mercoledì 27 ottobre 2010

Osvaldo Licini, l'angelo ribelle sulla via dell'astrazione

Alla Gam di Torino una retrospettiva ripercorre rabbie e visioni del cosmopolita pittore marchigiano


Telegramma inviato da Licini come nel vuoto, nel 1941 «Impossibile venire, sarò presente in sogno. Ti autorizzo a firmare per me». Ci si domanda come avrebbe reagito, il dolce-bizzoso pittore, magari filtrato in groppa a un Angelo Ribelle o al Cavaliere di Münchhausen (che s’acciuffa e si solleva per la sua parrucca) di fronte a questo coraggioso allestimento «come precario». Che lo ghiaccia in un bianco primario e nudo, un po’ desertico-eremitico, e va benissimo (le sue opere affiorano come sassi aguzzi nel Cocteau dell’Angelo Hurtebise, avvolti in una neve puritana e di grado zero, che cancella le pretenzioni degli «ismi» manualistici e le saccenterie della critica), ma anche un poco infermieral-chirurgico. A spiegare anche il radicale lavoro di bisturi del curatore Eccher, affiancato da un regale parterre di liciniani comprovati, da Zeno Birolli (che cura anche l’importante sacello documentale) a Caramel, da D’Amico a Riccardo Passoni, erede della mostra curata dal padre, alla Gam, nel decennale della morte del ’58. Via dunque la cavalcata cronologica, via il senso intimistico dell’esporre, protetto dai siparietti sapienti, vie le premesse storiche d’un pur interessante e creativo periodo figurativo («relegato» volutamente nel sancta sanctorum, conclusivo, dei documenti). Via soprattutto i dubbiosi momenti, le diteggiature nodali di passaggio epocale (anche se tutto per Licini era dubbio e ripensamento cartesiano - nel senso anche di ripresa continua delle sue opere più nevralgiche: perennemente aperte). 

Nella stanza centrale del primo piano della Gam, completamente sventrata e neon-snudata di luce zenitale, l’allestimento di Rino Simonetti ricorda l’opera-chiave di Beuys Fine del XX secolo: non sai se la mostra sia ancora in via di allestimento o già di smontaggio. Ma pur nell’esattezza calcolata e geometrica delle tele, che si rispondono guerrescamente, si respira comunque questo clima di precarietà aleatoria, sottolineata anche da quelle pareti mobili, che non sono pareti, ma retri di grandi tele, appoggiate in bilico, che fan molto atmosfera di studio: di atelier perenne. Come penetrando dentro la vita schiva dello stilita di Monte Vidon Corrado. E probabilmente Licini avrebbe protestato il termine stesso, quasi crociano, di «Capolavori», lui che scriveva, agli amici ancora inconosciuti della Galleria del Milione, ma «fratelli in spirito» dell’avventura astrattista: «E poi vi avviso, i miei capolavori sono ancora tutti da fare, ne tengo più d’uno in cantiere, ma non sono ancora pronti per scendere in mare». 
Accettiamo dunque quest’immagine del cantiere navale prima d’ogni varo ufficiale, quest’aria di provvisorietà consustanziale, e godiamoci quest’atmosfera libera, sfondata, in cui le tele possono espirare sfrontatamente il loro ossigeno d’alta quota mentale (talvolta hai davvero l’impressione che nella loro craquelure screpolata, queste superfici celesti, astrali, ansimino ancora e ridacchino, blasfeme, come poggioli scollacciati di Amalassunte postribolari, complice l’amato Baudelaire). 

O non era lui a dire, in rivalsa ai realisti engagés, che lo accusavano di decorativismo e di purismo evasivo: «A che cosa serve un quadro, se non a rallegrare una parete?». Certamente, ma sempre dalla parte di un’allegria di naufragio, di una «gaia» scienza, succhiata dal suo amato Nietzsche (ma qui si deduce, nelle casse d’imballaggio per i quadri, trasformate in vetrine preziose, quanto leggesse anche Giordano Bruno e il Feuerbach sul Cristianesimo, Kafka come Bacchelli, Marinetti insieme a Soffici, Mallarmé come Gordon Craig: il rivoluzionatore principe del teatro, il nullificatore, insieme ad Appia, degli orpelli, dei fantasmi di scena). E perfino un folle librino medico su «Un grande allucinato dell’udito: Martin Lutero»! Sì, a ben vedere, c’è qualcosa sempre di visionario e di luterano (sbattezzato) in lui, quasi alla soglia del totale azzeramento, dell’iconoclastia pura: via l’immagine! lasciamo solo, sulla lavagnetta del morboso piacere cerebrale, i segni mentali e diagrammati di un sogno che non è onirico, e non proviene dalle trippe bretoniane dell’inconscio («Il surrealismo a modo mio») ma dai capricci (d’un vegliardo, alla Barilli: Bruno, l’olandese volante, non Renato!) di una ragione immaginosa e ferocemente allucinata. «Dicono i preti che adesso io faccio della pittura cerebrale. Che cosa dovremmo fare, della pittura intestinale?». Eppure, in questa ascesa verso la via regia e senza remissione dell’astrazione più radicale (vicina soprattutto alla fantasia iningabbiabile di un Soldati o Magnelli, certo non ai rigori della squadretta dei geometri di Como, Rho e Radice) qualche resto fecale, sottotraccia, della sua vecchia pittura morandiana e leopardiana permane, invincibile, in apnea. 

FONTE: Marco Vallora (lastampa.it)

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