venerdì 12 agosto 2011

Calzolari, il poverista venuto dal freddo


Nelle sue prime opere anche superfici di ghiaccio. Una mostra a Venezia ne ripercorre la raffinata ricerca

Anche se spesso sono indicazioni restrittive e banalizzanti, succede a molti artisti di essere identificati in modo generico dal pubblico più allargato attraverso i soggetti più famosi oppure attraverso i materiali più tipici utilizzati per le loro opere. E così Morandi diventa il pittore delle bottiglie Pistoletto è quello degli specchi, Beuys il maestro del feltro e delle lavagne, Kounellis l’artista del fuoco, Hirst lo squartatore di bovini e squali. Anche Pier Paolo Calzolari subisce questa condanna (che è pur sempre segno di notorietà consolidata). Lui è l’artista delle superfici gelate con motori di frigorifero. E in effetti molte fra le sue opere più belle, a partire da quelle della fase germinale dell’Arte povera alla fine degli Anni 60, sono realizzate con questo tipo di procedimento tecnologico. 

Ma questo e i molti altri dispositivi e materiali dei suoi lavori (scritte al neon, motorini elettrici, registratori; oggetti come scale, materassi, flauti; elementi della natura come foglie, muschio, legno, uova, pesci vivi; e anche superfici di piombo, ferro, rame, feltro o sale) acquistano un affascinante senso artistico solo se si comprende la raffinata complessità del processo creativo messo in atto dall’artista. Un processo che (partendo da presupposti poveristi comuni) va al di là della logica rappresentativa attivando, in modo vitale, l’espressività primaria dei materiali e degli oggetti della realtà concreta. E questi, pur rimanendo sempre quello che sono, si trasformano, attraverso inedite combinazioni e accorte elaborazioni installative, in inediti strumenti linguistici generatori di nuovi significati e di nuove prospettive di visione estetica. E, in particolare nel caso di Calzolari, si può parlare di una ricerca caratterizzata da una peculiare tensione poetica e anche musicale, e sicuramente di una straordinaria sensibilità per la qualità formale. 

In altri termini, si può dire che l’artista non ha mai smesso di essere «pittore», sia pure con altri mezzi, e che attraverso la sua alchimia inventiva è arrivato a mettere in scena delle installazioni che sono delle vere «composizioni», dove la fisicità concreta degli oggetti e dei materiali entra in una dimensione di sospesa levità, e si propone agli occhi dell’osservatore come forma impregnata di vita ma allo stesso tempo carica di memorie culturali, direi della più alta tradizione artistica italiana. E l’occasione migliore per verificare la qualità, ormai quasi «classica», dell’opera di Calzolari è sicuramente questa antologica al museo veneziano di Ca’ Pesaro, curata da Daniela Ferretti e Silvio Fuso, dove sono esposte soprattutto grandi installazioni storiche e soprattutto recenti (ben combinate fra loro), la cui disposizione nelle sale al pian terreno e al primo piano è stata studiata con grande attenzione ai rapporti con lo spazio architettonico del Longhena e con la luce naturale che entra dalle vetrate che danno sul Canal Grande. 

È proprio una mostra da museo, nel senso migliore del termine. Dal punto di vista cromatico dominano i bianchi delle superfici gelate (o come preferisce l’artista «brinate»), di sale o di tessuti (o mollettoni); quelle nere di sale o feltro combusti, e quelle grigie plumbee, anche in relazione organica fra loro. Tra i lavori del periodo strettamente poverista troviamo un lavoro con un bianco materasso su cui sono è adagiata la scritta al neon Senz’altri rumori che i miei (1971), oppure la poetica frase Lago del cuore scritta con lettere in stagno su una foglia di tabacco (1968). La leggerezza nivea della brina compare, per esempio, in un’installazione come Tolomeo (1989), dove ricopre una tavola che si contrappone alla pesantezza di un pavimento di piombo, con un singolare effetto di sospensione metafisica.

Ed è presente anche nell’elegante installazione recente (2010) che si configura come una natura morta gigante fatta da un vaso metallico posato su una leggerissima struttura a rete con andamenti curvilinei, gelata, che si staglia su un fondale nero costituito da una superficie ondulata di nero feltro combusto. Qui si arriva (senza, per fortuna, superarlo) al limite dell’estetismo. Ed è questa la caratteristica anche di altre opere come la Natura morta (2008), che sembra un omaggio a Piero della Francesca, con un uovo posato su una tovaglia bianca , con una tela dipinta di bianco sullo sfondo. 

Ma a far da contrappunto a queste esaltazioni della forma e dell’armonia classiche, troviamo anche lavori di sorprendente liricità ironica, come il bellissimo video Colibrì (2002), con un nudo femminile sdraiato che gioca maliziosamente con un uccellino e anche con lo spettatore (grazie a sensori interattivi). E come Marie chante (2002) dove, davanti a uno schermo a parete su cui compare ogni tanto una ragazza che canta, c’è un tavolino con sopra un vaso pieno d’acqua con un pesciolino che nuota. Per segnare simbolicamente la presa di possesso temporanea di Ca’ Pesaro Calzolari si è divertito a collocare una sua Struttura ghiacciante (1990) addirittura nelle acque del Canal Grande vicino all’imbarcadero.

FONTE: Francesco Poli (lastampa.it)

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