giovedì 18 febbraio 2016

Pomodoro, i 90 anni dell'ultimo maestro del bronzo

Arnaldo Pomodoro, a Londra a 90 anni (e dopo 50)


L’artista italiano, che dal 10 febbraio torna in mostra a Londra dopo 50 anni, nella sede della galleria Tornabuoni Art, racconta della sua arte e del suo originale mix tra materiali pregiati e - letteralmente - avanzi. "Sedie, pezzi di ruote rotte: la mia argilla"


Sfere, archi, dischi, archi: trentacinque opere, tanto bronzo. Dopo cinquanta anni torna in mostra a Londra un artista italiano conosciuto in tutto il mondo: Arnaldo Pomodoro. La sua fama è proporzionale alla presenza delle sue opere nelle piazza di molte città, dentro e fuori i confini de nostro Paese, da Milano a Sorrento, passando per Torino, Copenaghen, Brisbane, Los Angeles, Dublino dove una sua opera è collocata di fronte al famoso Trinity College. Poi ci sono anche le sculture nei musei e nelle gallerie d’arte, dove torna in questi giorni. Pomodoro, nato quasi 90 anni fa (nel giugno 1926)  in un paese nel confine tra Marche, Emilia Romagna e Toscana, è  infatti, il protagonista di una grande personale che si tiene dal 10 febbraio al 16 aprile nella sede londinese di Tornabuoni Art, aperta ad ottobre 2015 da Ursula Casamonti, gallerista forte della sua esperienza acquisita lavorando al fianco di suo padre e suo fratello per oltre venti anni di gestione Tornabuoni Arte, galleria fondata a Firenze nel 1981 e che ha dato vita, nel tempo, a diversi spazi espositivi, tutti specializzati nell’arte italiana del dopoguerra.

La mostra, allestita sui due piani della galleria, inizia con la “Grande Tavola dei Segni”, opera del 1960, con cui Pomodoro esplora ciò che lui stesso descrive come "una lingua segreta”, citando l'influenza di Paul Klee. Questa prima opera, come la maggior parte delle sculture e dei bassorilievi esposti, è realizzata in bronzo. Ho chiesto all’artista di parlarci del suo lavoro, proprio a partire dal metallo che lo ha reso famoso.

Il materiale a cui è più legato il suo lavoro è indubbiamente il bronzo, come testimoniano anche la maggior parte delle opere in mostra nella galleria Tornabuoni di Londra.
Si, appena ho potuto ho usato il bronzo, che ho scelto perché è un materiale che risponde a ciò che desidero: lo posso patinare, lucidare e ha molte sfaccettature e ricchezza. Questo non mi ha fatto escludere comunque l’uso di altri materiali, che ho sperimentato, facendo ad esempio lavori di piombo molto grandi e anche di legno. Penso che tutti i materiali sono buoni per la scultura.

È cambiato il modo di lavorare manualmente il bronzo?
Il bronzo è un metallo bellissimo, come l’oro. Si camuffa anche da oro, è un può più grezzo ma fa ottenere superfici dello stesso effetto. Non è cambiato il modo di lavorarlo  ma oggi come oggi sono uno dei pochi rimasti a lavoraci ancora. Io mi avvicino alla vecchiaia, non resteranno in molti a lavorare con questo materiale, che è anche caro da morire, appunto come l’oro.

Quale è il suo metodo e quale la sua tecnica?
Il lavoro lo seguo sempre fino alla fine, senza preoccuparmi di farlo leggero o pesante, usando sempre quello che mi piace e che mi serve, e anche quello che trovo accidentalmente, qualche volta. Nei miei lavori troverà pezzi di ruote rotte, frammenti che trovo e pigio nella terra, riscattandoli e amalgamandoli tra loro. Ci sono anche pezzi di sedie, per esempio, o elementi trovati che, nel lavoro finito non si vedono: li pigio nella terra per poi fare una gettata con il gesso, al fine di creare un’impronta. Tutto quello che ho fatto l’ho creato inizialmente in “negativo”, quindi anche pensando in negativo. La cosa bellissima è che, molte volte, dopo aver gettato il materiale, nel momento di togliere tutto quello che è stato ormai coperto, ottengo lavori che stupiscono anche me. Si dice scultore dal “pollice felice” perché si usa il pollice, a me piace parlare di terra felice,  terra intesa proprio nel senso di argilla. Così come i materiali ci sono tecniche diverse: lavorare in negativo è stato il modo che più mi ha risolto le cose, il rilievo veniva da tutti gli elementi che io pigiavo. Così ho inserito nella terra tutto ciò che avevo intorno nella vita, come i ricordi, facendo una composizione di quello che trovavo: frammenti di elementi rigettati dal mare trovati sulla riva, altre volte cose buttate via, sempre poi composte con la mia fantasia in modo da ottenere i bassorilievi.

Alcuni suoi lavori hanno riferimenti alla cultura egiziana, a cominciare dalle forme piramidali; le sue opere collocate a Terni ricordano le sculture di fango a Djenné. Che rapporti ha con l’Africa?
Effettivamente le opere poi diventano un miscuglio dell’insieme, di tutto. Quando si viene influenzati da diverse culture e poi si cerca di mettere insieme i ricordi in materia personale, allora tutto diventa il mio segno,  quello pensato da me che è diverso da quello che pensa lei e chiunque altro. Più che con l’Africa il rapporto è con tutto ciò che accade nei Paesi sottosviluppati, dove esistono forme più primitive, nuove. Non solo l’unico che lavora nella scultura con i grandi bassorilievi che occupano lo spazio. Mark di Suvero, per esempio, è un altro artista che non ama molto il rilievo ma che crea anche lui grandi sculture. Lui ha usato spesso forme di piramidi, che ha persino messo insieme, con delle catene, facendole muovere con il vento, creando qualcosa di meraviglioso.

Prima dell’Africa c’è il Montefeltro, dove è nato lei e anche Piero della Francesca.
Non diciamola così. Ci è nato lui, io sono nato ai confini... Scherzo dicendo “Arnaldo Pomorodo da Moltefeltro”. La zona ha visto nascere i primi elementi sculturali, direi che il Rinascimento è nato lì; mi piace scherzare sull’essere originario di quelle parti che, sì, ci hanno effettivamente dato molto dal punto di vista artistico.

FONTE: Valentina Bernabei (repubblica.it)

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