mercoledì 26 novembre 2014

Miró, eterno ritorno all’infanzia

A Mantova una mostra racconta i grandi temi del catalano: dalla tecnica al nero, l’ordito psicologico del pittore che volle farsi poeta. Beffando un destino da contabile

Barcellona, 1910. Un giovane magro e dall’aria mite sfoglia un registro meticolosamente compilato. Numeri, calcoli, somme. Ma il giovane, da poco diciottenne, non vede le cifre: negli occhi ha un saltimbanco verde, un mare blu e un tramonto color arancia matura. Si chiama Joan Miró e vorrebbe fare l’artista. Per suo padre, però, non se ne parla: gli ha trovato un posto da contabile.

Presso una rinomata drogheria cittadina. La grazia dell’artista che in seguito impasterà sogni e colori ad olio nacque così: da una prova di triste ragioneria. Da allora però tutto avvenne come in un disegno demiurgico: una lunga depressione, il cedimento rassegnato della famiglia, gli studi d’arte, l’incontro con il maestro Francesc Galí, Parigi eccetera. L’ultimo approdo di questo cammino lambisce le rive del Po mantovano: a Palazzo Te, la mostra Mirò. L’impulso creativo (fino al 6 aprile 2015, info su www.miromantova.it) racconta alcuni importanti capitoli dell’opera del catalano nato nel 1893. «Come la grafica, il gesto, il nero, la semplicità: un racconto per temi» dice Elvira Cámara López, curatrice e direttore della Fundació Pilar i Joan Miró, dalla quale provengono le 53 opere in mostra.

La scelta di procedere per grandi terreni inesplorati e non con le solite opere più volte viste, rivitalizza il gusto della scoperta. Così alle Fruttiere di questo splendido palazzo dove i Gonzaga elevarono la cultura a istituzione, ogni tela o scultura o arazzo parla del continuo, inesausto sforzo di quel giovane ragioniere che volle essere artista. Si vada subito a quei terribili, violenti arabeschi neri su fondo bianco. «È come se forzasse il colore, con energia inusitata, un po’ come quando lavorava la ceramica, pareva distorcerla con violenza» dice Cámara López. Sui registri contabili aveva (forse) imparato a sdoppiarsi per non morire e così negli atelier parigini prima e in quelli catalani dopo, si consumava una commedia pirandelliana di una molteplice personalità. Da una parte c’era il Joan rigorosissimo, che si alzava sempre alla stessa ora, seguiva una routine da noia borghese, fedele alla sua Pilar Juncosa (tanto che più volte il casanova Picasso lo ha canzonato: «Ma è mai possibile che io ti veda sempre con la stessa donna?»). 

Sulla tela no. Sulla tela il nero si incendiava in sagome mostruose (c’è unSenza titolo non datato che pare un urlo di Munch in chiave surrealista); gli enormi occhi che aveva «rubato» ai Cristi Pantocratori della pittura romanica che amava trasfiguravano in incubi strepitanti. Qual era il Miró più autentico? Quello che scriveva «Lavoro come un giardiniere o come un vignaiolo.

FONTE: Roberta Scorranese (corriere.it)

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