sabato 10 aprile 2010

Design e architettura a braccetto per inventare i dorati anni Ottanta

Architetto o designer? Artista o performer? Decoratore o provocatore? Sono alcune delle domande che ci si pone di fronte al poderoso corpus di opere di Alessandro Mendini, cui da oggi il MARCA di Catanzaro rende omaggio con una mostra in parte retrospettiva e in parte proiettata sul presente e, perché no, verso il futuro.
Mendini, infatti, non è solo protagonista degli ultimi quarant’anni di architettura italiana, ma soprattutto responsabile primario di quel deciso cambio di rotta nello stile e nel gusto coinciso con la nostragolden age, i fantastici anni ’80. Nonostante la formazione concettuale, implicita per quelli della sua generazione, abbandonerà presto le speculazioni teoriche per dedicarsi a rappresentazioni oggettuali concluse, destinate a entrare nelle nostre case. Nato a Milano nel 1931, compie la pratica presso lo Studio Nizzoli Associati, quindi tralascia la progettazione sedotto dal giornalismo e dall'editoria. Tra 1970 e 1976 dirige Casabella (che funziona da traino del suo primo gruppo, i Global Tools); nel ’77 fonda Modo, nel ’79 eredita da Giò Ponti la direzione di Domus, fino al 1975, riprendendola sorprendentemente, a distanza di venticinque anni, lo scorso febbraio.

Se il primo periodo di attività segue la linea di un’architettura incline alla smaterializzazione, vicina alla Body Art, alla performance, all’intervento estemporaneo, la vera «rivoluzione» si compie nel 1979, quando neanche troppo casualmente si assiste alla rinascita della pittura e al ritorno in voga del prodotto manuale e artigiano. È tra i primi, Mendini, a introdurre nel nostro Paese la nuova mentalità postmoderna, non più in lotta con il passato, indifferente al problema dell’originalità a tutti i costi, incline a considerare la storia e la tradizione come un ampio bagaglio dal quale attingere idee, immagini, sensazioni. Nel 1980 è al centro della I Biennale d’Architettura a Venezia, insieme a Paolo Portoghesi e Aldo Rossi, nata proprio per evidenziare che questo linguaggio non può più essere considerato una branchia delle arti visive, ma espressione matura in cui riflettere di contaminazioni e cross-over. Mendini ne cura una delle sezioni più intriganti, «L’oggetto banale», dedicato al design italiano, d’autore e prodotto di massa, che ha scandito le abitudini degli italiani, recuperando in pieno il valore positivo del termine decorazione bandito dalle teorie di Adolf Loos (quello de «l’ornamento è un delitto») e seguito come un dogma da funzionalisti e minimalisti. Simbolo di questa fantastica «controrivoluzione» è la Poltrona Proust, dedicata allo scrittore della Recherce, che consiste nel riappropriarsi di una vecchia e comoda seduta in stile Impero, molle e debordante a sfiorare il kitsch, dipinta a mano tra pointillismo astratto e iperdécor. La Poltrona, divenuta un oggetto di culto e prodotta dallo Studio Alchimia cui collaborano saltuariamente Michele De Lucchi ed Ettore Sottsass, rivela la non secondaria passione di Mendini per la pittura, disciplina che ha sviluppato in parallelo, esponendo spesso i suoi quadri in gallerie d’arte.

FONTE: ilgiornale.it

Nessun commento:

Posta un commento