domenica 30 maggio 2010

Il Maxxi stupisce, e De Dominicis seduce il Macro è un tutt'uno con la città


Il primo percorso nelle sale dei due musei romani "inaugurati" ieri. L'opera di Zaha Hadid sa essere appariscente e scioccante all'esterno ma poi si rivela versatile e adeguato. La mostra dell'artista concettuale ci cade a pennello. La nuova ala di Odile Decq gioca la carta della simbiosi con il tessuto urbano circostante. E riesce.


Il Maxxi di Zaha Hadid è come un profitterol: fuori invitante e suggestivo, dentro una combinazione armonica di elementi che come i bignè del dolce giocano, magari stravolgono o alterano, le aspettative di un godimento pieno dello spazio. In barba a tutte le polemiche e critiche delle ultime ore, il Maxxi è un museo tutto da metabolizzare, bello e seducente all'impatto visivo, complesso, a tratti spiazzante, ma versatile, all'interno. Un capolavoro? Si, senza dubbio, se ci si lascia coccolare dalle sensazioni primarie e istintive, senza rovelli intellettualoidi. E' un colpo d'occhio come non se ne vedevano da tempo, e a Roma fa solo che bene. E' un luogo dove respirare a pieni polmoni il senso mutevole, febbricitante, caustico dell'arte contemporanea. E le mostre allestite per l'occasione gli rendono giustizia. L'omaggio a Gino De Dominicis curato da Achille Bonito Oliva è perfettamente in sintonia col Maxxi, le bizzarrie concettuali del maestro italiano scomparso nel 1998 assecondano l'andamento fluido e ritmico del museo sul filo rosso del tema dell'immortalità, tanto caro all'artista, declinato in una variante del teatro dell'assurdo di beckettiana memoria tra fotografia e video, sculture-installazioni, object trouvé. 






Un percorso articolato, quello per De Dominicis, che la fa da padrone tra atrio-hall-piazza (dove giace la Calamita Cosmica, lo scheletro umano di 24 metri col naso di pinocchio e l'asta d'oro di sette metri) al foyer con la sua mozzarella (di cera anche se si era cercato uno sponsor che desse mozzarelle di bufala autentiche) in carrozza d'epoca, alle sale interne. Tutta all'insegna dell'eccentricità, ma col garbo di una analisi didattica, la sezione "Spazio", l'allestimento del debutto delle collezioni di arte e architettura del Maxxi, che rende ancora più accattivante la passeggiata nel museo, tra installazioni monumentali permanenti, come quelle di Anish Kapoor, Giuseppe Penone, il wall drawing di Sol Lewitt, l'igloo di Mario Merz, i "quattro fili elettrici  -  tenda di lampadine" di Michelangelo Pistoletto, le videoinstallazioni sempre ipnotiche di Grazia Toderi e quelle controverse ma genialoidi di Francesco Vezzoli, le mappe di Alighiero Boetti e gli arazzi di William Kentridge. Solo per citarne alcuni (ma il percorso si snoda in oltre settanta lavori della collezione permanete, più prestiti da istituzioni museali italiane). Con questi interagiscono (qui forse l'abbinamento è più caotico e meno percepibile) le installazioni (dentro e fuori il Maxxi) site specific curate da dieci studi internazionali di architettura che indagano e riproducono una personale idea di spazio del ventunesimo secolo. 

Fatale, come sempre d'altronde, il tocco di Studio Azzurro, collettivo di videoartisti, che lungo un muro di quaranta metri hanno escogitato il loro racconto interattivo di 60 anni di architettura italiana (manipolando immagini cinematografiche, fotografie, interviste, in uno show onirico soprendente, dove vale la pena trattenersi a lungo per averne una visione complessiva). Interessante, la retrospettiva dedicata a Luigi Moretti architetto del Novecento tutto da riscoprire (suo per esempio il famoso complesso del Watergate di Washington) raccontato tra i documenti dell'Archivio di Stato e le immagini potenti  e disincantate di Gabriele Basilico. Del tutto sorprendente, la scelta del turco Kutlung Ataman, videoperformer col cuore nel Mediterraneo. Ma il bello del Maxxi è quello di essere una macchina viva che pulsa in ogni interstizio: tra corridoi secondari, ascensori, scale e ballatoi, c'è sempre una presenza d'autore, tra le installazioni di Net Art, ai lavori di Andy Warhol, Stefano Arienti, Pino Pascali. 

Il Macro, dal canto suo (progetto da 20 milioni di euro rispetto ai 150 del Maxxi, oltre 19 mila metri quadrati, di cui 10mila per la nuova ala, rispetto ai 27mila del Maxxi), è una creatura più simbiotica e malleabile, vezzosa ed eccentrica al punto giusto per un ventunesimo secolo che avanza, ma allo stesso tempo arguta e geniale nella sua integrazione urbanistica e sociale di Roma. Non strafa ma sa stupire con garbo e modestia. Regala anche il Macro i suoi colpi d'occhio mozzafiato, ma sa anche divertire con piccoli grandi tocchi di design geniale. Quando entrerà a regime (a ottobre) sarà un bel regalo per Roma. Il museo di Odile Decq ha dei guizzi formidabili, come l'ingresso (sull'angolo via Nizza via Cagliari) che dopo una penombra porticata immette come un fulmine in una sorta di piccolo "bosco sacro" dall'aura zen, da cui si accede nel grande foyer nero inondata di luce naturale dal soffitto lucernaio, dove subito ci si scontra  con lo scheletro esterno dell'auditorium, il geode la "pietra preziosa" il cuore del museo coi suoi interni laccati di rosso sangue e 159 poltroncine attrezzate di tavolini reclinabili e lucette personalizzate. 


E' una sequenza ininterrotta di spazi, il Macro, con questo meccanismo variabile e dinamico delle passerelle che fluttuano per tutti gli ambienti in modo da variare la percezione delle cose in ogni attimo. Soprattutto dell'Alfabeto di Nunzio, scultura monolite gigantesco protagonista del foyer. Sul fronte espositivo, spicca la grande sala Enel, spazio macroscopico, forse difficile da gestire in futuro, ma biologicamente compatibile con interventi ciclopici ad effetto (oggi e fino a domenica dominati dalla Chimera di Mario Schifano un murale di 40 metri quadrati, dalle vele di Kounellis, dalla montagna di pentole di Gupta. E' tutto da scoprire il Macro, tra la piccola (si fa per dire) galleria allestita per l'occasione con pezzi forti della collezione bulimica alimentata dal direttore Luica Massimo Barbero, da Fontana a Bice Lazzari, da Consacra a Novelli, da Paolini a Yves Klein e Pascali. 

Il bello del Macro è la cura certosina del design (in questo Odile Decq è una poetessa) dalle toilette ai tavoli della caffetteria ristorante (un puro gioco dei sensi). Pezzo forte, tutto da sfruttare in mille modi, la terrazza-giardino-fontana, che diventa una vera e propria piazza pensile del quartiere grazie ad una serie i passaggi e scale che mettono in contatto le strade dell'isolato. Le sale del "vecchio" macro sfoggiano poi (fino al 28 agosto) le varie mostre show pensate da Barbero. Se la macro-hall è tutto trasfigurata dall'installazione permanente di Daniel Buren con i suoi giochi di specchi, a divertire l'umore del visitatore ci sono i settemila aquiloni a cascata si Hashimoto, gli oggetti concettuali di Aaron Young, gli ambienti salini di Jorge Peris, i monocromi di Joao Louro, le creature misteriose di Gilberto Zorio, i giardini spirituali di Luca Trevisani e i pezzi storici di Alfredo Pirri.

FONTE: Laura Larcan (repubblica.it)

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