lunedì 17 settembre 2012

Edward Weston: quando l'immagine si tiene in forma


A Modena la grande retrospettiva del fotografo americano che andava alla ricerca della «quintessenza delle cose»

Il mezzo fotografico deve essere usato per registrare la vita, per rendere la vera sostanza e la quintessenza delle cose in sé, si tratti di un lucido acciaio o di carni palpitanti»: avendo Edward Weston simili intenti è facile capire come le immagini del fotografo americano fossero, nello scorso fine settimana, il giusto corollario al Festival di Filosofia di Modena, Carpi e Sassuolo dedicato proprio alle «cose». Perché un viaggio nelle fotografie di Weston è proprio un viaggio «nelle cose», dove queste però sono scandagliate nelle loro forme a tal punto che finiscono talora per diventare pura astrazione, si tratti delle foglie di un cavolo, delle ali di un gabbiano, delle dune del deserto o delle curve sinuose di un corpo femminile.

Il bello è che ai suoi esordi, negli Anni 10 del ‘900, Weston, dopo aver fatto per un po’ il sorvegliante alle ferrovie, si era inventato il lavoro di ritrattista da strada: girava per la California, offrendo i suoi servizi porta a porta, per immortalare soggetti che erano bambini, animali o funerali. Poi gli studi, l’abbandono del flou e dello stile pittorialista allora in voga, la conoscenza a New York del gruppo di Stieglitz, la permanenza in Messico con Tina Modotti (assistente, musa e amante: le donne hanno un ruolo fondamentale nella sua vita e sovente segnano anche periodi professionali, come sarà per Margrethe Mather, Sonya Noskowiak e Charis Wilson, con lui negli anni felici della borsa di studio Guggenheim), l’amicizia con

Ansel Adams e la fondazione del gruppo «f/64» (indica la chiusura del diaframma dell’obiettivo che gli aderenti al gruppo usavano per ottenere la massima profondità di campo e quindi la maggior nitidezza possibile). Per un certo periodo questa pattuglia di «talebani» dell’immagine fu la punta di diamante dell’avanguardia fotografica americana: per loro ogni immagine non perfettamente a fuoco, non stampata a contatto, non montata su cartoncino bianco e che non avesse come scelta del soggetto un legame con la realtà era impura.

Weston, come scriverà nei suoi diari, riteneva che «registrare la forma fisica delle cose in modo oggettivo non preclude l’originalità né la soggettività del fotografo». E lo dimostrano proprio le 105 immagini selezionate da Filippo Maggia, nell’ex ospedale di Sant’Agostino, nella mostra realizzata per la Fondazione Fotografia. Immagini che talora creano una sorta di corto circuito temporale, perché le foto di Weston hanno questo di sorprendente: alcuni ritratti soprattutto della stagione messicana, con i soggetti di profilo e in posa quasi «monumentale», non puoi non collocarli negli Anni 30, e pur nella loro perfezione tecnica ti paiono datati, ma altri scatti (pensiamo a Brooklyn o alle altre strutture industriali, dai serbatoi della Gulf Oil alle ciminiere della Armco del 1941) ti sembrano fatti oggi e più contemporanei di molta fotografia contemporanea.

Così come il «duello» con Ansel Adams (una cui grande retrospettiva fu ospitata in questi stessi spazi un anno fa), che si tratti di dune del deserto, di cactus o di gran canyon, finisce per essere vinto da Weston, la cui capacità di «penetrare» le forme risulta indubbiamente superiore. Forse perché era «filosoficamente» più attrezzato: teorizzava che in realtà il fotografo deve avere già nella sua testa l’immagine che poi scatterà, che deve essere frutto del mix tra «svelamento del soggetto, consapevolezza del fotografo e prontezza della macchina».

Pur essendo sostenitore di una fotografia legata alla realtà, e in qualche modo in sintonia «politica» con la generazione di fotografi della Farm Security Administration, Weston non è però interessato all’indagine sociale. Così, se Dorothea Lange & C. girano, negli anni della Grande Depressione, per l’America a fotografare le difficili condizioni di vita dei migranti in cerca di un lavoro, lui collabora con il Governo per una campagna dedicata alle architetture di Monterey nel Nuovo Messico. E più delle persone sembrano affascinarlo le forme delle nuvole o quelle dei cipressi o dei peperoni o la terra «desolata» e crepata dalla siccità.

Weston fu il primo fotografo a ricevere una borsa di studio per poter sperimentare la sua arte dalla Fondazione Guggenheim: nel 1937 e nel ‘38 scattò per quel progetto oltre 1500 negativi. Si ritirò a stamparli a Carmel, in una casa in riva al mare che diventerà il suo ultimo rifugio. Nel 1944 sarà colpito dal morbo di Parkinson, l’ultima foto la scatterà nel 1948. Nel 1956 viene consacrato da una grande omaggio che Beaumont e Nancy Newhall gli rendono alla Smithsonian Institution di Washington. Il primo gennaio del 1958, settantunenne, morirà guardando l’alba sull’Oceano e le sue ceneri verranno disperse nel Pacifico, da quella spiaggia di Point Lobos le cui rocce e i cui anfratti aveva fatto entrare nella storia della Fotografia.

EDWARD WESTON
UNA RETROSPETTIVA
MODENA, EX OSPEDALE SANT’AGOSTINO
FINO AL 9 DICEMBRE

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