martedì 20 settembre 2011

L'Arte Povera si fa in otto


Germano Celant ha presentato la kermesse che in diverse città e sedi, tra l’autunno e l’inverno, celebrerà il movimento da lui inventato nel 1967

Il movimento dell’Arte Povera nasce nel 1967, con una mostra alla Galleria La Bertesca di Genova. A raccogliere una serie di artisti (da Merz a Pistoletto, da Prini a Pascali) che tra Torino e Roma si ribellano al predominio della Pop Art a stelle e strisce e puntano su materiali poveri è il critico genovese Germano Celant. È lui a coniare il nome che rimanda alle esperienze del Teatro Povero del polacco Grotowski. A segnare le prime tappe del movimento arrivano nel 1968 la mostra alla Galleria de’ Foscherari di Bologna e «Azioni Povere» ad Amalfi. Nel 1972 Celant dichiara la morte del movimento, il cui apprezzamento internazionale continua però ininterrottamente a crescere fino ai giorni nostri. In anni recenti si hanno nel 2001 la mostra alla Tate (curata da Bonami), mentre i vari artisti sono celebrati dai musei di tutto il mondo.

“Dal ministero? Abbiamo ricevuto solo tremila euro e una lettera di Galan». Si chiude con una nota polemica la presentazione della grande kermesse sull’Arte Povera che Germano Celant ha tenuto ieri alla Gnam di Roma. Seduto non a caso sotto l’Ercole e Lica di Canova (la ragazza strapazzata è l’Arte o la critica che ogni tanto lo punzecchia?), l’inventore nonché padre-padrone del movimento ha raccontato la fatica di realizzare il suo ambizioso progetto: «Non sapendo da dove partire - ha esordito - inizierò dai numeri. Abbiamo, per la prima volta in Italia, messo insieme sette città e sei musei, presentiamo 250 opere su una superficie complessiva di 15 mila metri quadri». Niente male per un movimento che aveva fatto della Povertà la sua cifra, ma che rimane a tutt’oggi dopo il Futurismo l’unico movimento italiano di rilevanza internazionale (merito dei poveristi o demerito di quelli che sono venuti dopo?). «Finora - ha detto ancora il critico genovese - mi ero sempre rifiutato, anche quando me l’aveva proposto la Tate, di fare “una” mostra sull’Arte Povera, perché non sarebbe stato possibile rendere la complessità del movimento, ed è invece proprio questo che cerchiamo di fare ora».

Nata del 1967 da un gruppo di artisti che, nel clima di quegli anni, si ribellano alla Pop Art americana e dimostrano che si può fare arte con materiali «poveri», dal ferro agli stracci, dalla terra alla carta, dal vetro al neon, il movimento si afferma in fretta: «Capii che ce l’avevamo fatta quando la critica accademica romana rifiutò e boicottò, nel 1968, la mia mostra “Azioni povere” ad Amalfi». Allora il gruppo era più numeroso (gli anni erano tumultuosi e fluidi), oggi Celant riconosce solo 13 artisti, di cui nel frattempo alcuni sono scomparsi (il primo fu Pascali che morì nel ‘68, poi Alighiero Boetti, Mario Merz e Luciano Fabro). Oltre a loro la pattuglia era ed è composta da Giovanni Anselmo, Pier Paolo Calzolari, Jannis Kounellis, Marisa Merz, Giulio Paolini, Giuseppe Penone, Michelangelo Pistoletto, Emilio Prini e Gilberto Zorio. Nel 1972 è Celant stesso a dire che l’Arte Povera è già finita. «Ne sono ancora convinto - ricorda -. In quella data finisce come movimento, dopo di allora rimangono le individualità degli artisti, che continuano a lavorare». E lavorano non poco, raggiungendo sul mercato quotazioni tutt’altro che povere (in qualche caso, come alcune Mappe di Boetti o grandi installazioni di Merz, diversi milioni di euro). E alcuni di loro oggi fanno fatica (pensiamo alle svolte concettuali di Paolini) a riconoscersi nel movimento che pure li ha lanciati.

Come si articola la kermesse? Accompagnata dal catalogo Electa, è una sorta di viaggio nel tempo (dal 1967 a oggi) e nella geografia. «Per rendere al meglio esperienze e linguaggi ho cercato di tener conto della specificità dei luoghi». Così ad esempio Torino, che oltre a essere la culla del Movimento (molti artisti erano torinesi) ne è anche il tempio (grazie alle collezioni del Museo di Rivoli, che conserva anche artisti internazionali di quel periodo), vedrà proprio al Castello di Rivoli «Arte Povera International», ossia un confronto tra poveristi e loro colleghi di vari Paesi del mondo. Milano non ha mai avuto una grande mostra del movimento e alla Triennale proporrà una sorta di antologica, per tappe essenziali. Bologna andrà alle radici con «Arte Povera 1968», che rievocherà la prima mostra bolognese alla Galleria de’ Foscherari. Due le sedi di Roma: «La Gnam - ha ricordato Celant - renderà omaggio a Pascali con 20 sue opere. Il Maxxi farà un omaggio al movimento con grandi installazioni recenti di Kounellis, Zorio e Penone. Grandi lavori anche al Teatro Margherita di Bari («È un teatro distrutto in via di ricostruzione, mi è sembrato il luogo ideale proprio perché l’Arte Povera ama gli spazi non finiti»). Il Madre di Napoli, nonostante il periodo non facile, allestirà «Arte Povera più azioni Povere 1968», che rimanda alla mostra di Amalfi. Proprio l’altro giorno si è aggiunta Bergamo, che metterà opere nelle piazze e nei palazzi.

Ma cosa resta oggi di quella che era la poetica del movimento? Per Celant se l’arte va verso la mondializzazione, in qualche modo, pur legati al binomio Europa-America, i poveristi anticiparono il rapporto con il «mondo conosciuto». E viene spontaneo pensare a Boetti e ai suoi viaggi in Afghanistan, dove tra l’altro i suoi arazzi sono diventati modelli per artisti locali. Inoltre, per Celant, la democratizzazione dell’arte, che era una delle caratteristiche del movimento, ha ancor oggi valore. Per il resto sarà la kermesse a permettere di capire cosa vale ancora e cosa no. Tornando alla lettera di Galan, il ministro fa grandi apprezzamenti. Ma la mostra non è stata inserita neppure nel cartellone delle celebrazioni di Italia 150. Probabilmente il ministero (leggi Bondi) aveva speso tutto per finanziare il Padiglione Italia di Sgarbi alla Biennale.

FONTE: Rocco Moliterni (lastampa.it)

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