mercoledì 12 maggio 2010

A Reggio Emilia fotografia a caccia d'incanti


Da Man Ray a Kenna, da Leccia a Borthwick la decima edizione del Festival dedicato all'immagine europea

Era il 1978 ed ero a Roma. Una sera, mi trovai per caso sul luogo di un attentato terroristico e mi colpì il volto della vittima a terra, mentre le luci delle ambulanze lo illuminavano a intermittenza. L’emozione di quel momento drammatico mi ha portato, molti anni dopo, a creare questo lavoro».  A parlare è Ange Leccia, l’artista francese che nel suo Sensitive Wall proietta l’immagine di un volto di donna che si accende e si spegne di rosso. Nella sala accanto, per la stessa serie, in un video c’è il viso di Laetitia Casta che sprofonda nell’acqua e respira e si muove al rallenty con le bollicine. Il tutto sulle pareti del Chiostro in ristrutturazione della chiesa di San Pietro a Reggio Emilia. La città ospita, fino al 13 giugno, «Fotografia Europea», la kermesse dell’immagine curata da Elio Grazioli che è arrivata alla decima edizione. Quest’anno il filo conduttore delle decine di mostre, incontri e workshop è l’incanto. Incanto che però Grazioli non intende come qualcosa di rassicurante e idilliaco, ma piuttosto come «lo sguardo sottile» con cui i fotografi sanno guardare e ricreare il mondo. Così ad esempio non hanno nulla di rassicurante le immagini di Lea Crespi, anch’ella francese e vincitrice del concorso Gd4 Photoart. Propone un lavoro di forte impatto riprendendo il proprio inquietante corpo esile e androgino in fabbriche in disuso, fra resti di macchinari e capannoni che crollano (un mix di Francesca Woodman e Botto&Bruno).  A volte lo sguardo «sottile» è uno sguardo che si interroga sugli statuti stessi della fotografia e l’incanto nasce dalla sperimentazione (vedere qualcosa in quel modo per prima volta), è il caso ad esempio delle immagini surrealiste di Man Ray o costruttiviste di Luigi Veronesi. Delle mille ricerche del primo («Nonostante i suoi aspetti meccanici la fotografia mi aveva sempre affascinato in quanto modo di dipingere con la luce e le sostanze chimiche» diceva) abbiamo una sorta di centrifuga a Palazzo Casotti. È un po’ tirata via e non gli rende giustizia: si va dai ritratti dei primi Anni 30 di De Chirico e della nouvelle vague surrealista a quelli Anni 50 dell’ultima moglie Juliet. Del maestro della fotografia astratta italiana abbiamo invece ai Chiostri di San Domenico una parte della collezione della gallerista torinese Liliana Dematteis, donata alla fototeca Panizzi di Reggio Emilia (qui bisognerebbe aprire una parentesi grande come una casa sul rammarico perché collezioni che potrebbero contribuire a dar vita a un grande museo della fotografia a Torino finiscano altrove). Questa aiuta davvero a capire come Veronesi fosse una sorta di pioniere, capace di portare in Italia il verbo dei vari Rodchenko, Man Ray, El Lissinsky. Ma esiste un incanto che ha a che fare con l’incantesimo, come quello buñueliano che sembra costringere a star fermi gli «abitanti» delle automobili di Stationary travellers di Francesco Jodice, una serie che vuole essere insieme indagine di nuovi paesaggi urbani e riflessione sulla mobilità «condivisa» (l’eccesso di politically correct viene per fortuna riscattato dalla forza delle immagini a grandi dimensioni). E altri incantesimi che hanno più a vedere con la magia (fuochi o fantasmi che si accendono in stanze barocche, bicchieri che sembrano volare) racconta Alessandra Spranzi in «Riti del caso imperfetto».  Mentre «Miracoli all’ordine del giorno» sono quelli ripresi tra Italia e Brasile da Alessia Bernardini, che ci regala ragazze in processione e stanze vuote, il tutto ispirato a una frase della poetessa polacca, Nobel per la letteratura, Wieslawa Szymborska: «Dovrei essere veloce a descrivere le nuvole. Già dopo una frazione di secondo non sono più quelle: stanno diventando altre». Questi versi, oltre a spiegarci metaforicamente come sia difficile il mestiere del fotografo, ci ricordano anche che la natura è sempre stata generatrice di «incanti». Lo dimostra, a Palazzo Magnani, «Immagini del settimo giorno», la personale di Michael Kenna, fotografo cinquantasettenne, inglese di nascita e americano d’adozione. Perfezionista della forma, Kenna spazia in un mondo in cui l’elemento umano è scomparso, quasi fossimo in un’era post-atomica o più drammaticamente dopo una tragedia come l’Olocausto. Le sue immagini più convincenti sono proprio quelle dei campi di sterminio di Auschwitz, le foto-tessera dei deportati, i resti dei contenitori del gas. Altrove vuol essere ora Turner (le brume di Venezia sono una sfida agli acquerelli del pittore), ora un nipotino di Fritz Lang (i bianchi e neri espressionisti che sembrano fare il verso a Metropolis), ora Mimmo Jodice (certe spiagge). Il viaggio nell’incanto ritrova la figura umana nelle immagini di Machiel Botman alla Sinagoga o nell’installazione «Saluta la dia» di Mark Borthwick, dove il fotografo di moda ha costruito stanze in cui c’è un po’ di tutto (da una chitarra a ortaggi veri) e alla pareti piccole foto da album di famiglia.

FONTE: Rocco Moliterni (lastampa.it)

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