lunedì 27 maggio 2013

I mostri di Witkin, il fotografo del proibito

 
 
Il bricolage spettacolare di Joel Peter Witkin porta in scena la fascinazione profonda del proibito. Ma in una maniera inquietante, frequentando una forma di bellezza diversa dal consueto, riproducendo l’indesiderabile, l’abnorme, il mostruoso. Eccoli i soggetti ritratti nelle sue fotografie: storpi, nani, ermafroditi, androgini, una serie di fantasmi provenienti dal rimosso, da una stanza distante che evoca le torture dell’inconscio. Un mosaico di corpi deformi, ricuciti in una scena iperrealista, barocca, dove la morte si accosta alla vita e la diversità si riappropria del palcoscenico, magari quello del M.O.M.A. di New York o del Victoria and Albert Museum di Londra. Witkin ritorna in Italia a distanza di diciotto anni dalla grande mostra di Rivoli, arriva questa volta a Firenze con 55 opere esposte al Museo Nazionale Alinari della Fotografia. Joel-Peter Witkin. Il Maestro dei suoi Maestri, dal 21 marzo al 24 giugno, ripropone un viaggio urticante e mistico riemerso dai bestiari medievali, partorito dalla letteratura moderna che attinge al Frankenstein di Mary Shelley. Le sue inquietanti creature lasciano pensare all’universo delle comparse felliniane, meglio ai protagonisti delle storie di Dylan Dog con uno sguardo ai mutanti cyberpunk.

ERMAFRODITI

Nato a New York nel 1939, padre russo ed ebreo, madre napoletana e cattolica, ad influenzare singolarmente la sua cultura religiosa. Comincia a fotografare professionalmente negli anni Sessanta, su commissione del fratello gemello, pittore e scultore: ritrae una “chicken lady”, un uomo con tre gambe e un ermafrodito nei paraggi di New York. Da allora l’universo dei freak diventa il suo circo privato, la realtà a cui attingere per scioccare e sedurre. L’America puritana gli ha rovesciato addosso le accuse di pornografia, blasfemia, psicopatia.

IPERREALISMO

Le sue immagini vanno ben oltre le trasgressioni di un Mapplethorpe – dal quale prende le distanze: presentano ciò che è inaccettabile alla percezione comune, rimuovono e indagano il tabù della pornografia della morte. L’impatto con l’occhio è iperrealista, l’immagine viene progettata a tavolino con disegni preparatori, elaborata con allestimenti scenografici di fondali e luci, stampata con graffi e trattamenti pittorici. Il suo lavoro diventa una singolare forma di preghiera, in grado di evocare lo strano meraviglioso o, come afferma lui stesso, provocare quel flash «dell’ultima cosa che una persona vede o ricorda prima di morire».

Demiurgo e voyeur, Witkin colloca il suo improbabile universo di supereroi da confine tra la vita e la morte, dove la fotografia ha ragione di esistere e forza per sconvolgere, attingendo alla storia dell’arte, all’iconografia cristiana del memento mori, citando in un bricolage fantastico il mondo di Bosch e le angosce religiose di Zurbaran, le ombre, le luci, i modelli di Caravaggio, gli abiti e la teatralità di Velazquez con i tableaux fotografici di Muybridge e Reylander, i giochi surreali di Arcimboldo con quelli delicatissimi di Mirò, il surrealismo di Dalì insieme ai sogni simbolisti di Kubin, Balthus e Beckmann. È la rivincita del corpo nell’era dell’immateriale digitale: ma del corpo deforme e postumano, della fisicità che per imporsi deve fa paura, della sessualità che riappare sotto forma di mostruosità, della bellezza disabile che nell’occhio di Witkin ha trovato un paladino visionario.

FONTE: Giovanni Fiorentino (ilmessaggero.it)

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