giovedì 14 maggio 2015

A Venezia per vedere tutti i futuri del mondo

 
La mostra curata dal nigeriano Okwui Enwezor si addentra con impeto nei problemi di un pianeta dove il tempo della storia non è lo stesso dovunque. Qualità e visibilità per gli italiani
 
Con il padiglione centrale dei Giardini listato a lutto la prima cosa che viene da dire è «Si comincia male!». Anche perché le bandiere nere sono opera del pessimo e sopravvalutato artista Oscar Murillo stella piangente, più che nascente, del mondo e del mercato dell’arte. Appena entrati la sensazione potrebbe essere confermata da una serie di opere con la parola «FINE». Nemmeno si è iniziato che già tutto è finito? Assolutamente no.  
 
Il vestibolo ottagonale con la cupola decorata agli inizi del ’900 da Galileo Chini è dedicato tutto al nostro Fabio Mauri. Chi si lamenta del numero scarso di artisti italiani selezionato da Okwui Enwezor, curatore di questa 56ma Biennale, qui si renderà conto che non è una questione di numero ma di qualità e visibilità. Se non ricordo male, non credo che il padiglione principale abbia mai avuto nelle ultime edizioni della Biennale la prima sala tutta dedicata ad un Italiano. Il funereo Murillo è già dimenticato. Enwezor con la sua mostra intitolata Tutti i futuri del mondo è riuscito a dire e a fare quello che né Expo né gli imbecilli dei Black Block sono stati capaci di fare e di dire. Il mondo o meglio i tanti mondi che compongono il nostro pianeta è fatto di problemi e delle loro possibili soluzioni.
 
Come un teatro  
Il curatore Nigeriano oggi direttore dell’Haus der Kunst di Monaco di Baviera le mette in scena con grande potenza ed eleganza aiutato nell’allestimento della mostra dall’architetto inglese David Adjaye. Dire che la mostra di Enwezor, almeno questa parte ai Giardini, sia una ventata di aria fresca sarebbe fuorviante. Il vento di Enwezor soffia violento e pesante non è certo un ponentino. I temi ed i protagonisti che mette sul suo palcoscenico (perché questa Biennale è un vero e proprio pezzo di teatro), arrivano da luoghi, società e culture dove la modernità sta ancora facendo i conti con diverse realtà, spesso contraddittorie e conflittuali: dall’Africa al Sud America all’Asia. 
 
Il fatto che la sala centrale tutta ricoperta di moquette rossa sia stata trasformata in un arena dove non si espongono le blu chip ovvero le opere d’arte più eclatanti, ma si narrano in vari modi i problemi presenti e passati del mondo è un segno chiaro di come il curatore abbia voluto trasformare l’esposizione in manifestazione, nel senso vero e proprio del manifestare in modo vocale lo stato delle cose.  
 
Si recita il Kapital Oratorio, dal Capitale di Karl Marx, diretto dall’artista inglese Isaac Julien o si ascoltano le canzoni dei lavoratori e degli schiavi cantate in modo emozionante dalla coppia di artisti Julian Moran e Alicia Moran Hall. Non sarà una Biennale facile da digerire, molti film e molti video e tanto tanto tanto da leggere, ma non solo. Ci sono anche sculture disegni e pitture. Bellissimi i quadri dell’americana Ellen Gallacher e quelli del pittore di Chicago Kerry James Marshall e pure le tele angosciantissime del giovane artista giapponese suicida Tetsuya Ishida. Delicatissimi i lavori dell’egiziana Inji Efflatoun a conferma che Enwezor ha scavato a fondo evitando il più possibile l’effettaccio biennalesco.  
 
Deserti e praterie  
Un’altra italiana alla quale è stato dedicato un bello spazio è Rosa Barba con un film, leggermente sul palloso, che mostra deserti e praterie, ma confesso di non averlo visto tutto, magari ad un certo punto ci si diverte pure con qualche azione a sorpresa. Lo svizzero Thomas Hirschhorn ha sfondato invece, o cosi sembra, il tetto di una delle stanze, facendo piovere in mostra pagine di testi di filosofia greca, possibile, ma non garantiamo, citazione alla crisi economica della Grecia. In un’altra sala tantissimi disegni a matita del tailandese Rirkrit Tiravanija, un veterano delle Biennale. I disegni sono presi da immagini di manifestazioni di protesta in giro per il mondo. In un disegno c’è un cartello che dice «Stop Arguing», smettete di litigare, che forse riassume il titolo della Biennale.  
 
I mondi potrebbero avere un futuro se si smettesse di litigare. Ma c’è un’altra opera simbolo di questa parte della Biennale. E’ di Hans Hacke artista iperpolitico che però in questa vela blu degli Anni 60 che galleggia sostenuta da un semplice ventilatore ci offre l’opportunità di sperare che anche nei problemi ci possa essere un lato poetico nel quale abbandonarsi e abbandonare le nostre preoccupazioni. In un video del francese Chris Marker, ecco che appare la scritta «Life is very long», la vita è molto lunga. Anche questa frase rappresenta bene questa Biennale, nel senso che per godersela tutta è necessario avere una vita molto lunga davanti. 
 
Un giorno libero  
Noi curatori siamo sempre ottimisti. Si esce dalla stanza dell’Inglese Jeremy Deller con uno stendardo che dice «Hello today you have a day off», salve oggi hai un giorno libero. Frase che va mano nella mano con quella di Marker. Una vita lunga e molti giorni liberi per poter capire una Biennale che ha il coraggio di raccontarci non solo il mondo dell’arte ma i mondi nell’arte dovrebbe aiutare a migliorare la vita e non a complicarla. 
 
FONTE: Francesco Bonami (lastampa.it)

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