giovedì 8 aprile 2010

Così l'arte si fa strada

Barriera di Milano, a Torino, è un quartiere di quelli che tra una rapina e un «tossic park» finiscono spesso sulle pagine di cronaca, perfetto per eventuali ricerche sociologiche e non a caso oggetto di una prossima «riqualificazione» urbana. E dunque perfetto per ospitare «Strada Facendo», la collettiva di Street Art che inaugura domani presso lo Spazio Barriera di Artegiovane, ex fabbrica circondata da case che un tempo ospitavano operai arrivati dal Sud e oggi molto spesso abitate da famiglie «multietniche». La mostra torinese dal respiro internazionale aggiunge un nuovo capitolo all'ormai non breve (almeno all'estero) storia dell’accettazione, della mercificazione e della musealizzazione di un fenomeno nato nella più assoluta illegalità ormai più di quarant’anni orsono sui muri e nelle stazioni della metropolitana di ghetti come Harlem o il Bronx, e sceglie di mettere assieme nomi ormai celebri (nella sezione «fuori mostra», allestita con la galleria The Don del collezionista milanese Matteo Donini, spiccano tra gli altri Banksy, OBEY, Rob English, Space Invader e Futura 2000) e giovani leve italiane e non, riservando alcune sorprese. 

A cominciare dall'artista parigino FDKL (alias di Franck Duval), che con i suoi quarantasette anni racconta come rispetto alla maggior parte dei suoi colleghi abbia fatto in realtà il percorso inverso: «Io su strada ho iniziato a lavorare solo quattro anni fa. Per vent’anni, prima, mi sono dedicato alla pittura, e intorno al 2000 mi sono avvicinato al collage. Per me esporre in pubblico era normale. Poi un giorno mi sono detto che proprio come fanno i graffitisti volevo lasciare un segno del mio passaggio nella mia città. E ora mi ritrovo a esporre qui e altrove non come pittore ma come artista di strada». Monsieur Duval, che vende le sue opere anche sul web e che in Francia viene chiamato a produrre i suoi collage da amministrazioni pubbliche e da privati cittadini, insegna la sua tecnica di lavoro (brevettata) anche nelle scuole: «Uso vecchie riviste degli Anni Cinquanta e Sessanta e rotoli di normalissimo scotch. I bambini si divertono un mondo: e io con loro. Ho una trentina di personaggi feticcio, tra cui Madame Quicampoix, che deve il suo nome alla via di Parigi dov’è nata. Sono stati gli abitanti del quartiere a chiamarla così». 

Già: e gli abitanti di Barriera di Milano? In che rapporti sono con la Street Art? Gec, che di anni ne ha ventisei ed è l’artista di strada torinese che con il collega Br1 ha supportato Alvise Chevallard nell’ideazione di questa mostra curata da Olivia Spatola, ammette che almeno per il momento l’osmosi con il territorio latita: «Abbiamo cercato artisti di strada del quartiere per coinvolgerli nell’iniziativa, ma alla fine ci siamo dovuti arrendere. Da queste parti prevale il bombardamento fine a se stesso». Che, tradotto, vuol dire muri imbrattati all’insegna del miglior vandalismo e stop. «Per me che ho iniziato guardando a Keith Haring e che lavoro con la tecnica del fumetto», dice Gec, che in città si è fatto conoscere grazie ai suoi personaggi con la testa infilata dentro un computer o un televisore, «è stato importante creare un percorso che avvicinasse street-artist ormai sessantenni ai ragazzi della mia generazione, e mostrare l’evoluzione di questo fenomeno, come dai graffiti e dallo spray si sia arrivati all’uso di stencil, poster, ceramiche, fino al video e alla performance nei casi in cui ci si è più avvicinati all'arte contemporanea. Nel nostro mondo c’è chi è rimasto hardcore e fa solo “pezzi” per strada o sui vagoni della metropolitana, e chi è entrato nel giro delle gallerie e ha raggiunto quotazioni considerevoli». Tant’è che oggi come oggi, a fronte di tanti cittadini esasperati che in tutto il mondo spendono fior di quattrini per far ritinteggiare le loro abitazioni, ce ne sono altri che pagherebbero di tasca loro per avere un muro «firmato» Banksy da rivendere al miglior offerente. 

Sia come sia: mentre nello Spazio Barriera fervono i preparativi e ci s'imbatte nelle enormi scatole di cartone che il tedesco trapiantato a Barcellona Boris Hoppek abbandona nelle città come frammenti di un gigantesco puzzle, o nel coccodrillo che emerge dal cemento del milanese Pao diventato famoso per i suoi «panettoni» anti-parcheggio trasformati in pinguini, Alvise Chevallard di Artegiovane dice che «Strada Facendo» nasce proprio dal ricorrente dibattito sui danni provocati dalla Street Art, e confessa un rimpianto: «In un primo momento avremmo voluto ospitare anche opere e artisti dai paesi dell’Est e poi da Iran, Israele, Palestina. In quei luoghi la Street Art è una forma d'arte davvero politica, una delle pochissime forme di libertà di espressione. Ma per i noti tagli alla cultura, non ci è stato possibile». Quanto al rapporto con il territorio, che nel caso della Street Art non è mai semplice, al quartiere Barriera di Milano la mostra lascerà qualcosa di concreto: «Uno degli artisti coinvolti realizzerà un'opera per la facciata dei bagni pubblici, un tempo frequentati da immigrati dal Meridione e oggi quasi solo da stranieri. Da due o tre anni in quel contesto si tengono incontri culturali, ed espongono artisti soprattutto africani. In questo quartiere proprio i bagni pubblici sono uno dei punti più vitali». 

A proposito: benché la Street Art una volta messa in mostra risulti fatalmente depotenziata, ripercorrendone la storia e illustrandone gli ultimi sviluppi «Strada Facendo» ne conferma la perdurante vitalità. Resta la domanda: perché in quest’ambito artistico le donne sono rarissime? Ma per fortuna sabato prossimo in calendario c'è anche un «dibattito», e allora, forse, sapremo. 

FONTE: Giuseppe Culicchia (lastampa.it)

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