giovedì 9 dicembre 2010

Edward Hopper & C. così nasce l'immagine dell'uomo moderno

All'inizio del XX secolo artisti e fotografi americani escono dagli studi per raccontare la società in cui vivono. Una mostra a New York li celebra

L’arte non può essere separata dalla vita... ha per noi un valore non perché sia un prodotto d’ingegno, ma perché rivela l’esperienza umana», diceva sempre il carismatico pittore Robert Henri ai suoi studenti, tra cui Edward Hopper, maestro del realismo americano, ai primi del Novecento. Un periodo questo di straordinari cambiamenti nell’arte, nella cultura e nella società del Paese cui è dedicata la mostra «Modern Life: Edward Hopper and His Time», la prima su Hopper e i suoi contemporanei. Il 1900 con Theodore Roosevelt come Presidente, segna «un’era totalmente nuova in America», dice Barbara Haskell curatrice della mostra insieme con Sasha Nicholas. «All’improvviso il Paese è al centro della scena internazionale, la città di New York diventa il modello di un nuovo mondo, in cui persone di etnie e razze diverse vanno fondendosi. E vi è un generale senso di entusiasmo e di ottimismo che viene espresso dagli artisti di questo periodo, fino allo scoppio della Prima Guerra Mondiale».

Nella mostra compaiono non soltanto i pittori della generazione di Hopper e quella precedente ma anche i maestri della fotografia di quel tempo come Alfred Stieglitz, Edward Steichen, Lisette Model e Paul Strand, che, tra l’altro, realizzò un film, insieme al pittore Charles Sheeler nel 1921, dal titoloManhatta (ispirato a Leaves of Grass di Walt Whitman). Apre la mostra, racconta una giornata in città e esprime con efficacia l’idea della «nuova America». E pittori come Ben Shahn, che qualche anno più tardi, nel ‘35, dopo aver assunto l’incarico di realizzare un reportage sugli effetti del New Deal, utilizzò le sue fotografie come modello per quadri, come Scotts Run, West Virginia, presente in mostra. 

«”Dipingi quel che senti, quel che vedi, quello che per te è reale” diceva Henri», racconta la Haskell. Questi artisti si ribellarono alla tradizione pittorica del loro tempo che celebrava aristocratici e potenti con ritratti idealizzati e vollero «uscire per la strada e dipingere quello che vedevano» e così insegnarono ai loro allievi. Henri fondò il gruppo «The Eight», più tardi soprannominato in modo dispregiativo «The Ashcan School», con un riferimento ai bidoni che raccoglievano la spazzatura, di cui fecero parte John Sloan, William Glackens, George Luks, Everett Shinn, Arthur Davies, Maurice Prendergast e Ernest Lawson.
Diedero vita al movimento realista che ebbe poi un largo e prolifico seguito. «Nel 1913 Roosevelt scrisse il bellissimo testo Dante and the Bowery, dice la Nicholas, facendo riferimento alla via simbolo dell’emigrazione europea a New York, che chiamò “una delle grandi strade dell’umanità...” di vita pulsante, di divertimento, di lavoro, di tragedie sordide e terribili». Gli americani avevano dipinto tutto fino ad allora: la natura, i ritratti della propria aristocrazia, ma mai le città, le strade, le persone, che ora invece diventano protagoniste. E in particolare il mondo degli emigranti, dei poveri e degli emarginati.

I pittori in mostra raccontano le strade del gioco d’azzardo e della prostituzione, i vaudeville, gli incontri di boxe, i tram affollati, i ristoranti, le osterie, gli interni delle case, con donne in sottoveste nell’intimità delle proprie camere, come in Turning the Light di John Sloan del 1905; i fotografi catturano i ragazzi che vendono i giornali, il brulicare delle strade e le navi cariche di emigranti come in The Steerage, forse la fotografia più importante di Stieglitz, del 1907. Ma anche quando dipinsero dei ritratti come nel caso di quello della grande mecenate Gertrude Vanderbilt Whitney, realizzato da Henri, diedero scandalo. «Quando suo marito lo vide, le disse che non era accettabile che venisse esposto nei saloni di casa e lei dovette quasi nasconderlo nel suo studio. Perché nel quadro compariva in pantaloni», racconta la Haskell. Molti degli artisti della «Ashcan School» e della generazione successiva provenivano dal mondo del giornalismo.
William Glackens era un illustratore per riviste e quotidiani, così come Hopper e Sloan. Lavorare come illustratori significava andare sul posto e tracciare un rapido schizzo dell’evento e poi fare affidamento sulla propria memoria e immaginazione. Presto poi tutti questi artisti abbandonarono il mondo dei giornali e si dedicarono completamente alla pittura. «Ma questa combinazione di osservazione della realtà, memoria e creatività è una tecnica che resta costante nella loro arte, in primis per Hopper», sottolinea la Haskell. A proposito di nuovi media, Hopper era particolarmente appassionato di cinema e si può certamente dire che uno dei tratti che rende unica la sua opera sia proprio la «cinematograficità». «La luce dipinta da Hopper ha una fisicità del tutto particolare e il pittore tratta i suoi soggetti come la macchina da presa». E, come in New York Interior (1921) sembra di trovarsi di fronte al soggetto raffigurato. «Questa mostra ci consente di guardare ad Hopper in modo diverso», spiega il direttore del Museo Adam D. Weinberg. E soprattutto, Hopper, già molto amato dal pubblico, come nota la Haskell, «sembra risorto a vita nuova, perché mai è stato accostato agli altri artisti e l’enorme vitalità che tutti insieme sprigionano è palpabile nell’aria». 

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