lunedì 4 giugno 2012

Mercati e venti del deserto nell'archeologia di Shafik



Una doppia mostra dedicata ai «reperti» dell’artista egiziano

Le opere vi inondano di luce bianca del Mediterraneo. Sabbie, colle, trine e gesso. Sulla loro superficie si percepisce la stratificazione del tempo, delle culture e delle merci: la Mesopotamia, le carte nepalesi, i luoghi sacri, l’incompiuto. Si è abbagliati dal sole, come il giovane Camus sulle sponde algerine, e, dopo un cammino nel mondo sublimato dei popoli, si giunge spaesati alle «origini dei fiumi profondi». Questo è il viaggio di Medhat Shafik (1956), artista egiziano in Italia dal 1977, che espone in una doppia personale, alla galleria Marcorossi artecontemporanea di Milano e alla Eventinove artecontemporanea di Torino. Athar, titolo della mostra, che in arabo significa reperti archeologici, indica un’interminabile ricerca di sé, della propria archeologia personale, attraverso la storia.

«La ricerca di un’identità – afferma l’artista – ormai liquida, per trovare la forza di dialogare con le altre alterità». Le grandi campiture, affollate di segni, di micro-mondi, di popoli migranti, di colline, di venti del deserto, formano un universo interiore creatosi nel tempo del viaggio, nella letteratura, nell’agorà e negli occhi degli antenati. Umili garze egiziane usate per i sudari o per contenere il pane sacro nella chiesa copta, sono appiccicate a tele polifoniche che parlano dell’Est e dell’Ovest. «La materia – afferma l’artista – nel mio lavoro ha valore semantico, ci sono sacchi di farina, civiltà contadine, valori antropologici ritrovati».

Misticismo, spirito e pluralità culturale, sono gli elementi che contraddistinguono l’opera di Shafik, il quale, parlando dell’Egitto e del mondo arabo, assume un’espressione triste. «Il mio paese vive un momento atroce, c’è un bivio. – dichiara - O si cade nel baratro e si diventa schiavi di se stessi o si cerca di trovare una forma di democrazia dialogante con il mondo. È in corso una metastasi nel corpo antropologico dell’Egitto». Per Shafik non vi è separazione tra sé e il mondo, tra sé e l’arte. Tutto si compenetra, coesiste, s’incontra, si moltiplica: contraddizioni, dissonanze e armonie vivono lo stesso spazio. Una raggiera infinita di significati si espande sulla tela. Toni scuri, blu intensi, vengono attraversati da lampi di giallo o di rosso.

Tempeste o pomeriggi azzurri in atmosfere ancestrali aprono visioni possibili, visioni alternative alla meccanica drammaticità del presente. Nelle opere di Shafik il mercato ha un ruolo preponderante. «Non sono importanti le merci – afferma – siamo qui per offrire vita a vicenda. Quello che è importante nella tradizione è che a una certa ora tutti si raccolgono intorno al fuoco e ognuno inizia a raccontare la propria giornata. L’arte, la poesia, la letteratura, la conoscenza, sono per lui le uniche modalità possibili di trasformazione.

Medhat Shafik
Milano Marcorossi
Fino al 30 Giugno

Torino, Eventinove
fino al 23 giugno

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