo estetico di Fausto Melotti, tra le straordinarie terrecotte (quasi la sua materia prediletta), maioliche e gessi, sculture a tecnica mista e in ferro, ceramiche e lavori in inox, accanto a splendidi disegni e bozzetti. Per questo definire Melotti uno scultore può apparire riduttivo, perché la natura della sua plastica risente di un afflato teatrale più ampio. 
Si parte dai primi lavori degli anni Trenta all'insegna di un'idea nuova e dirompente di "smaterializzazione"  della figura umana,  dimostrano i celebri bassorilievi come dimostrano i celebri bassorilievi del 1934-1935, testimoni dell'adesione personalissimo all'astrazione, accanto ad amici e compagni d'avventura come Mauro Reggiani, Luigi Veronesi e Lucio Fontana. Nel secondo dopoguerra esplode la potenza intima e "patetica" delle sue "piccole" terracotta e ceramiche. Per poi approdare all'ensemble de I Sette Savi, del 1960, in cui la figura umana diventa essenza di se stessa, un'idea prorompente e allo stesso tempo effimera nella sua fragilità, consumata nella sua ideale simbologia da manichino astratto. Quasi un manifesto nella ricerca matura di Melotti. 

E ancora, nel percorso della sua vita creativa, non possono che avere un ruolo chiave le sue piccole grandi ceramiche degli anni Cinquanta e degli ultimi trent'anni di attività, lavori, in larga parte poco noti, capaci di raccontare una smania creativa sempre nuova attraverso le potenzialità della sua materia prediletta. Ecco allora che le sue terrecotte e ceramiche si combinano con garze, ottone, vetro, tessuto, scrivendo il testamento di una vitalità scalpitante che sembra generarsi e rigenerarsi in un flusso continuo. 

Per questo, un assolo doveroso nel percorso è ritagliato per una serie di sculture che condensano questa rinnovata coscienza creativa. Si tratta dei famosi Teatrini in terracotta colorata, opere concepite come una cornice-casa-palcoscenico, dotati a volte di un fondale, cioè chiusi o aperti sul dietro, e al cui interno va in scena il suo piccolo grande spettacolo articolato su diversi piani, dove compaiono oggetti, personaggi e figure che evocano racconti e narrazioni fantastiche. Ad arricchire la mostra, inanellando le sale del museo,  altri divertissement scultorei di Melotti tra materiali inox, vasi e rilievi in ceramica dove figure che emergono dal fondo bagnate di colore sgargianti compongono storie affascinanti. 

Notizie utili  -  "Fausto Melotti", dal 16 dicembre al 9 aprile 2012, Museo Madre, Via Settembrini 79, Napoli. 
Orari: da lunedì a sabato: 10.30  -  19.30, domenica: 10.30  -  23, martedì: chiuso.
Ingresso: intero €7, ridotto €3,50, lunedì: gratuito
Informazioni:             081 1931301      ,  www.museomadre.org 2
Catalogo: Electa

mercoledì 14 dicembre 2011

Zar Caravaggio


In fila per il grande artista che può battere il record di Dalì. «Era così stravagante, mi chiedo come abbia fatto simili capolavori»

Davanti all'ingresso del Puskin fa freddo e nevica leggermente. Le automobili imbottigliate in quell'eterno ingorgo che è Mosca sono coperte da un sottile strato bianco. Un'ora dopo l'apertura, la fila per entrare al «Museo statale delle arti figurative Puskin» ha già superato l'angolo e gli ultimi sanno che non se la caveranno tanto velocemente. Si entra in gruppi di 30 persone ogni venti minuti. Ce ne vorranno ben più di sessanta per superare l'ingresso, affrontare l'imponente scalinata affiancata da enormi colonne e arrivare al piano della mostra, «la più grande di Caravaggio mai organizzata fuori dall'Italia», come recitano con orgoglio le locandine.
Il Puskin è un museo curioso. Oltre alle tantissime opere provenienti da tutto il mondo (unica la collezione di impressionisti francesi) ha anche una vasta sezione dedicata alle copie. Copia del Davide di Michelangelo, copia del colossale bronzo equestre al Gattamelata di Donatello, poi statue romane, busti greci, sculture assire, sarcofaghi egizi. Un museo «educativo» dove i cittadini sovietici che certo non potevano recarsi all'estero avevano modo di ammirare quei tesori.
E ancora oggi il Puskin è frequentatissimo dalle classi in gita, come quella proveniente da Tver che sta per entrare nella grande sala che ospita i Caravaggio. Sono ragazzini piccoli, ma tenuti in riga con pugno di ferro dalle insegnanti. Qui non si corre, non si grida, non si usa il cellulare e la settimana successiva si viene interrogati su quello che si è visto.
Ai russi piace documentarsi, non solo guardare le opere che sono esposte. Nel salone foderato di stoffa rossa che ospita gli 11 quadri giunti dall'Italia, sono appesi ben 13 grandi pannelli che raccontano tutto di Michelangelo Merisi. A fianco di ogni quadro, invece, solo poche righe: «Martirio di Sant'Orsola, Napoli Palazzo Zevallos Stigliano»; «Flagellazione, Napoli museo Capodimonte». Il tutto, naturalmente, in caratteri cirillici.
Lena, col naso gelato dopo 40 minuti di fila, è un medico in pensione e dice che quando può «va sempre a vedere le mostre che si tengono al museo che non è lontano da casa». Come pensionata paga 150 rubli, l'equivalente di 3 euro e mezzo che non sono certo pochi per chi prende 300 euro al mese. I visitatori normali pagano 300 rubli (7 euro), ma gli stranieri sono più «normali» degli altri in base a norme che non sono mai cambiate da quando c'era l'Urss e pagano 400 rubli. Entrano gratis invalidi, veterani di guerra, eroi dell'Urss e della Russia; i minorenni la prima domenica del mese. Davanti alla cassa c'è un tabellone fitto di regole, tabelle e tariffe. Anche questo rigorosamente solo in russo.
Yurij, 26 anni, fa lo scultore e quindi non poteva non visitare la mostra di Caravaggio. «Il mese scorso ho tentato di vedere anche l'esibizione di Salvador Dalì, ma la fila era troppo lunga», racconta. Per l'occasione è stato stabilito il record di visitatori: 270 mila in 11 settimane, più di 4 mila al giorno. La mostra di Caravaggio, che si tiene in contemporanea a quella sul pittore inglese William Blake, potrebbe fare ancora meglio. Tre anni fa il canale televisivo Cultura ha trasmesso con grande successo il film su Caravaggio prodotto dalla Rai e altre tv europee. E ciò ha sicuramente contribuito ad aumentare le attese. Irina, 26 anni, commessa in un negozio di vestiti, dice di essere molto curiosa. «Voglio capire come una persona dalla vita così stravagante abbia poi potuto dipingere simili opere».
Il salone rosso è affollatissimo, tra chi legge i pannelli, chi ascolta le audioguide e chi ammira le tele. La mostra è aperta dalle 10 del mattino alle 7 di sera. Ma già si pensa che presto il personale dovrà fare gli straordinari.
FONTE: Fabrizio Dragosei (corriere.it)

domenica 11 dicembre 2011

Danzate, danzate altrimenti siamo perduti

Al Centre Pompidou di Parigi i rapporti e le influenze reciproche tra arti visive e danza nel corso del Novecento

“La mia arte è un tentativo costante di esprimere in gesti e movimenti la verità del mio essere. Non ho fatto altro che danzare la mia vita». Così scriveva all’inizio del ’900 Isadora Duncan. E quasi un secolo dopo Pina Bausch ribadiva: «Danzate, danzate, altrimenti siamo perduti». Sta in queste due affermazioni il significato del titolo «Danser sa vie», la grande mostra che il Centre Pompidou di Parigi dedica ai profondi legami, alle reciproche influenze tra arti visive e danza. Un passo a due molto stretto che percorre un intero secolo. Non si tratta qui di analizzare il lavoro degli artisti «per la danza» (bozzetti, scenografie, costumi), ma le comuni aspirazioni di due arti che vanno avanti all’unisono, sospinte dalle medesime tensioni. 450 opere, da Matisse a Warhol, da Nizhinskij a Cunningham a Jérôme Bel. Un percorso in tre atti per raccontare la comune passione per il corpo in movimento: la soggettività, l’astrazione, la performance. Sono questi i tre grandi capitoli della mostra aperta sino al 2 aprile e curata da Christine Macel e Emma Lavigne.

Occorre ritornare ai pionieri, Loïe Fuller, Mary Wigman, Vaslav Nizhinskij, fondatori della danza contemporanea, per capire la rottura senza precedenti che si verifica all’inizio del ’900 nell’arte del corpo in movimento. La soggettività, l’essere più profondo dell’artista, è esplorata con una danza libera, sciolta dai legami del balletto classico, ed è incarnata dalla figura di Isadora Duncan nei disegni di Bourdelle. Gli artisti scoprono il corpo, esprimono un fervore sensuale, dionisiaco come capita nel Fauno di Nizhinskij fotografato dal barone de Meyer. Una nuova gioia di vivere si impossessa dei corpi danzanti proprio mentre Matisse o Derain esaltano il nudo. Lo stesso corpo nudo è celebrato dalle ronde bacchiche che si svolgono nei boschi svizzeri presso la comunità del Monte Verità con Rudolf von Laban e Mary Wigman.

Stretti rapporti artistici legano la Wigman con i pittori espressionisti. Per esempio le pulsioni di vita e di morte che animano il famoso assolo della Wigman Hexentanz (la danza della strega) trasmigrano sulla tela nelle figure di Emil Nolde e Ernst Ludwig Kirchner. Gli spettacoli dei Ballets Souedois ispirano i quadri di Picabia o animano il famoso Entr’acte di René Clair. Dal corpo, dalle arti visive nascono nuove forme plastiche. Che conducono nella modernità e all’astrazione. Il percorso prende il via dalla danza serpentina di Loïe Fuller (che influenza Sonia Delaunay), passa per i danzatori marionetta di Oskar Schlemmer ai tempi del Bauhaus (splendidi in mostra i costumi per il Balletto Triadico) per arrivare alle figure astratte dell’americano Alwin Nikolais che propone una integrazione di tecnologia e scena, creando figure geometriche che assumono forme inattese grazie anche all’uso totalmente nuovo dell’illuminotecnica. Un percorso simile è compiuto per esempio da Kandinskij che si ispira alle istantanee della danzatrice Gret Palucca per creare sinfonie astratte di linee rette e curve.

Il legame si fa ancor più stretto all’epoca delle neoavanguardie americane, del post modern, con l’irrompere in scena della performance. C’è un filo rosso, sotterraneo, che unisce le azioni dadaiste del Cabaret Voltaire di Zurigo, durante la prima guerra mondiale, alle performance del Black Mountain College organizzate da Cunningham, Cage e Rauschenberg nei primi anni 50. Per arrivare sino alle esibizioni nelle gallerie d’arte, oppure organizzate sui tetti dei grattacieli, verticalmente lungo le pareti degli edifici. Si scopre il video. Sono gli anni di Trisha Brown e Lucinda Childs e tutti gli altri innovatori del Judson Dance Theatre. Childs in Dance proietta direttamente sui ballerini il video di Sol Lewitt che riprende gli stessi interpreti ma da altre prospettive. Action painting, body painting dilagano. Ecco allora un grande foglio bianco con un disegno astratto al carboncino di Trisha Brown, fatto di fluide inarrestabili linee. Lo ha realizzato pochi anni fa. Danzando e disegnando contemporaneamente.

FONTE: Sergio Trombetta (lastampa.it)

sabato 10 dicembre 2011

McCurry, l'Italia e l'Oriente Al Macro un maestro del clic


A  Roma, una grande mostra celebra una leggenda della fotografia contemporanea, il "Cartier Bresson a colori". Oltre duecento scatti raccontano tutti i suoi viaggi, compreso l'ultimo, in Italia. L'abbiamo intervistato


Ci sono i manifesti strappati da un muro di Venezia e i set deserti di Cinecittà, le processioni del venerdì santo in Sicilia e il mercato bric-à-brac di Porta Portese di Roma. I colori sontuosi, la perfezione dell'inquadratura, i dettagli virtuosi, rimangono gli stessi di sempre, ma spicca un nuovo orizzonte paesaggistico, una nuova umanità, nella grande mostra antologica di Steve McCurry che dal 3 dicembre al 29 aprile invade gli spazi de La Pelanda al MacroTestaccio. 

Uno dei più grandi fotografi viventi, americano di Philadelphia, classe '50, firma di punta di riviste prestigiose come National Geographic, Time, Life, inviato da trent'anni a documentare l'universo Oriente, tra guerre, povertà, misticismi e natura, sfoggia per la prima volta i lavori più recenti, dal 2009 al 2011, tra buddhismo, Cuba, Birmania, fino all'Italia. Un omaggio frutto di sei mesi di indagini tra città e regioni in occasione dei 150anni dall'Unità. A impreziosire la mostra, l'allestimento di "igloo" hi-tech che accolgono le opere, firmato dall'architetto e designer Fabio Novembre. "Il lavoro di McCurry è sulle incertezze e debolezze - commenta Novembre - E l'umanità che ci restituisce McCurry è cosciente delle proprie debolezze. Io ho voluto trovare una casa a questa umanità. Gli igloo allora diventano il viaggio nomade dell'umanità". Ne parliamo con Steve McCurry.
Per la prima volta la forza e la bellezza delle sue fotografie non scorrono sulle pareti ma "abitano" uno spazio...
Rispetto alle mostre precedenti cambia completamente il concetto di visione. Si mettono in luce gli aspetti fondamentali dei luoghi ritratti proprio attraverso l'unicità del design.

Ogni fotografia ha una sua storia. Ma a quale di queste foto si sente più legato?
Domanda difficilissima. E' quasi impossibile avere una foto preferita (McCurry ci riflette a lungo, sfogliando le pagine del catalogo della mostra, ndr.) Sono come dei figli. Forse, in questo caso, penserei all'Italia. Con questa mostra ho avuto la possibilità di raccontare l'Italia con foto inedite.  

E qual è la sua Italia?
Si potrebbe cominciare a parlare della bellezza dell'Italia, ma non vorrei che suonasse come un cliché. L'Italia è probabilmente il paese dove il senso della bellezza è più evidente, perché tutto qui sembra un pezzo d'arte. Io non ho cercato la bellezza canonica, da cartolina. Ci sono luoghi fotografati milioni di volte, la grande sfida è stata quella di cercare di mostrare qualcosa di nuovo su luoghi bellissimi. 

Per esempio?
Il cimitero del Verano a Roma. Ho camminato ore e ore in questo luogo. La sua bellezza è frutto di una combinazione di più elementi. Offre un'esperienza emotiva molto forte. Si percepisce una sorta di profonda tristezza, ma allo stesso tempo emana una suggestiva bellezza che commuove. E' un luogo che vive di questo paradosso. Ne ha visitati tantissimi di cimiteri da ma questo è il più interessante del mondo. Mi ha affascinato come esperienza umana, non tanto come attrazione turistica. 

In mostra, molti scatti sono dedicati a Venezia e alla Sicilia
Venezia è una gemma, un concentrato di arte. Della Sicilia mi ha colpito molto la passione. Soprattutto nelle tradizioni religiose, nelle processioni per le festività di Pasqua. E sono rimasto colpito da come la forza delle tradizioni si senta anche nei luoghi più nascosti, nei paesini agli angoli dell'Italia. 

C'è un'immagine che l'ha fatto "soffrire" di più rispetto ad altre, in termini emotivi ma anche di realizzazione tecnica.
Soprattutto quelle realizzate in Afghanistan, per le difficoltà e i pericoli del momento. Ho passato molto tempo nelle zone di guerra e tutto diventa più complicato. Ma ora non so bene se voglio tornare a raccontare queste storie, forse in questa mia vita ora voglio dedicarmi ad altre storie. 

Pensa di guardare più all'Occidente?
No, affatto. Non è una questione di Oriente o Occidente. Il prossimo mese sto per andare in Turchia, poi Singapore e la Thailandia. 
    
Il volto della bambina afghana è il suo capolavoro. La Mona Lisa del Novecento. Ci racconta com'è nata quella foto, come scoprì quel volto?
Nel 1984 ero in Afghanistan, in un campo profughi, e stavo visitando una scuola femminile. Vidi questa bambina, in un angolo, aveva degli occhi brillanti. Per lei era la prima volta che incontrava uno straniero, ed era la prima volta che veniva fotografata da qualcuno. Lei era orfana, rifugiata. Mi guardava in modo curioso, anche perché non riuscivo a parlare la sua lingua. Era una sitazione in cui tanti elementi diversi si sono combinati tra loro. La sua espressione racchiude tutto il senso: lei era se stessa, aveva esattamente quello sguardo, non rideva, non piangeva, non si arrabbiava, era assolutamente se stessa. E' una foto  impossibile da rifare. Semplice ma potente.

Notizie utili - "Steve McCurry", dal 3 dicembre al 29 aprile 2012, Macro Testaccio La Pelanda, piazza Orazio Giustiniani 4, Roma. Organizzazione: Civita.
Orari: martedì-domenica 15-23. 
Ingresso €10, ridotto €8.
Informazioni: 06671070443, 060608

FONTE: Laura Larcan (repubblica.it)

martedì 6 dicembre 2011

Lo show del cantore dell'ambiente a Prato si rivede De Maria


Al Centro Pecci, una mostra celebra il maestro della Transavanguardia. Nell'antologia dagli anni Novanta ad oggi, sfilano le visioni cosmiche, i colori "musicali" e le stanze dipinte


"I miei dipinti s'inchinano a Dio". Nel titolo che il grande maestro della Transavanguardia Nicola De Maria ha scelto per la sua mostra antologica dal 10 dicembre al Centro per l'arte contemporanea Luigi Pecci, c'è condensata tutta la sua ricerca. Che non va fraintesa in termini meramente religiosi, bensì in un'ottica di lirica esaltazione della bellezza naturale, fatta di esplosione di colori, di astrazione delle forme e di segni fluttuanti e dinamici. Perché nell'arte di De Maria, romano, classe '52, c'è l'evocazione della meraviglia umana al cospetto dell'universo, c'è lo stupore verso visioni cosmiche, c'è la suggestione di scenari scoperti attraverso viaggi fantastici, c'è l'eleganza di una poesia visiva composta di colori e forme, c'è l'armonia disarmonica del ritmo musicale. 

La profondità del blu, l'energia dei gialli, la forza prorompente del rosso, i bianchi orchestrati in costellazioni lattiginose. Tutto questo lo racconta il bel percorso cronologico di lavori che rievocano una produzione dagli anni Novanta al Duemila, sotto la cura attenta e vigile di Achille Bonito Oliva e Marco Bazzini, nell'ambito del progetto Transavanguardia italiana che sta celebrando con mostre disseminate sul territorio nazionale gli illustri maestri del movimento affermatosi negli anni '80. La mostra dunque diventa l'occasione per lasciarsi sedurre dall'immaginario poetico di Nicola De Maria, con i suoi giochi di colori che possono esplodere su una tela, come la grande tela mozzafiato "Universo senza bombe" (1984  -  1985) conservata in una collezione privata di Colonia, ma anche espandersi sui muri avvolgendo lo spettatore con tutte le pareti di una stanza, catapultandolo in una dimensione alternativa. 

Per la mostra, infatti, l'artista ha confermato la sua cifra stilistica di "pittore ambientale", per dirla con Bonito Oliva, e dipingendo direttamente sulle pareti. "Nicola De Maria, mediante un linguaggio astratto, sfonda la cornice del quadro ed invade l'architettura del vissuto - commenta Achille Bonito Oliva - Il risultato è una pittura che assume la cadenza spaziale del concavo, una curvatura che include lo sguardo e la complessità sensoriale dello spettatore. Perché qui l'arte non vuole una frontalità contemplativa ma il movimento del corpo che vive la transfigurazione estetica senza alcuna distanza". 

Una parata di colori che sembrano comporre una amalgama di suoni "tanto differenti che danno vita a una serie di asimmetrie ritmiche, disarmonie e stonature che hanno però le stimmate della classicità". Per Marco Bazzini, infatti, le affinità elettive tra i colori di Nicola De Maria e la musica sono assolute. "L'arte di Nicola De Maria è un viaggio in mongolfiera nel suono-colore, un'architettura sinfonica di musica-occhi". E la parete dipinta eccezionalmente per la mostra diventa un evento unico e irripetibile. 

"La sua pittura ambiente è umile ed epifanica - avverte Bazzini - appare per un tempo e poi come un fantasma scompare, per restare nella memoria delle architetture che l'hanno ospitata e nei ricordi di coloro che l'hanno ascoltata con la stessa partecipazione con cui si ascolta un concerto. Fortunato colui che può dire io c'ero, proprio come quando si prende parte a quel live che ti ha cambiato la vita senza però essere in grado di raccontare nel particolare tutte le emozioni che si sono vissute".

Notizie utili - "Nicola De MariaI miei dipinti s'inchinano a Dio", dal 10 dicembre al 4 marzo 2012, Centro per l'arte contemporanea Luigi Pecci, Viale della Repubblica, 277, Prato.
Orari: tutti i giorni 10-19, chiuso il martedì, 24, 25 e 31 dicembre 2011. 1 gennaio 2012 aperto con orario 15 - 19.
Ingresso: €4.
Informazioni: tel. 0574 531828, www.centropecci.it 2

FONTE: Laura Larcan (repubblica.it)