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mercoledì 19 agosto 2015

Le opere di Joseph Beuys al Todi Festival


Il 22 agosto l’inaugurazione dell’allestimento curato da Damiano Kounellis

Le opere dell’artista tedesco Joseph Beuys saranno esposte a Todi, in occasione del Todi Festival . Una sezione di arte contemporanea, curata da Damiano Kounellis, raccoglierà lavori di Beuys, un’installazione di Valentina Palazzari e fotografie di Claudio Abate. Il 22 agosto alle 12 l’inaugurazione nella Sala del Capitano. Il Todi Festival si conferma così terreno fertile per l’arte contemporanea. Fra i lavori esposti all’interno di `Pianeta Beuys´, ci sarà `Vestito Terremoto´, opera realizzata direttamente sull’abito del gallerista napoletano Lucio Amelio, che farà da cornice all’incontro in cui interverranno il critico Bruno Corà, direttore della Fondazione Burri e il professor Italo Tomassoni, artefice dell’incontro alla Rocca Paolina di Perugia nel 1980 fra Alberto Burri e Beuys.  

Saranno inoltre proiettate alcune delle sue celebri `azioni video´ e il film documentario `Diagramma terremoto´ per la regia di Mario Franco. Alcune storiche fotografie di Claudio Abate presenteranno il lavoro dell’artista tedesco coprendo gran parte della sua parabola creativa. L’artista Valentina Palazzari realizzerà, invece, una grande installazione dal titolo `Berlino: il muro dei muri´ a cura di Davide Sarchioni. L’installazione, in acciaio, sarà presentata nella piazza principale della città per celebrare il venticinquesimo anniversario dalla caduta del muro ma anche per denunciare come oggi siano ancora in piedi tanti muri, simboli tangibili di tensioni tra paesi ed etnie. 

Presso la Biblioteca comunale sarà inoltre possibile ammirare la mostra, patrocinata dal Goethe-Institut, `Il pirata e il farmacista´, (inaugurazione 24 agosto ore 11) una storia istruttiva di Robert Louis Stevenson, illustrata dall’artista berlinese Henning Wagenbreth. Da segnalare anche che la galleria `Bibo’s Place´ presenterà dal 22 agosto le opere di Bruno Ceccobelli, insieme a quelle di due giovani artiste Alice Schivardi e Ksenya Sorokina. Altra mostra che animerà la città sarà, dalla stessa data, quella dell’artista Isabella Angelantoni Geiger dal titolo `Dancing Flower´ che si terrà presso lo spazio espositivo `Unonellunico´.  

FONTE: lastampa.it

mercoledì 8 maggio 2013

A Foligno il genio di Julian Schnabel



E' dedicata al grande artista newyorkese la nuova mostra del Centro italiano di arte contemporanea di Foligno  in programma fino al 23 giugno. Quattordici i capolavori in mostra che esemplificano cronologicamente il lavoro compiuto tra il 1985 e il 2008 da un artista famoso, anche per la produzione cinematografica, quanto eccentrico

Se si parla di Julian Schnabel non si può non parlare di New York, perché lui è il prototipo dell'artista della Grande Mela. Nativo di Brooklyn, ha sempre vissuto con orgoglio dell'appartenenza a quella realtà. "Nessun luogo al mondo è stato caratterizzato in egual misura dall'energia e dal senso dell'opportunità", spiega da Palazzo Chupi, il posto in cui vive nella zona ovest di down town, e conclude "New York continua ad apparire vibrante e performativa". È' inscindibile la sua ricerca artistica con lo spirito della metropoli in cui vive: "Chi viene qui è pronto a ridefinire la propria identità, per celebrarla e diventare così newyorchese. La sensibilità nasce in questo terreno e nell'idea di libertà su cui è stata fondata la città".

La libertà è infatti uno dei concetti fondamentali della ormai storica ricerca artistica di Schnabel, che non si è mai arreso davanti a nessuna difficoltà realizzativa, ricorrendo persino alla dote camaleontica di passare da un linguaggio ad un altro senza timore alcuno: dalla pittura alla scultura, dalla fotografia alla regia cinematografica, e riuscendo sempre ad ottenere risultati di altissimo livello.

Ora una mostra affascinante racconta uno spaccato importante della vita artistica del fenomeno americano, il CIAC di Foligno, Centro Italiano di Arte Contemporanea, espone 14 grandi capolavori dell'artista in gran parte mai visti in Italia. Esponente di spicco di un neoespressionismo che risente delle influenze europee e anche della transavanguardia italiana, la più importante operazione artistica di Schnabel è stata la ripresa della pittura in assoluta indipendenza tecnica e contenutistica. La mostra è curata e presentata in catalogo da Italo Tomassoni e si propone come un'occasione per approfondire la conoscenza di questo grande artista e della pittura contemporanea americana.


I dipinti esposti, di grandi dimensioni, raccontano il lavoro dell'artista dal 1985, al 2008: otto opere appartengono al gallerista Gian Enzo Sperone, amico intimo di Schnabel, suo vicino di casa a New York. Gli altri sei lavori, appartengono a un collezionista milanese che ha accettato di prestare le sue opere per completare il percorso della mostra. Solo tre lavori erano già stati esposti in precedenza in Italia. Tra quelli per la prima volta presenti nel nostro paese, spicca il capolavoro JMB realizzata dopo il tragico suicidio dell'amico Basquiat, e messo in mostra una sola volta a Toronto. La rassegna aiuta a comprendere la poetica connaturata, anche se non sempre manifesta, nelle opere fortemente ispirate a Pollock e Twombly, artisti contemporanei a cui ha guardato prendendo in prestito tecnica e spirito, ma anche alla fiorente tradizione europea e mediterranea, ricordando artisti come El Greco o Goya di cui ha detto: "La modernità del giallo usato nelle scarpe della regina al museo di Capodimonte mi ha lasciato senza parole".

Numerosi sono i rimandi storici, ma anche musicali, rintracciabili nelle sue opere. Il poliedrico artista di origine ebraica, per creare le sue opere utilizza molti materiali, come il velluto, la tela cerata, pezzi di legno provenienti da tutto il mondo, fotografie e tappeti. Insomma qualsiasi elemento riesca ad innescare la sua creatività diventa parte del lavoro, conquistandone l'anima. È noto poi come regista cinematografico: ha infatti diretto Basquiat (1996), Prima che sia notte (2000, Gran Premio della Giuria alla 57ª Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia e Coppa Volpi per il miglior attore a Javier Bardem), Lo scafandro e la farfalla (2007, miglior regia al 60° Festival di Cannes e ai Golden Globes 2008), Berlin (2007) e Miral (2010).

Questa esposizione di Julian Schnabel è dunque un'occasione importante per apprezzare la potenza poetica e cromatica di questo grande comunicatore, sempre alla ricerca di nuovi stimoli e suggestioni da riportare nelle sue grandi opere, che hanno segnato in modo indelebile l'arte contemporanea internazionale degli ultimi cinquant'anni.

Notizie utili.

La mostra resterà aperta al CIAC di Foligno sino al prossimo 23 giugno: venerdì, sabato e domenica; dalle 10 alle 13 e dalle 15.30 alle 19. Ingresso gratuito.

FONTE: Valentino Tosoni (repubblica.it)












mercoledì 10 ottobre 2012

Nasce setup – art fair a bologna – fiera d’arte contemporanea indipendente- dal 25 al 27 gennaio 2013


Nasce a Bologna Setup Art Fair fiera d’arte contemporanea indipendente. La prima edizione si svolge nel capoluogo emiliano dal 25 al 27 gennaio 2013, in concomitanza ad ArteFiera 2013.
Ideata, organizzata e promossa da Simona Gavioli, Marco Aion Mangani e Alice Zannoni, Setup inserisce Bologna nel panorama internazionale delle città che da tempo ospitano, accanto alle proprie storiche fiere d’arte, manifestazioni analoghe incentrate sull’arte emergente. Non un evento off, ma una fiera parallela in linea con iniziative simili quali The Others (Torino), Just Mad (Madrid), Liste e Volta (Basilea), Frieze e Zoo (Londra), Slick (Bruxelles)Pulse (New York) e molte altre.
La scelta stessa del nome indica l’intenzione di proporre un arricchimento del sistema dell’arte tradizionale, sostenendo l’avvio di progetti espositivi e d’indagine realizzati da gallerie che vogliono rivolgere il proprio interesse all’arte emergente e che lanciano giovani talenti creativi.
La particolarità di Setup sta nel suo format innovativoOgni galleria dovrà proporre il lavoro di un giovane artista emergente, under 35, sul quale ha già rivolto l’attenzione, ma con cui non ha mai precedentemente collaborato, presentandolo insieme agli artisti in organico con il supporto critico di un giovane curatore.
Setup propone, dunque, di mettere in relazione le tre figure chiave del mondo dell’arte (artista, curatore-critico, gallerista) facendole collaborare anche in ambito fieristico, dove normalmente la sinergia è esclusa o non contemplata.
Il comitato scientifico, composto da Martina CavallarinValerio DehòViviana SivieroGiulietta Speranza, vaglierà le proposte delle gallerie, che potranno presentare il loro progetto a partire da settembre 2012 scaricando l’application-form dal sito www.setup-artfair.com.
A conclusione della rassegna, il comitato scientifico si trasformerà in giuria assegnando un premio al giovane artista emergente e uno alla galleria che l’ha proposto; la stessa si aggiudicherà uno spazio stand omaggio per la seconda edizione di Setup.
Setup avrà un’apertura serale, marginalmente alla chiusura di Arte Fiera. La location è ancora top secret.
Vernissage il 24 gennaio, con apertura al pubblico a partire dal 25 al 27 gennaio 2013.
Informazioni:
Simona Gavioli+39 339 3290120Marco Aion Mangani+39 392 6031331
Alice Zannoni+39 329 8142669
Pressoffice:Culturalia - Bologna, Vicolo Bolognetti 11
Tel. 051 6569105 fax 051 29 14955,
info@culturaliart.com  www.culturaliart.com

mercoledì 30 novembre 2011

Digitalife, il futuro del digitale a Romaeuropa tra reale e fantastico

E’ soprattutto una mostra sonora, prima ancora che visiva, la digitalife2 che Romaeuropa ha allestito all’ex Gil di Largo Ascianghi (davanti al cinema Sacher) e intitolato Il reale, il meraviglioso, il fantastico. Lo scorso anno ospitata dalla Pelanda, è da oggi nell’edificio morettiano sempre più spesso destinato ad usi, per così dire, contemporanei. 

La seconda edizione di digitalife, realizzata da Romaeuropa in collaborazione con Filas, presenta 13 opere (fino all’11 dicembre, dal martedì al venerdì dalle ore 16 alle ore 23, sabato e domenica dalle ore 12 alle ore 23). Vi verrà consegnato all’entrata un paio di occhiali per vedere in 3d l’opera del coreografo e danzatore giapponese Saburo Teshigawara: il Double District cui fa riferimento il titolo dell’opera, che riuscirete a vedere attraversando un corridoio quasi del tutto immerso nel buio, sono i due distretti visivi, il destro e il sinistro, che il cervello ricompone in un’immagine illusoria della realtà. Le due zone sono costituite da due danzatori, un uomo e una donna, che sembrano intersecarsi ma che invece restano distanti, come si capisce bene inforcando l’occhiale della verità. 

Al momento di iniziare il percorso, sarete dotati anche di un congegno elettronico da mettere al collo come un ciondolo, una sorta di chip assegnato a ciascuno spettatore, in comunicazione con un “satellitare” artistico che capta il movimento e lo specchia nell’istallazione nata dalla collaborazione tra Santasangre, il collettivo romano che unisce teatro, danza e arti visive, e Pool Factory, la cui attività è incentrata sull’animazione 3D. Insieme hanno dato vita al Progetto abLimen, una metafora biologica di cui tutti sono partecipi più o meno consapevolmente. La massa indistinta ma formata di individui è anche al centro dell’opera “statistica” del Cattid (il centro per le applicazioni della televisione e delle tecniche di istruzione a distanza de La Sapienza), The future mood, che cattura attraverso un censimento emotivo di chi transita all’ex Gil lo stato d’animo (il mood, per l’appunto) che sarà dominante negli italiani. 

Le faccine dei social network, che ti avvisano, prima che sia troppo tardi, dell’umore che hanno i tuoi “amici”, si trasformano qui nelle infruttescenze del tarassaco (vedi alla voce: soffione) di colori diversi a seconda del dato fornito dal visitatore: commosso, arrabbiato, affascinato, felice, ansioso o entusiasta. Sull’interazione con lo spettatore è basato anche il lavoro di BCAA, 3Dom, The Ge-Dhir Journey, che si avvale del processo di identificazione del motion capture, che trasforma in dati numerici il movimento dei visitatori dando vita a un’interazione creativa.

Le opere e la distanza tra l’una e l’altra invitano anche a fermarsi qualche istante per riflettere sulle proprie reazioni, come accade quando scendiamo le scale che portano al piano -1 dello spazio disegnato da Luigi Moretti nel 1933. C’è una porta bianca, consumata dall’umidità: è quella che Christian Marclay (Leone d’Oro alla 54esima Biennale Arte di Venezia con The Clock) ha messo tra noi e l’interno dell’80 East 11th Street: Marclay, artista visivo e musicista, ci fa piombare nell’angoscia di una litigata domestica violentissima alla quale, come condòmini in transito sul pianerottolo di casa, assistiamo nostro malgrado. Un uomo sta inveendo con forza contro una donna, lei grida, piange, il cane abbaia, il telefono continua a squillare e nessuno risponde. Da ascoltare con curiosità e una discreta dose di terrore, come qualsiasi talk show con pretese investigative che si rispetti.

Tra i lavori più interessanti l’orchestra elettronica di Felix Thorn, 24enne di Brighton, che crea sculture audiovisive. Una definizione restrittiva, perché tra gli strumenti inventati, quelli mixati e quelli modificati, il palcoscenico senza orchestrali di Thorn ha a disposizione una gamma di suoni incredibile, indotta – naturalmente – da una semplice campionatura su pc. Le Felix’s Machine hanno un aspetto barocco, eppure parlano al nostro tempo utilizzandone tutte le potenzialità. Esattamente il concetto che dovrebbe attraversare il nostro quotidiano: parlare al futuro senza dimenticare la genialità del passato.

Al passato guarda anche l’opera di Quayola, video artista romano adottato da Londra, che scompone in prismi i quadri di soggetto sacro di Rubens e Van Dyck conservati nel Palais des Beaux Arts di Lille, pronti per essere altro al termine di un processo di deframmentazione stratificato. Strata #4è il titolo del doppio schermo, cui fa da sfondo un suono di scatole cinesi che si mischia con quello dell’installazione posta nella stessa stanza, tanto che non distingui se il cinguettio viene dalla Deposizione o dalle immagini della Serendipity di Masbedo (i milanesi Niccolò Massazza e Jacopo Bedogni), dedicata alla calma sprigionata dalle scogliere di Beachy Head, dove i giovani inglesi vanno a giurarsi amore eterno ma dove si registra anche un alto numero di suicidi. Il paesaggio si trasforma in impulso emotivo e cerebrale nella scultura audiovisuale Rheo: 5 Horizons di Ryoichi Kurokawa, basato sulla fusione di riprese video di paesaggi in hd. 

Ancora: una foto dell’artista concettuale serba Marina Abramovic, che riassume il suo Biography Remix in un’immagine in cui mette il proprio corpo al centro del messaggio artistico; i box che luminosi dell’Aoyama Space del tedesco Carsten Nicolai, modelli spaziali – li definisce lui – per esibizioni di luce e suono; le Lezioni di Tiro di Devis Venturelli, vincitore nel 2011 del contest video art della Romaeuropa Webfactory; Daniele Spanò, che si occupa anche di allestimenti teatrali, è in mostra con Safety Distance (Distanza di sicurezza), un’opera sulla complessità dei rapporti umani che sintetizza il suo percorso artistico: creare un’architettura visiva liberando il video dal suo supporto originario, il display. Infine l’Afleur di Giuseppe La Spada, teoricamente una dissertazione sull’amore, anche se sui tre schermi seguiamo, sola, una figura femminile senza abiti immersa in acqua e fiori, un’Ofelia contemporanea testimone di fughe del terzo tipo.

FONTE: Paola Polidoro (ilmessaggero.it)

venerdì 29 luglio 2011

Tony Cragg, l'"impossibile" Grande mostra a Edimburgo


La Scottish Gallery of Modern Art celebra uno dei massimi scultori viventi. La prima grande antologica dopo oltre dieci anni, ripercorre la carriera del maestro


Organiche, biologiche, mutanti, quasi degli "X-Men" dell'arte. Lo spettacolo delle sculture "impossibili" di Tony Cragg, uno dei massimi scultori contemporanei viventi, va in scena alla Scottisch National Gallery of Modern art dal 30 luglio al 6 novembre. Ed è tutto da godere, in questa prima rassegna che un museo pubblico della sua terra gli dedica dopo oltre dieci anni. Protagoniste, sono cinquanta sculture gigantesche, abbinate ad un repertorio di disegni, che ripercorrono gli ultimi trent'anni anni di creatività, offrendo l'opportunità di scoprire proprio i lavori più recenti di un maestro che ha fatto della scultura un gioco delle meraviglie che sembra sfidare i virtuosismi della natura. 


Nato a Liverpool nel 1949, Cragg ha cominciato la sua carriera in modo insolito, come assistente di laboratorio, seguendo una serie di sperimentazioni sulle potenzialità dei materiali legati alla gomma. Studiava in parallelo arte (dalla metà degli anni '70 si è formato tra il Wimbledon College of Art e il Royal College of Art di London), e come ama ricordare, cominciò ad usare il disegno per capire meglio gli esperimenti, fino a quando i disegni non hanno preso il sopravvento e sono diventati una sfida più significativa degli esperimenti stessi in laboratorio. Ed è da questa propensione ad un'estetica visionariache Tony Cragg è diventato il demiurgo delle creature dalle forme più improbabili, quasi a emulare le potenzialità di quella "gomma" tanto manipolata in laboratorio, come evidenziano ora le sale espositive del museo e soprattutto i giardini. 

Quella di Cragg è una grande antologica che dà la percezione piena della grandiosità di questo genio della materia. Che sa assemblare  tasselli di materiali plastici di scarto per costruire sagome gigantesche di corridori, come il suo "Runner" del 1985. Che sa "manipolare" materiali come il ferro, il bronzo, la cera, la pietra colorata e legno cristallizzato, tutti materiali che infondono un'idea di apparente leggerezza per creare corpi che crescono a gemmazione continua, quasi ininterrotta (sculture che Cragg realizza a mano reclutando una squadra di assistenti per portarli a compimento). Che plasma sculture indefinibili che si afflosciano a terra dopo aver compiuto attorcigliamenti pindarici e convulsi. Sono opere plasmate nei più diversi materiali per sfoggiarne sempre una inaspettata malleabilità, che Tony Cragg elabora negli anni secondo serie tematiche che evolvono come vere e proprie creature viventi, tra le "Early Forms" (iniziate alla fine degli anni '80) e le "Rational Beings" in parallelo, caratterizzate da un'idea "genetica" di alte colonne dai contorni levigati come possibili profili umani che lo spettatore può cogliere girando intorno all'opera. Totem di legno cristallizzato dalla foggia precaria, obliqua, sbilenca, dai contorni molli. Passare in rassegna le opere di Cragg significa compiere un viaggio speleologico tra piramidi proteiformi che sembrano nate da sedimenti calcarei, e frammenti di roccia levigata dal vento ed erosa dall'acqua, quasi figlia del Grand Canyon. Opere, insomma, curiose, insolite, divertenti, ma anche sensuali e poetiche, in bilico tra vitalità estrema e forme paradossali, che sanno attrarre e incuriosire ogni spettatore in un dialogo diretto. Ma non finisce qui. Cinque ciclopiche sculture di Tony Cragg emergono d'improvviso nel giardino del museo. Ed è un tutt'uno con la natura.Notizie utili - "Tony Cragg. Sculptures and Drawings", dal 30 luglio al 6 novembre 2011, Scottisch national Gallery of Modern Art (sezione della Nation Gallery), Belford Road, EdimburgoOrari: tutti i giorni, 10-17.


FONTE: Laura Larcan (repubblica.it)

lunedì 11 luglio 2011

Al Mart capolavori italiani uno sguardo sul Novecento


A Rovereto in mostra opere raccolte dal collezionista tedesco Feierabend. Da De Chirico a Mondino, una storia dell'arte sconosciuta. Ne parliamo con la direttrice del museo e curatrice Gabriella Belli.

Al Mart di Rovereto una grande mostra svela capolavori dell'arte italiana del Novecento. A raccoglierli in una trentennale carriera di ricerca e scouting è stato il tedesco Volker W. Feierabend, che dai maestri del secondo dopoguerra ha setacciato le nuove generazioni di creativi fino ad oggi. La rassegna, "Percorsi riscoperti dell'arte italiana nella VAF-Stiftung 1947-2010", sarà visitabile fino al 30 ottobre. Ce ne parla la curatrice e direttrice del museo Gabriella Belli.

Qual è il bello di questa collezione?
"Mi verrebbe da dire che il bello deve ancora arrivare, perché Feierabend non ha nessuna intenzione di fermarsi. A parte le battute, il punto cruciale è l'estensione e la metodicità del lavoro di Feierabend, che negli anni ha raccolto una quantità enorme di opere. Tra queste ci sono alcuni capolavori dell'arte italiana che sono diventati vere icone delle nostre collezioni, e che sono opere fondamentali per la storia dell'arte italiana. Si parte dalle avanguardie storiche (Futurismo, Metafisica, Novecento italiano, Astrazione e Corrente), per poi passare attraverso le ricerche del secondo dopoguerra e, successivamente, agli anni Sessanta e Ottanta (arte informale, arte povera, arte cinetica e programmata, pittura analitica), fino ad includere alcuni avori rappresentativi dello scenario artistico nazionale degli ultimi anni. Basti citare opere come "La matinée angoissante" di Giorgio de Chirico, "Le figlie di Loth" di Carlo Carrà, i "Numeri innamorati" di Giacomo Balla o "Beethoven" di Felice Casorati".

Secondo lei, cosa ha "stregato" Feierabend dell'arte italiana?"Se è per quello, Feierabend usa per sé stesso parole ancora più forti, sostiene di essere un "invasato" dell'arte italiana. In ogni caso, si tratta di vero amore, e le passioni dei collezionisti sono irriducibili alle spiegazioni. Però una cosa si può dire: Feierabend ha sposato un'italiana, e dagli anni Settanta vive tra Milano e Francoforte. Nel suo processo di formazione di un gusto collezionistico, si è trovato in una situazione particolare: ha verificato come in Germania la conoscenza dell'arte italiana del ventesimo secolo fosse piuttosto scarsa. Gli è parso quindi naturale indirizzare i propri sforzi per far conoscere l'arte del paese che ama nei musei del paese in cui è nato e opera con successo come imprenditore".La prima parte della mostra, vuole riscoprire artisti tra gli anni '50 e '80..."Il fatto è che in Italia, negli anni Trenta e Quaranta, si è sviluppata un'importante corrente legata all'astrazione - si pensi a Licini, a Magnelli, a Radice - che qui al Mart da anni esponiamo con grande convinzione, perché pensiamo che sia uno degli snodi importanti della nostra storia artistica del secolo passato. Gli artisti selezionati in "Percorsi riscoperti" dimostrano una cosa molto importante, e cioè che la via dell'astrazione ha avuto una diretta influenza nel secondo dopoguerra. O per prosecuzione ideale, com'è il caso del razionalismo concreto e del costruttivismo, o per reazione, come per Emilio Vedova, i cui gesti fluidi e informali possono essere visti appunto come una liberazione dal rigore dell'astrazione". Perché secondo lei la critica "dimentica"?"E' il sistema dell'arte nel suo complesso, di cui i critici sono un elemento determinante ma non onnipotente, che dimentica, riscopre, rivaluta incessantemente. E' una dinamica inevitabile e fisiologica, specialmente quando è passato poco tempo. Cinquant'anni sono pochi nelle dinamiche della storia dell'arte. In tempi più lunghi questo ritmo di omissioni e riscoperte si assesta e dà luogo a giudizi più ponderati e acquisiti". Passiamo alla seconda parte della mostra, ai giovani: ci può sintetizzare il gusto di Feierband verso la nuova arte italiana?"Già nel 2005, quando presentammo una prima selezione di opere dal titolo "Arte italiana dalla Fondazione VAF", Feierabend sosteneva che il collezionista deve impegnarsi a "conoscere non solo gli artisti storicizzati o apprezzati dal grande pubblico. La scelta di inserire un giovane in collezione, per la VAF-Stiftung, è un processo meditato e collegiale. Esiste un comitato scientifico che vaglia attentamente le possibilità, e decide in base a criteri scientifici di alto profilo. Feierabend è convinto, e io con lui, che tra i nomi presenti in queste rassegne potranno esserci in futuro delle conferme importanti".Cosa ci fa scoprire questa parte di collezione?"Che la giovane arte italiana è molto meno omogenea e appiattita di quanto a volte si tenda a credere. Che tutte le correnti artistiche fiorite nel corso del novecento hanno dato frutto, e continuano a influenzare e ispirare la ricerca contemporanea. Se visitate la sezione finale della nostra mostra troverete certo temi di attualità e tecniche innovative, ma vedrete anche molti echi del passato. Addirittura, chi osserva con attenzione, potrà verificare come molti artisti giovani hanno chiaramente amato e interiorizzato la lezione di artisti che il Mart espone proprio al piano di sopra: Campigli, Sironi, de Chirico, Merz, Pistoletto". Com'è cambiata allora l'arte italiana?"Nella continuità". Cos'è il concettualismo ironico con cui chiude la mostra?"L'ironia implica sempre un distacco, rivolto prima di tutto contro se stessi. Mentre il concettualismo presuppone una fortissima adesione alla propria idea di arte, talmente radicale da far passare in secondo piano la realizzazione effettiva di un oggetto fisico. "Concettualismo ironico" è quindi un ossimoro, che trovo perfetto per tentare di definire opere come quelle di Aldo Mondino (fine anni Ottanta) o quelle recenti di artisti come Antonio Riello e Corrado Bonomi. In comune hanno il fatto di aver accolto il linguaggio dell'arte concettuale, spogliandolo però di serietà e ideologie, perché nel frattempo sono passati attraverso la leggerezza del postmoderno".Notizie utili - "Percorsi riscoperti dell'arte italiana nella VAF-Stiftung 1947-2010", dal 3 luglio al 30 ottobre 2011, Mart: Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto, corso Bettini 43 Rovereto (TN). Orari: mar-dom 10.00-18.00 ven 10.00-21.00. Ingresso: intero €11, ridotto €7 gratuito fino ai 14 anniInformazioni: 800 397760, www.mart.trento.it 2.

FONTE: Laura Larcan (repubblica.it)

lunedì 23 maggio 2011

Rivoli si riconnette e sbarca a Mosca

Maiolino, Macuga, Benassi: oggi il nuovo allestimento del museo mentre in Russia approdano le collezioni d’arte povera

Fermati, ripara, prepara: variazioni all'Inno alla Gioia per un pianoforte modificato. Questo è il lungo titolo dell'installazione/performance della coppia Jennifer Allora e Guillermo Calzadilla che rappresenta il pezzo forte della nuova fase dell’allestimento della collezione del Castello di Rivoli. Si tratta di un incredibile e assurdo pianoforte a coda con un buco nella sua pancia dove è incastrato un pianista in piedi che suona la tastiera al contrario. La musica è quella del finale della Nona di Beethoven, inno alla fraternità universale utilizzato in tutte le salse e nei più diversi e contraddittori contesti ideologici, e che è diventato l’inno dell'Unione Europea. Due pianisti che si danno il cambio lo eseguono senza sosta. 

La performance provocatoriamente dadaista è sconcertante e decisamente spiazzante, perché da un lato la sequenza di suoni risulta incompleta (dato che mancano le corde di due ottave dello strumento) e dall’altro il piano su rotelle vaga per la sala spinto dall’esecutore. Questa operazione ad alto potenziale metaforico, che si collega alla gloriosa serie dei pianoforti modificati da artisti d’avanguardia come John Cage e vari esponenti di Fluxus, è un esempio significativo del modo di lavorare di Allora e Calzadilla. 

Il duo, attraverso le più svariate modalità operative (sculture, oggetti, video, foto e performance) affronta in modo anche ludico e spettacolare, ma sempre con un forte tensione critica, le problematiche più complesse e drammatiche dell'attuale società globalizzata. Sono tra gli artisti internazionali che meglio rappresentano quella che oggi è la tendenza di ricerca più vitale e impegnata nell'arte contemporanea: non a caso la loro mostra nel padiglione degli Stati Uniti è forse l’evento più atteso della prossima Biennale di Venezia. 

Qui al Castello Rivoli il loro lavoro che si espande sonoramente anche nelle altre sale, ha un valore emblematico dello spirito con cui Beatrice Merz, condirettore del museo, ha impostato la seconda puntata di «Tutto è connesso». È questo il nome del progetto in progress attraverso cui si sta sviluppando la nuova messa in scena della collezione del museo: insieme a una rinnovata presentazione di installazioni e opere di artisti ormai classici che formano l’anima «storica» del luogo propone lavori di artisti più giovani (anche italiani come Favaretto, Bartolini, Airò, Migliora). «Tutto è connesso 2» è incentrata su opere che hanno una più marcata connotazione politico-sociale.

Oltre a Allora e Calzadilla, sempre in sale personali troviamo altri quattro artisti. Elisabetta Benassi lavora sulla trasmissione di informazioni e documenti visivi prelevati da giornali e archivi del passato, e sulla loro rielaborazione intenzionalmente spiazzante e contraddittoria: ci accoglie con una serie di mimetici acquerelli che illustrano notizie stampa. Ha realizzato anche un grande tappeto su cui è tessuto con molta precisione un (ipotetico) vecchio telegramma delle Western Union inviato dall’architetto e filosofo Buckminster Fuller allo scultore Noguchi in cui viene spiegata la teoria della relatività. Un bel cortocircuito spazio temporale. 

Goshka Macuga già presente nel museo con un grande tavolo per riunioni sotto l’egida di Guernica (utilizzabile anche dal pubblico), rende omaggio al situazionista Pinot Gallizio rifacendo alcune sue ceramiche distrutte. La ceca Katerina Seda, con un’installazione di elementi metallici minimalisti-concettuali ricostruisce a pavimento la situazione di disagio sociale della sua cittadina stravolta dall’insediamento di una fabbrica della Hyundai.

E infine ecco l’italo-brasiliana Anna Maria Maiolino che ha riempito una stanza con centinaia di uova fresche che il pubblico è invitato ad attraversare possibilmente senza fare disastri. La metafora è chiara: è una situazione in cui si può percepire direttamente la precarietà e la fragilità della vita, a tutti i livelli. Il percorso espositivo del museo si carica così di energie estremamente attuali, attraverso opere d'arte che funzionano come dispositivi estetici con l’intento di aprire nuove prospettive di visione del mondo. 

E bisogna parlare ancora di un’altra importante iniziativa che intende rilanciare a livello internazionale l’immagine del museo (che rischiava di diventare un po’ troppo ingessata). Si tratta dell’esportazione di una bella rassegna di opere dell’Arte Povera, la maggior parte degli anni 60/70, che il 25 maggio si inaugurerà a Mosca al Mamm (Multimedia Art Museum Moscow). Sono una trentina di lavori di proprietà del Castello di Rivoli o in comodato (della Fondazione Crt per l’arte contemporanea) che rappresentano degnamente l’Italia nell’ambito di un programma ufficiale di scambio culturale fra i due paesi. È la prima mostra importante di questo gruppo in Russia. Gli artisti in mostra sono Anselmo, Boetti, Calzolari, Fabro, Kounellis, Mario e Marisa Merz, Paolini, Penone, Pistoletto, Zorio. 

FONTE: Francesco Poli (lastampa.it)

venerdì 20 maggio 2011

Eroi dell'arte contemporanea. La passerella a Torino

Nella Galleria d'arte moderna, una "parata" di artisti forti, impegnati, solitari e coraggiosi, che sognano di diventare portatori di valori sociali. Da Boltanski a Kiefer, Merz e Bourgeois


Anche l'arte contemporanea ha la sua "Resistenza". Fatta di artisti "partigiani" che scelgono gesti coraggiosi, interventi estremi, lavori impegnati, tutto col sogno intimo, a tratti visionario e utopistico, di trasformare l'opera in messaggio sociale, con un suo valore etico capace di evocare alternative possibili ad un vivere acre e tragico. Un'arte fatta di eroismi individuali, è quella che vuole raccontare la mostra "Eroi" che sotto la cura di Danilo Eccher si apre alla Galleria d'arte moderna e contemporanea dal 19 maggio al 9 ottobre. Una collettiva di personalità suggestive e dirompenti, da Christian Boltanski ad Anselm Kiefer, Mario Merz, Francesco Vezzoli, Jenny Saville, Louise Bourgeois, che fa leva sul Dna della grandiosità  e della magniloquenza dei lavori (una quarantina), in alcuni casi realizzati appositamente per l'evento. 

Per dirla con Danilo Eccher, "Questa mostra non vuole svolgere un'analisi sulla tematica dell'eroismo nell'arte contemporanea, non vuole declinare la complessità di un argomento in un coerente percorso di opere, è invece, più cinicamente, una parata di eroi; non è la ricerca di una comunità filosofica ma l'incrocio di personalità forti, di linguaggi autonomi, di caratteri distinti, è una sottile vicinanza di solitudini poiché unico ed egoista è il percorso dell'artista verso il mondo. E' soprattutto  -  insiste Eccher - l'insieme di alcune voci soliste che improvvisano una sorprendente coralità dalla quale emerge la domanda sull'attualità dell'eroe". Ad aprire la "parata" di eroi è la possente e austera scultura in acciaio di Thomas Schutte "Grosse Geister Nr.6", del 1997, all'ingresso della galleria, di una teatralità enigmatica e improbabile, pervasa di un'umanità che fa i conti con la propria debolezza. 

Si incontrano, quindi la poesia cosmica dell'impalpabile "Autoritratto di stelle" di Michelangelo Pistoletto, del 1973, e l'inquietante gabbia di teste di "Cell XX" di Louise Burgeois. Conturbanti le astrazioni liriche, gestuali, materiche e primitive di Sean Scully, presente con "Wall of light Zacatecas" e "Doric", così come quelle più liquide, vorticose, caotiche eppur eteree ed esotiche di Cy Twombly, in "Roma" del 1962. Imponente ed inquieto appare "Humbaba" di Anselm Kiefer, del 2009, ispirato al guardiano della foresta di cedri nell'antica mitologia numerica, creatura/fantasma che incombe sulla grande tela materica attraverso tracce di uno spirito in polvere. Liturgica, d'una sacralità feroce e "patetica" appare l'installazione di Hermann Nitsch che oscilla, come osserva Eccher, fra impulsi dionisiaci e ritualità cattoliche. Per poi lasciarsi sedurre dal coraggio pittorico, spietato e disincantato, di Jenny Saville nell'opera "Passage" del 2004-2005, che immortala la sessualità sospesa e irrisolta di una trans. 

E ancora più eroica è la fisicità performativa di Marina Abramovic nel video "the Hero" del 2001, dove l'artista esibisce se stessa nella sopportazione strema di ogni limite. Nello spazio undergroung project, incombono le lacrime e il sangue di un muro che cola sul pavimento, nell'installazione spettrale di Latifa Echakhch, e la morbosa casa-memorabilia immersa nel buio di Ilya ed Emilia Kabakov. Spietato è "Self-portrait" di Pawel Althamer, del 1993, che punta a raccontare il corpo più che l'artista, costruendo una figura di grasso, cera, materiali organici, capelli. Misticamente gioioso, al contrario, è "Autoritratto con Juventus e Torino" di Francesco Clemente, del 2010. 

Drammatico, il gioco sulla spiaggia di Tel Aviv che evoca il video di Sigalit Landau, "Barbed Huha" del 2000, con una donna che fa l'hula hoop con un cerchio di filo spinato. Con "Containers" del 2010 e "Children" del 2011, Christian Boltanski tesse una nostalgica parabola di eroi umili, vecchi e bambini, mentre Francesco Vezzoli rende omaggio a Maria Callas nella sua "Maria Callas played La Traviata 63 times", dove il volto di Maria Callas appare sessantatre volte incorniciato in un piccolo cerchio e sul quale compare un delicato, dolcissimo ricamo per delle brillanti lacrime. Ma eroico epilogo può essere anche l'appello ad un ritorno alla pittura vera e genuina di Georg Baselitz col gusto sapiente del colore steso sulla tela ad inseguire un immaginario figurativo, o la sequenza dei numeri di Fibonacci nella spirale di Mario Merz, nel tentativo estremo di indagare le dinamiche della natura.

Notizie utili  -  "Eroi", dal 19 maggio al 9 ottobre 2011, Gam  -  Galleria d'Arte moderna e contemporanea, via Magenta 31, Torino.
Orario: martedì - domenica 10-18, chiuso lunedì. 
Ingressi: € 7.50 ridotto € 6.00, gratuito ragazzi fino ai 18 anni 
Informazioni: tel. 011 4429518.
Catalogo: Allemandi. 

FONTE: Laura Larcan (repubblica.it)

venerdì 25 marzo 2011

Tony Oursler, così il video si fa mostro

Al Pac di Milano la prima personale italiana dell’inventore delle «Teste parlanti»

La mano sta forsennatamente raschiando cinque gratta-e-vinci. Luciferini e colorati i biglietti della fortuna giganti sembrano feticci vuoti di una società da casinò tascabile. Sulla parete, l’Abramo Lincoln del biglietto da cinque dollari, vi guarda serio, ma impercettibilmente muove il labbro superiore per dirvi qualcosa che non capite. Il mondo degli oggetti inanimati, dei simboli e dell’energia economica vi guarda, vi parla, delira. Si attraversa, con sottile disagio, un parco divertimenti rovesciato, ridondante di luce e movimento. È l’universo di Tony Oursler (New York, 1957), in cui ci si può perdere al Pac di Milano, grazie a «Open Obscura», l’ampia retrospettiva (la prima personale in un museo italiano) curata da Gianni Mercurio e Demetrio Paparoni. 

Le sculture immateriali, fatte di proiezioni e suoni, hanno una vita surrogata e inquietante, interagiscono con il visitatore obbligandolo a fermarsi sulle proprie difformità, sui propri limiti e credenze. Facce allungate, tirate, schiacciate, cumuli di materiali umani, pelle, occhi, espressioni, caricature, parlano senza sentire e guardano senza vedere. Sono robot inutili, cassandre spezzettate, elogio alla follia. 

Tony Oursler si è formato alla CalArts di Valencia, California, la scuola fondata da Walt Disney nel 1960 sul sogno wagneriano dell’arte totale. John Baldessari e Allan Kaprow hanno insegnato lì, dove poi sono nati i mostri di Oursler ma anche i pupazzi stolti e informi di Mike Kelley e Paul McCarthy. Da lì è scaturito quell’immaginario punk-rock pieno di oggetti confusi, ridicoli, grondanti di sangue e ketchup. Una sorta di succursale colta di Hollywood, dove si fabbricano incubi individuali anziché sogni collettivi. «I giochi e i film - spiega l’artista - replicano solo una delle modalità di connetterci al nostro universo di suoni e visioni. Io sto cercando altri modi per connettere i campi della comunicazione, creando una struttura complessa, fatta di livelli di immagini, suoni, linguaggi e forme. Vivo in un mondo caleidoscopico di vecchie e nuove tecnologie e mi trovo bene». 

Grosse sigarette tridimensionali si consumano come la vita, mentre ci avviamo verso la monumentale installazione intitolata Lock (2/4/6). L’attraversamento di questo campo di battaglia è come la traduzione fisica de Il pasto nudo di William Burroughs, autore amato e divorato dall’artista. «Hai idea di dove siamo?» mormora una gigantesca testa ricoperta di un materiale verde gelatinoso che gronda e rende soffocante la vista. Un orologio, una lattina di coca-cola, un telecomando gigante, una grossa lampada, scintille, accelerazione, radiografie, muri in costruzione. Sono proiezioni su sagome di legno, come quelle dei set western, che in prospettiva formano una specie di discarica del sentimento, un inferno pieno di fiori e pericoli, un costante e allucinatorio inciampo nel quotidiano. 

Nel 1977, Oursler ha fondato un gruppo rock con Mike Kelley e John Miller, i Poetics con l’intento di «creare un guasto nella cultura estetica». Focalizzandosi sull’anomalo, l’informe, la psichedelia, la sgradevolezza di mozziconi umani e zone residuali, tra visioni e suoni ostici, gli artisti hanno centrato il loro obiettivo. Le implicazioni musicali di Oursler sono continuate con David Bowie e i Sonic Youth. 

Per Oursler ogni campo dello scibile è un pasto da consumare velocemente. La malattia mentale è per lui uno dei principali oggetti d'indagine. Dal 1992, lavora sul DPM, Disturbo della Personalità Multipla, con persone che ne sono affette. «Judy (1994) è una complessa installazione in cui la scissione della personalità di un soggetto schizofrenico è materialmente rappresentata da quattro diverse figure», scrive Paparoni in catalogo. Oltre all'io profondo di Judy, tre altri pupazzi, Horror, Boss, Fuck you, incarnano la sua scissione. Quando, negli Anni Ottanta, Oursler cercava gente che avesse racconti di prima mano sugli Ufo, ricevendola a pagamento nello studio, ha incontrato malati psichici con momenti di altissima lucidità. Uno di loro ha continuato a tormentarlo con centinaia di telefonate. Nel suo studio-set, dove ingloba i volti in teli ritagliati per riprenderne l’ovale, è passata ogni tipologia umana, oggi prevalentemente attori. 

Si potrebbe dire che una parte rilevante del suo lavoro è esso stesso affetto da schizofrenia. È spinto in una ricerca che si espande tra suono, letteratura, cinema, parola, con una molteplicità di soggetti pullulanti, di Joker dalle labbra scure. C’è un po' di Bruce Nauman, c’è Warhol in una sottile ombra a forma di fiore e ci sono i colori di Matisse che compaiono all’improvviso consolatori. È tutto in movimento, le immagini sono nervose o dolorosamente calme, i volti senza corpo. Alcune installazioni sono piccolissime, stanno nel palmo di una mano. Nell’universo di Oursler ci ritroviamo tutti come in uno specchio rotto fatto di una società interamente schizofrenica. Siamo i bulbi oculari appesi al buio come pianeti sani di una costellazione, ma siamo anche esseri mostruosi, pazzi, desideranti. Siamo temporaneamente forme o liquidi o gas, a seconda della condizione mentale che ci attraversa.

FONTE: Manuela Gandini (lastampa.it)

venerdì 19 novembre 2010

Il '900 italiano sposa il Kalevala

L'Ateneum ospita la collezione Pieraccini


Detta così, la formula «Italian Mestareita 1900-luvulta», può suonare anche misteriosa, se non minacciosa. Ma appena entri nelle sontuose sale dell'Ateneum di Helsinki l'aria d'Italia, dell'arte d'Italia, ti trascina di elegante sala in sala, con l'ansia di scoprire tanta ricchezza, e di capire da chi proviene questa coerente polifonia di voci. T'imbatti subito nei timpani di Burri e di Afro, le trombe di Soffici e il saxofono roco di Ferroni, riconosci il corno ironico di Gentilini, il contrabbasso etrusco, sopito, di Campigli, le strappate dodecafoniche di Capogrossi o gli arpeggi sommessi di Morandi.

Anche nella regale presentazione ufficiale della mostra, tra ambasciatori, ministri, curatori, in questa lingua geroglifica, in cui ti adagi senza decifrare nulla, senti solo affiorare, con deferenza, e citati percussivamente, i nomi riveriti dell'Italia e dei nostri artisti più illustri, talvolta declinati, da Carràn a de Chiricon, da Manzù a Capogrossi a Severini, e poi continuamente lampeggia il nome di Rolando Pieraccini e di sua moglie Siv, finlandese. Ecco svelato l'arcano: sono loro i munifici donatori di questo tesoro d'arte moderna italiana, 724 pezzi di 42 artisti sceltissimi, che vanno ad arricchire le collezioni del più autorevole museo di Helsinki. Che oltre ai maestri di rito dell'avanguardia storica ci fa conoscere pure l'epico, tonitruante, geniale Gallen-Kallela, cantore del Kalevala, il visionario simbolista Hugo Simberg, il virtuoso salottiero Albert Edelfelt. Ma i nostri grandi si fondono qui con grande naturalezza: la naturalezza dell'esperanto artistico, che non conosce barriera.

Nato a Pesaro, studi a Urbino, Pieraccini è entrato presto a contatto con la scuola grafica di Urbino, come a dire Castellani, Battistoni e Bruscaglia e dunque la «malattia della carta» lo ha colpito assai presto (prevalentemente con grafiche e disegni, oltre che con la collezione di lettere di Rossini, Baudelaire, Proust, Fitzgerald). Creatore d'una raffinatissima collana di volumi in edizione limitata di 350 copie tutte firmate e datate dagli autori (da Ionesco a Graham Greene, da Roth a Mailer a Sciascia) ha seguitato a raccogliere opere d'arte, conoscendo tutti gli imprescindibili maestri, di cui mostra rari strappi d'epistolario. E una predilezione anche per i piccoli grandi maestri, dalla Galli a Manaresi, meglio se di vena visionaria, come Viviani, Diamantini, Enzo Bellini o Morena. Ottima presenza torinese, con rari fogli acrobatici di Casorati, i colori marini di Paulucci, le penombre crepuscolari di Calandri.

MAESTRI ITALIANI DEL '900
HELSINKI. ATENEUM.
FINO AL 16 GENNAIO

FONTE: Marco Vallora (lastampa.it)

mercoledì 27 ottobre 2010

Osvaldo Licini, l'angelo ribelle sulla via dell'astrazione

Alla Gam di Torino una retrospettiva ripercorre rabbie e visioni del cosmopolita pittore marchigiano


Telegramma inviato da Licini come nel vuoto, nel 1941 «Impossibile venire, sarò presente in sogno. Ti autorizzo a firmare per me». Ci si domanda come avrebbe reagito, il dolce-bizzoso pittore, magari filtrato in groppa a un Angelo Ribelle o al Cavaliere di Münchhausen (che s’acciuffa e si solleva per la sua parrucca) di fronte a questo coraggioso allestimento «come precario». Che lo ghiaccia in un bianco primario e nudo, un po’ desertico-eremitico, e va benissimo (le sue opere affiorano come sassi aguzzi nel Cocteau dell’Angelo Hurtebise, avvolti in una neve puritana e di grado zero, che cancella le pretenzioni degli «ismi» manualistici e le saccenterie della critica), ma anche un poco infermieral-chirurgico. A spiegare anche il radicale lavoro di bisturi del curatore Eccher, affiancato da un regale parterre di liciniani comprovati, da Zeno Birolli (che cura anche l’importante sacello documentale) a Caramel, da D’Amico a Riccardo Passoni, erede della mostra curata dal padre, alla Gam, nel decennale della morte del ’58. Via dunque la cavalcata cronologica, via il senso intimistico dell’esporre, protetto dai siparietti sapienti, vie le premesse storiche d’un pur interessante e creativo periodo figurativo («relegato» volutamente nel sancta sanctorum, conclusivo, dei documenti). Via soprattutto i dubbiosi momenti, le diteggiature nodali di passaggio epocale (anche se tutto per Licini era dubbio e ripensamento cartesiano - nel senso anche di ripresa continua delle sue opere più nevralgiche: perennemente aperte). 

Nella stanza centrale del primo piano della Gam, completamente sventrata e neon-snudata di luce zenitale, l’allestimento di Rino Simonetti ricorda l’opera-chiave di Beuys Fine del XX secolo: non sai se la mostra sia ancora in via di allestimento o già di smontaggio. Ma pur nell’esattezza calcolata e geometrica delle tele, che si rispondono guerrescamente, si respira comunque questo clima di precarietà aleatoria, sottolineata anche da quelle pareti mobili, che non sono pareti, ma retri di grandi tele, appoggiate in bilico, che fan molto atmosfera di studio: di atelier perenne. Come penetrando dentro la vita schiva dello stilita di Monte Vidon Corrado. E probabilmente Licini avrebbe protestato il termine stesso, quasi crociano, di «Capolavori», lui che scriveva, agli amici ancora inconosciuti della Galleria del Milione, ma «fratelli in spirito» dell’avventura astrattista: «E poi vi avviso, i miei capolavori sono ancora tutti da fare, ne tengo più d’uno in cantiere, ma non sono ancora pronti per scendere in mare». 
Accettiamo dunque quest’immagine del cantiere navale prima d’ogni varo ufficiale, quest’aria di provvisorietà consustanziale, e godiamoci quest’atmosfera libera, sfondata, in cui le tele possono espirare sfrontatamente il loro ossigeno d’alta quota mentale (talvolta hai davvero l’impressione che nella loro craquelure screpolata, queste superfici celesti, astrali, ansimino ancora e ridacchino, blasfeme, come poggioli scollacciati di Amalassunte postribolari, complice l’amato Baudelaire). 

O non era lui a dire, in rivalsa ai realisti engagés, che lo accusavano di decorativismo e di purismo evasivo: «A che cosa serve un quadro, se non a rallegrare una parete?». Certamente, ma sempre dalla parte di un’allegria di naufragio, di una «gaia» scienza, succhiata dal suo amato Nietzsche (ma qui si deduce, nelle casse d’imballaggio per i quadri, trasformate in vetrine preziose, quanto leggesse anche Giordano Bruno e il Feuerbach sul Cristianesimo, Kafka come Bacchelli, Marinetti insieme a Soffici, Mallarmé come Gordon Craig: il rivoluzionatore principe del teatro, il nullificatore, insieme ad Appia, degli orpelli, dei fantasmi di scena). E perfino un folle librino medico su «Un grande allucinato dell’udito: Martin Lutero»! Sì, a ben vedere, c’è qualcosa sempre di visionario e di luterano (sbattezzato) in lui, quasi alla soglia del totale azzeramento, dell’iconoclastia pura: via l’immagine! lasciamo solo, sulla lavagnetta del morboso piacere cerebrale, i segni mentali e diagrammati di un sogno che non è onirico, e non proviene dalle trippe bretoniane dell’inconscio («Il surrealismo a modo mio») ma dai capricci (d’un vegliardo, alla Barilli: Bruno, l’olandese volante, non Renato!) di una ragione immaginosa e ferocemente allucinata. «Dicono i preti che adesso io faccio della pittura cerebrale. Che cosa dovremmo fare, della pittura intestinale?». Eppure, in questa ascesa verso la via regia e senza remissione dell’astrazione più radicale (vicina soprattutto alla fantasia iningabbiabile di un Soldati o Magnelli, certo non ai rigori della squadretta dei geometri di Como, Rho e Radice) qualche resto fecale, sottotraccia, della sua vecchia pittura morandiana e leopardiana permane, invincibile, in apnea. 

FONTE: Marco Vallora (lastampa.it)

domenica 25 luglio 2010

Cattelan, paura d'essere risucchiato dallo scarico della lavatrice

L'artista italiano più conosciuto e quotato del mondo compie 50 anni «Quando arrivi dal nulla come me, il nulla ti insegue come un fantasma»


E' difficile da credere che il Pierino dell'arte contemporanea, l'erede della merda d'artista, il guerrigliero delle arti visive ma anche l'artista nato povero ma non dell'Arte Povera diventato l'Italiano più caro al mondo, insomma avete capito, «lui», Maurizio Cattelan, stia per superare il mezzo secolo di vita. Come ci si sente a 50 anni? «Uguali, direi. Ma più che celebrare i 50 anni, celebro 20 anni di permanenza nello stesso mestiere, l'artista: tutti i lavori che ho fatto prima al massimo sono durati un paio di anni». In effetti Cattelan è rimasto uguale a quando c'incontravamo nel 1993 nello stesso ristorante giapponese, Shima, nell'East Village di New York dove abbiamo fatto questa intervista. Sembra geneticamente disegnato per essere un personaggio eterno da fumetti. Stesso peso, qualche capello grigio in più e anziché abiti sgraffignati oggi indossa T-shirt autoprodotte griffate Cattelan. Unica differenza: 17 anni fa anche se con fatica chi pagava il conto del ristorante ero io, mentre oggi è lui. 

Come ci si sente a essere ricchi? «Ricco per me vuol dire riuscire a poter fare i miei lavori senza dipendere da nessuno, riuscire a realizzare le mie idee, dalle sculture alle riviste come Permanent Food o Toilet Paper, fresca fresca di stampa». Ma quando hai capito che con l'arte potevi davvero viverci? «Fino al 1997 qui a New York il mio budget giornaliero era di 5 dollari. Poi un gallerista dove avevo fatto un mostra mise all'asta una mia opera, gli “spermini”, le mascherine di lattice con la mia faccia che furono battuti se non sbaglio per 150 mila dollari, lui li aveva pagati credo 10 mila». Contento? «Da una parte sì, ma da un'altra trovavo assurdo che mentre io ero costretto a pane e caffelatte perché non potevo comprarmi un cornetto, c'era uno che in pochissimo tempo aveva guadagnato 15 volte quello che aveva investito». 

Oggi le cose sono leggermente cambiate, le opere di Cattelan non sono così facili da avere e costano svariati milioni alle aste e sul mercato privato. Quel gallerista sarebbe stato più furbo a tenerseli gli spermini. «Inutile piangere sul latte versato». 

Così senza lacrime il 21 settembre Cattelan, che è nato sotto il segno della Vergine, spegnerà 50 candeline. Il giorno dopo festeggerà San Maurizio e il 24 settembre inaugurerà la sua nuova scultura in piazza degli Affari, a Milano, Omnia Munda Mundi, titolo preso in prestito da San Paolo: Per i puri tutto è puro. Si tratta di un'enorme mano di marmo alla quale sono state segate tutte le dita escluso il dito medio che svetta nel cielo mandando al diavolo un po' tutti. Questo monumento, che piacerebbe tanto a Beppe Grillo, ha creato non pochi problemi al sindaco Letizia Moratti e al suo assessore alla Cultura Massimiliano Finazzer Flory. Ma Milano conosce bene il gioco di Cattelan sempre al limite del cartellino rosso. Nel 2004 la Fondazione Trussardi presentò i suoi tre bambini impiccati a un albero e l'opera fece il giro delle prime pagine di tutti i quotidiani. 

Il monumento al «vaffanculismo» il giro dei quotidiani lo ha già fatto prima ancora che venisse realizzato, così come ha destato non poche polemiche l'ipotesi di sostituire un monumento a Mazzini durante la Biennale di Scultura di Carrara con una statua di Bettino Craxi. In questo caso l'operazione non è riuscita e Cattelan si è accontentato di mettere un cenotafio con l'effigie del leader socialista al cimitero, vicino alle tombe dei dispersi in guerra. 

Quando pensi a un lavoro vuoi sempre provocare? «Assolutamente no. M'interessa che l'opera e l'arte facciano comunicazione, dicano qualcosa a cui magari la gente pensa ma non lo dice apertamente. O se lo dice non lo mostrerebbe mai con un'immagine. L'immagine esprime sempre di più delle parole: è più semplice, chiara, efficace, lascia pochi dubbi». Qualche dubbio sulla qualità di certi tuoi lavori tu però li hai? «Certo. Ci sono lavori che funzionano come opere e altri, per esempio i bambini appesi all'albero, una volta mostrati in un contesto molto preciso non funzionano più». Tu fai poche mostre in gallerie private. L'ultima è stata a New York da Marian Goodman nel 2001 con i due poliziotti capovolti. «Ecco un lavoro sul quale ancora oggi ho qualche dubbio. Sì, preferisco lavorare in luoghi pubblici più che nelle gallerie. Il lavoro deve circolare nella testa delle persone, fuori anche dal mondo ristretto dell'arte». 

Di cosa hai paura? «Di essere dimenticato. Una paura che mi porto dietro dalla nascita. I miei genitori volevano tanto una femmina che quando nacqui si dimenticarono di registrarmi all'anagrafe, glielo ricordarono dai carabinieri». Paura di tornare un povero artista? «Vedi, io sono nato in una famiglia indigente. Ci facevamo il bagno in una tinozza con l'acqua calda dello scarico della lavatrice. Sono uno di quelli di cui si dice che “si è fatto dal nulla”. Ma quando arrivi dal nulla questo “nulla” t'insegue come un fantasma. Non importa quanti soldi uno faccia. Il terrore che questo nulla a un certo punto riesca a riprenderti è eterno. Non è paura di tornare povero, ma paura di essere risucchiato dentro lo scarico della lavatrice». Eppure sei stato proprio tu a iniziare la tua carriera d'artista scomparendo. Una delle tue prime opere furono delle lenzuola annodate a mo' di evasione con le quali ti calasti dalla finestra di un castello dove avresti dovuto partecipare a una mostra di gruppo. Addirittura alla tua prima mostra in una galleria di Bologna, la Neon, nel 1989, non sapendo cosa fare attaccasti al muro un cartello con scritto «Torno Subito». «Sì, però quando poi ho deciso di tornare non sono più andato via».

FONTE: Francesco Bonami (lastampa.it)