giovedì 26 aprile 2012

Mattioli, il mistero negli oggetti


A Palazzo d'Accursio le sue tele dialogano con Morandi


Diceva Morandi che non c’è niente di più misterioso del visibile. L’affermazione può stupire perché, di solito, abbiamo un’idea banale del mistero. Lo colleghiamo a cose sconosciute e strane, a fenomeni scientificamente inspiegabili, magari (se abbiamo qualche bambino per casa) alle magie di Harry Potter. Non ci viene in mente che un bicchiere racchiuda un enigma, al massimo stiamo attenti che non si rompa. Invece Morandi, che ha dipinto nature morte tutta la vita, sapeva che le cose più semplici - un vetro, una bottiglia, un vaso - sono misteriose, anzi sono le più misteriose di tutte.


Mattioli (Modena 1911- Parma 1994) la pensava allo stesso modo. Lo dimostra l’antologica «Nature morte. Carlo Mattioli al Museo Morandi», curata da Simona Tosini Pizzetti, che attraverso una cinquantina di opere analizza appunto il colloquio del pittore modenese col maestro di via Fondazza: un colloquio intessuto di citazioni, omaggi, scontri e, soprattutto, della consapevolezza che ci sono più enigmi su un tavolo da cucina che in un tavolino per sedute spiritiche.



Le nature morte che Mattioli dipinge sono, ovviamente, diverse da quelle morandiane. Partecipi di una sensibilità informale (che non era estranea neanche all’ultimo Morandi, anche se ruppe l’amicizia col critico che osò scriverlo), le sue opere sono grumi di materia, ditate di colore, apparizioni spettrali che dell’oggetto hanno conservato solo l’estensione e il peso. Mattioli non dipinge brocche e bottiglie ma, verrebbe da dire, quello che ne è rimasto dopo una colata di lava, come se una nuova eruzione di Pompei avesse lasciato solo cenere, calchi, masse di argilla rappresa.



È appunto qui che Mattioli raccoglie non la lezione di Morandi (che era un’altra e non si poteva ripetere, a meno di diventare suoi epigoni), ma quel senso di mistero che l’artista bolognese insinuava nelle sue composizioni. Perché cosa sono le nature morte dipinte da Mattioli, se non oggetti irriconoscibili, anzi inconoscibili? Tu pensi, guardandoli, che siano vasi o libri o frutti su un tavolo, ma in realtà stai tirando a indovinare perché nessuna di quelle pennellate dense e malconce ti autorizza a identificarli. Degli oggetti, nei quadri di Mattioli, sono rimasti la materia e l’ombra, che danno l’idea di un mondo disadorno e, in tutti i sensi, con poca luce.



Da tutte le sue nature morte, insomma, sembra nascere una domanda: perché la vita deve essere così pesante, faticosa, grama? Cosa abbiamo fatto di male? Cos’è questa mano di calce che ricopre tutte le cose e da cui emerge solo qualche improvviso bagliore? Mattioli racconta appunto la sua “irritabilità metafisica”, come nota Vallora in catalogo. Anzi la fa raccontare a Morandi, di cui ci lascia un ritratto velenoso e indimenticabile, dove il pittore bolognese non ha quell’aria ascetica e ispirata che gli ha attribuito tanta critica agiografica, ma appare pensoso e insoddisfatto. Come chi si interroga e non trova risposte.


CARLO MATTIOLI AL MUSEO MORANDI
BOLOGNA, PALAZZO D'ACCURSIO
FINO AL 6 MAGGIO



FONTE: Elena Pontiggia (lastampa.it)

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