venerdì 20 luglio 2012

I sudari specchianti di Antonaci



Alla Fondazione Maramotti un artista «inafferrabile»

Massimo Antonaci è lontano anni luce (proprio nel senso di una sua materica e vischiosa essenza, anche meditativa, di lattea opalescenza riottosa, per quanto abbracciante, di sapiente ritrosia panoramica, panoptica, che scende verso l’abisso d’un luminosissimo nulla, da teologia negativa, e che però avvolge e suggestiona) da tutte le invasive pastoie odierne di etichette, periodizzazioni, scuderie, camarille, tendenze. E difatti, con tutto il rispetto per la sua densità di percorso, qui da noi (è fuggito in America) chi lo conosce? È davvero un insistemabile ed asistematico irregolare, evviva, della visibilità in absentia (non ci sono figure, a stento giochi calcolatori di geometrie libere, slacciate, nei suoi vitrei polittici muti d’immagini, che qualcuno potrebbe superficialmente giudicare mondrianesche, neo-plastiche, ma sarebbe una scorciatoia cieca).

E ci pare doveroso rispettare questa sua incatalogabilità intemporale, che sfugge anche dai bordi consunti delle sue «vetrate», paradossalmente incatramate, lampanti e lappate di luce. Certo, giriamo intorno al fuoco freddo, minerale, delle sue opere, senza volere e saperle descrivere, grandi superfici-crocefissi mono-colore di lastre appoggiate alle pareti (appunto, riferito così sembra molto banale e risaputo) ove il bianco lattiginoso o il nero vitreo e cantante, lasciano trasparire, quasi mentalmente, l’idea basilare ed originaria d’una nigredo pulsante sotto di paste incatramate, di celesti fuochi spenti hoelderliniani, che ancora gittano bagliori: insieme terribili ma anche radiosi, puri spiriti alla Milton.

L’idea propulsiva, quasi percussiva, alla base di questi sudari specchianti, è che l’immagine, negata, filtri attraverso evidenti fissurazioni costitutive, crepe regolarissime e provocatoriamente cartesiane, varchi, intercapedini, interstizi, che prendono il posto delle antiche colature leganti in piombo fuso, nelle vetrate medievali (e Antonacci, con i suoi iniziatici cammini verso Santiago, e verso la meditazione mistica, serpenti warburghiani ed ouroburi infiniti chiusi tra odorosi papiri, è assai vicino al mondo delle cattedrali e a quell’ermetico inafferrabile alchimista del tardo Ottocento, che fu il Fulcanelli). «Sudari dello spazio», li chiama efficacemente Marco Belpoliti, che dedica un intenso (e datato 1987-2012) saggio-autorispecchiato, in cui segue il percorso di questo artista, che curiosamente, ermeticamente, nelle prime quindici pagine egli non cita mai come persona, quasi fosse un’entità spirituale, aerea, incorporea (poi viene fuori l’amico, il viaggio di speranza dalla nativa Puglia romanica e messapica verso il livido cielo dell’Accademia di Brera, ed infine la fuga a Manhattan, a farsi «calcinare» dalla luce liberatoria e atlantica di New York, nella stessa via ove Steinberg immaginava i suoi planetari viaggi inter-grafici).

Ed è inevitabile che Belpoliti debba imboccare la via non della descrizione critica ma della meditazione filosofica, dell’ Aletheia di Heidegger, verità che si svela velandosi: «questo vogliono ricordarci le lastre vetrose: tutto quello che ci è noto della verità è per riflessione, perché la verità ha provveduto a sottrarsi». Alfabeti indecifrabili di luce, lastre matericamente incorporee, che si sviluppano nelle nostre pupille, impedendoci però di specchiarci come lobotomizzate mandrie del consumo «culturale». Ecco, mostre importanti e alternative come queste, ci lasciano l’illusione che sia veramente alla frutta un periodo politicamente strangolato dal bipolarismo mercantile del Potere Espositivo, spartito tra imperdonabili scemenze vetero-concettuali, in agonia, o risibili prove di forza d’una neo-pittura criminalesca.

MASSIMO ANTONACI
IPOTENUSA
REGGIO EMILIA. FOND. MARAMOTTI
FINO AL 31 LUGLIO

FONTE: Marco Vallora (lastampa.it)

Nessun commento:

Posta un commento