domenica 30 maggio 2010

Il Maxxi stupisce, e De Dominicis seduce il Macro è un tutt'uno con la città


Il primo percorso nelle sale dei due musei romani "inaugurati" ieri. L'opera di Zaha Hadid sa essere appariscente e scioccante all'esterno ma poi si rivela versatile e adeguato. La mostra dell'artista concettuale ci cade a pennello. La nuova ala di Odile Decq gioca la carta della simbiosi con il tessuto urbano circostante. E riesce.


Il Maxxi di Zaha Hadid è come un profitterol: fuori invitante e suggestivo, dentro una combinazione armonica di elementi che come i bignè del dolce giocano, magari stravolgono o alterano, le aspettative di un godimento pieno dello spazio. In barba a tutte le polemiche e critiche delle ultime ore, il Maxxi è un museo tutto da metabolizzare, bello e seducente all'impatto visivo, complesso, a tratti spiazzante, ma versatile, all'interno. Un capolavoro? Si, senza dubbio, se ci si lascia coccolare dalle sensazioni primarie e istintive, senza rovelli intellettualoidi. E' un colpo d'occhio come non se ne vedevano da tempo, e a Roma fa solo che bene. E' un luogo dove respirare a pieni polmoni il senso mutevole, febbricitante, caustico dell'arte contemporanea. E le mostre allestite per l'occasione gli rendono giustizia. L'omaggio a Gino De Dominicis curato da Achille Bonito Oliva è perfettamente in sintonia col Maxxi, le bizzarrie concettuali del maestro italiano scomparso nel 1998 assecondano l'andamento fluido e ritmico del museo sul filo rosso del tema dell'immortalità, tanto caro all'artista, declinato in una variante del teatro dell'assurdo di beckettiana memoria tra fotografia e video, sculture-installazioni, object trouvé. 






Un percorso articolato, quello per De Dominicis, che la fa da padrone tra atrio-hall-piazza (dove giace la Calamita Cosmica, lo scheletro umano di 24 metri col naso di pinocchio e l'asta d'oro di sette metri) al foyer con la sua mozzarella (di cera anche se si era cercato uno sponsor che desse mozzarelle di bufala autentiche) in carrozza d'epoca, alle sale interne. Tutta all'insegna dell'eccentricità, ma col garbo di una analisi didattica, la sezione "Spazio", l'allestimento del debutto delle collezioni di arte e architettura del Maxxi, che rende ancora più accattivante la passeggiata nel museo, tra installazioni monumentali permanenti, come quelle di Anish Kapoor, Giuseppe Penone, il wall drawing di Sol Lewitt, l'igloo di Mario Merz, i "quattro fili elettrici  -  tenda di lampadine" di Michelangelo Pistoletto, le videoinstallazioni sempre ipnotiche di Grazia Toderi e quelle controverse ma genialoidi di Francesco Vezzoli, le mappe di Alighiero Boetti e gli arazzi di William Kentridge. Solo per citarne alcuni (ma il percorso si snoda in oltre settanta lavori della collezione permanete, più prestiti da istituzioni museali italiane). Con questi interagiscono (qui forse l'abbinamento è più caotico e meno percepibile) le installazioni (dentro e fuori il Maxxi) site specific curate da dieci studi internazionali di architettura che indagano e riproducono una personale idea di spazio del ventunesimo secolo. 

Fatale, come sempre d'altronde, il tocco di Studio Azzurro, collettivo di videoartisti, che lungo un muro di quaranta metri hanno escogitato il loro racconto interattivo di 60 anni di architettura italiana (manipolando immagini cinematografiche, fotografie, interviste, in uno show onirico soprendente, dove vale la pena trattenersi a lungo per averne una visione complessiva). Interessante, la retrospettiva dedicata a Luigi Moretti architetto del Novecento tutto da riscoprire (suo per esempio il famoso complesso del Watergate di Washington) raccontato tra i documenti dell'Archivio di Stato e le immagini potenti  e disincantate di Gabriele Basilico. Del tutto sorprendente, la scelta del turco Kutlung Ataman, videoperformer col cuore nel Mediterraneo. Ma il bello del Maxxi è quello di essere una macchina viva che pulsa in ogni interstizio: tra corridoi secondari, ascensori, scale e ballatoi, c'è sempre una presenza d'autore, tra le installazioni di Net Art, ai lavori di Andy Warhol, Stefano Arienti, Pino Pascali. 

Il Macro, dal canto suo (progetto da 20 milioni di euro rispetto ai 150 del Maxxi, oltre 19 mila metri quadrati, di cui 10mila per la nuova ala, rispetto ai 27mila del Maxxi), è una creatura più simbiotica e malleabile, vezzosa ed eccentrica al punto giusto per un ventunesimo secolo che avanza, ma allo stesso tempo arguta e geniale nella sua integrazione urbanistica e sociale di Roma. Non strafa ma sa stupire con garbo e modestia. Regala anche il Macro i suoi colpi d'occhio mozzafiato, ma sa anche divertire con piccoli grandi tocchi di design geniale. Quando entrerà a regime (a ottobre) sarà un bel regalo per Roma. Il museo di Odile Decq ha dei guizzi formidabili, come l'ingresso (sull'angolo via Nizza via Cagliari) che dopo una penombra porticata immette come un fulmine in una sorta di piccolo "bosco sacro" dall'aura zen, da cui si accede nel grande foyer nero inondata di luce naturale dal soffitto lucernaio, dove subito ci si scontra  con lo scheletro esterno dell'auditorium, il geode la "pietra preziosa" il cuore del museo coi suoi interni laccati di rosso sangue e 159 poltroncine attrezzate di tavolini reclinabili e lucette personalizzate. 


E' una sequenza ininterrotta di spazi, il Macro, con questo meccanismo variabile e dinamico delle passerelle che fluttuano per tutti gli ambienti in modo da variare la percezione delle cose in ogni attimo. Soprattutto dell'Alfabeto di Nunzio, scultura monolite gigantesco protagonista del foyer. Sul fronte espositivo, spicca la grande sala Enel, spazio macroscopico, forse difficile da gestire in futuro, ma biologicamente compatibile con interventi ciclopici ad effetto (oggi e fino a domenica dominati dalla Chimera di Mario Schifano un murale di 40 metri quadrati, dalle vele di Kounellis, dalla montagna di pentole di Gupta. E' tutto da scoprire il Macro, tra la piccola (si fa per dire) galleria allestita per l'occasione con pezzi forti della collezione bulimica alimentata dal direttore Luica Massimo Barbero, da Fontana a Bice Lazzari, da Consacra a Novelli, da Paolini a Yves Klein e Pascali. 

Il bello del Macro è la cura certosina del design (in questo Odile Decq è una poetessa) dalle toilette ai tavoli della caffetteria ristorante (un puro gioco dei sensi). Pezzo forte, tutto da sfruttare in mille modi, la terrazza-giardino-fontana, che diventa una vera e propria piazza pensile del quartiere grazie ad una serie i passaggi e scale che mettono in contatto le strade dell'isolato. Le sale del "vecchio" macro sfoggiano poi (fino al 28 agosto) le varie mostre show pensate da Barbero. Se la macro-hall è tutto trasfigurata dall'installazione permanente di Daniel Buren con i suoi giochi di specchi, a divertire l'umore del visitatore ci sono i settemila aquiloni a cascata si Hashimoto, gli oggetti concettuali di Aaron Young, gli ambienti salini di Jorge Peris, i monocromi di Joao Louro, le creature misteriose di Gilberto Zorio, i giardini spirituali di Luca Trevisani e i pezzi storici di Alfredo Pirri.

FONTE: Laura Larcan (repubblica.it)

giovedì 27 maggio 2010

ISTITUTI REGINA ELENA E SAN GALLICANO: SCELTI I MIGLIORI 12 DIPINTI DEL CORSO DI PITTURA “UN COLORE AL GIORNO”


“La persona prima di tutto”: continuano le attività di umanizzazione degli Istituti



A conclusione del primo ciclo del laboratorio di pittura “Un colore al giorno” svoltosi presso l’Istituto Nazionale Tumori Regina Elena e l’Istituto Dermatologico San Gallicano di Roma, trenta dipinti, opportunamente selezionati, sono stati esposti oggi al pubblico presso l’atrio principale degli Istituti di ricerca.
Per celebrare il tanto inaspettato talento degli assistiti che hanno partecipato al corso di pittura, il Direttore Generale degli Istituti, Francesco Bevere, ha promosso la realizzazione di una mostra, resa possibile grazie al contributo della Unicredit Banca di Roma, interamente dedicata alla prima edizione del laboratorio “Un colore al giorno”.
Una giuria qualificata, composta da artisti, critici d’arte e docenti della R.U.F.A.- Libera Accademia di Belle Arti di Roma, ha indicato dodici tra queste opere che andranno a comporre il calendario 2011 degli Istituti Regina Elena e San Gallicano al fine di raccogliere fondi per finanziare e migliorare le attività di accoglienza e di umanizzazione.
La prima edizione del laboratorio di pittura “Un colore al giorno”, iniziata il 27 gennaio e terminata il 19 maggio, è nata dal riconoscimento dell’attività artistica come possibilità di sperimentare la propria creatività e di esprimere, attraverso un linguaggio non verbale, le proprie emozioni, stimolando la socializzazione e creando nuove possibilità di confronto, di contatto umano e di svago. L’iniziativa, che si è avvalsa anche del sostegno dei volontari e degli psicologi dell’Ente, ha dato vita ad oltre cento dipinti di straordinaria intensità che raccontano con il linguaggio del cuore le emozioni più intime dei singoli “artisti”. Gli autori dei dipinti sono ospiti dell’Istituto Nazionale Tumori Regina Elena e dell’Istituto San Gallicano che hanno partecipato, con grande coinvolgimento, all’iniziativa nata in collaborazione con R.U.F.A.

“La malattia oncologica provoca sicuramente uno sconvolgimento nella vita delle persone e spesso ne compromette il benessere psicologico” – spiega Francesco Bevere – “Per tale ragione, noi crediamo sia necessario prendersi cura di queste persone in modo globale. In tal senso gli Istituti Regina Elena e San Gallicano hanno promosso importanti iniziative di umanizzazione per i loro assistiti. La maggior parte delle attività, definite come “distrazionali” per il loro carattere di intrattenimento e di animazione, forniscono un’occasione di svago e di socializzazione, riconducendo le persone a momenti di normalità e di quotidianità. Lungi dall’essere un tentativo di negazione della sofferenza e della malattia, queste attività tendono a riconoscere e sostenere la parte sana di ogni persona che attraversa un momento particolarmente difficile della propria vita.”  Dal 27 gennaio scorso è stato attivato due volte a settimana un “laboratorio di disegno e pittura” – prosegue Bevere – “Ad oggi, in occasione di questo appuntamento, hanno partecipato oltre un centinaio di assistiti. L’iniziativa è riuscita a riscuotere pieno successo. A distanza di quasi tre mesi dall’attivazione del progetto e constatando i risultati ottenuti, ho ritenuto, d’intesa con la R.U.F.A., di premiare lo sforzo e la creatività dei nostri artisti in erba.”

“E’ per UniCredit un onore essere presente nelle manifestazioni che hanno un così forte impatto umano e sociale – dichiara Alessandro Cataldo Direttore Generale di UniCredit Banca di Roma – La degenza può essere allietata da momenti di intrattenimento che abbiano lo scopo di rendere più piacevole, per quanto possibile, la permanenza in ospedale. Un corso di pittura, con relativo concorso, sono delle occasioni per migliorare la qualità della vita in un contesto in cui la persona deve essere al centro. Quindi il supporto di UniCredit all’iniziativa “Un colore al giorno” è parte integrante della responsabilità  sociale di una banca che vuole essere presente sul territorio” .


 “Il colore” – come sapientemente racconta  Alfio Mongelli, Presidente della R.U.F.A. – “sprigiona energia, contribuisce a delineare forme, provoca stati d’animo, suggerisce immagini, sensibilmente ci avvolge, entrando attraverso l’occhio, nella nostra mente e nella profondità dell’anima. Disegnare, dipingere, produrre lavori artistici crea le condizioni per rendere protagonisti nelle scelte i pazienti ricoverati attraverso l’uso dei colori, l’espressione delle emozioni e dei desideri, spesso riconducibili ad una tinta, ad una luce colorata che può diventare segnale. Questo importantissimo duplice aspetto artistico-psicologico è stato da noi valutato e valorizzato anche durante il corso di pittura agli Istituti Regina Elena e San Gallicano di Roma: un’esperienza unica tra professori, giovani allievi della R.U.F.A. Libera Accademia di Belle Arti che dirigo, e gli ospiti. Un meraviglioso modo per imparare, divertirsi, dialogare e conoscersi, inoltrandosi artisticamente nell’imprevisto arcobaleno dell’esistenza, cercando di oltrepassare il buio della malattia, colorandolo con le sfumature che la vita offre”.

Visto il particolare interesse mostrato dagli ospiti degli Istituti, dopo l’estate avrà inizio la seconda edizione del laboratorio di pittura “Un colore al giorno”.

Fonte: Ufficio Stampa Istituto Nazionale Tumori Regina Elena - Istituto Dermatologico San Gallicano

Simona Barbato                                                                             
              

06 52662860                                                             

Viviana Di Salvo


06 52665219


Lorella Salce

Capo Ufficio Stampa
Istituto Nazionale Tumori Regina Elena
Istituto Dermatologico San Gallicano

domenica 23 maggio 2010

Presentazione del libro: "Il sacrificio del dovere. Quel giorno a Chilivani".



Si è tenuto oggi, presso la sala convegni del centro giovani di corso Europa del Comune di Assemini (CA), la presentazione del libro “Il sacrificio del dovere, quel giorno a Chilivani” redatto dal giornalista-scrittore Piero Antonio Cau. Oggetto della narrazione la strage avvenuta in Sardegna il 16 agosto 1995, giorno in cui trovarono la morte l’appuntato dei carabinieri Ciriaco Carru e Walter Frau, nel tentativo di scongiurare una rapina nella piana di Chilivani in provincia di Sassari. Sono intervenute come di consueto le autorità istituzionali. Moderatore il Professor Carlo Pillai, già Direttore dell’Archivio di Stato, l’Assessore alle politiche Sociali del Comune di Assemini Sergio Lecis e il Sindaco della cittadina l’onorevole Paolo Mereu che ha introdotto i lavori. Una folla numerosa ha seguito con interesse e commozione il dibattimento, stringendosi attorno al dolore delle famiglie dei caduti. L’autore Cau ha anticipato nel corso del suo intervento l’imminente stesura di una sceneggiatura che consentirà di commemorare degnamente la strage per mezzo di una fiction televisiva.

FONTE: Crabinieri d'Italia Magazine ( www.carabinieriditalia.it )

venerdì 21 maggio 2010

Il Sacrificio del Dovere – Quel Giorno a Chilivani

Verrà presentato domani il libro di Piero Antonio Cau

Domani, sabato 22 maggio 2010 ore 11.00, presso la sala convegni del centro giovani di corso europa del Comune di Assemini (CA) paese nativo dell’autore, si svolgerà la interessante manifestazione per la presentazione del libro “Il sacrificio del dovere, quel giorno a Chilivani” scritto da Piero Antonio Cau giornalista e scrittore. Trattasi della strage avvenuta in Sardegna il 16 agosto 1995 e vennero uccisi l’appuntato dei carabinieri Ciriaco Carru e Walter Frau durante lo svolgimento del proprio dovere, per scongiurare una rapina nella piana di Chilivani, - località in provincia di Sassari.  L’appuntato Ciriaco Carru e Walter Frau, decorati con Medaglia d’Oro al Valor Militare, sono testimoni esemplari delle gloriose tradizioni dell’Arma, alimentate dalle gesta di tanti eroi, sacrificatisi in pace ed in guerra, in servizio d’ordine pubblico o in battaglia, sempre per l’Italia e per la giustizia. Il libro è stato patrocinato dal Ministero della Difesa; Ministero dell’Interno; Presidenza della Regione Lazio; Provincia di Roma; Regione Autonoma della Sardegna. Saranno presenti qualificate ed autorevoli relatori, In rappresentanza la scuola media di Assemini tutta la cittadinanza invitata ufficialmente dal comune di Assemini, che con delibera ha promosso l’iniziativa per comunicare quei valori indelebili ai giovani studenti delle scuole medie. Tutta la giunta comunale è stata concorde a questa iniziativa, e ne ha coinvolto tutte le istituzioni compreso tutto il paese Assemini. Sono state invitate tutti gli organi di informazione. Il sindaco introdurrà i lavori come rappresentante dell’amministrazione Comunale.

FONTE: Carabinieri d'Italia Magazine

Al luna park dell'arte vince l'umorismo nero


Prima ancora di «Sensation», che nel ’95 alla Royal Academy di Londra decretò il successo della young British art, fu «Post Human» la mostra che cambiò per sempre lo sguardo sull’arte contemporanea, imponendo forme e soprattutto contenuti violenti, scioccanti, oltraggiosi. 
Finita la lunga stagione del concettuale, rinchiusa e protetta in una bolla di vetro, «Post Human» fa con l’arte ciò che Baudelaire fece con la poesia: raccoglie l’aura dal fango e la getta in pasto al mondo, alla gente. Arrivata in Italia al Castello di Rivoli nell’autunno ’92 e curata da Jeffrey Deitch, la mostra leggeva la fine del XX secolo come l’epocain cui l’uomo avrebbe potuto modificare il proprio aspetto, ricorrendo alla chirurgia estetica, e predeterminare i propri tratti genetici attraverso la manipolazione del Dna. Dalla pecora Dolly clonata in provetta allo sbianchettamento di Michael Jackson, dalle trasformazioni di Madonna ai più semplici lifting, liposuzioni di uomini e donne, sono argomenti sui quali scienza, filosofia e media riflettono e si scontrano da tempo. Per molti «Post Human» è uno scandalo. La cultura italiana affonda le proprie radici nel cattolicesimo, dunque nell’impossibilità da parte dell’uomo di mutare un atto creativo trascendente. Secondo Deitch, invece, la manipolazione dei caratteri ereditari sarà la chiave d’accesso al terzo millennio. C’è chi rimane affascinato dal connubio tra arte e tecnologia, chi invece ci vede un’apologia dell’idea di razza perfetta, scomodando pericolosi fantasmi di dittatura. 
La maggior parte delle opere esposte è di grande impatto, violente o comunque destinate a far discutere: molti si sentono urtati dai manichini dei fratelli Chapman, dove la clonazione è un esperimento fallito e i ragazzi del futuro si ritrovano con orifizi e organi genitali al posto della bocca o del naso; altri non sopportano le orge omosessuali di Charles Ray, gli accoppiamenti tra uomini e vegetali di Paul McCarthy; alcuni, invece, trovano quest’arte fonte di idee trasgressive e perfettamente in linea con la società del nostro tempo. Inutile dirlo, un clamoroso successo. Da «Post Human» in poi la linea prevalente dell’arte internazionale sarà quella dello choc: «Sensation», «Apocalypse», l’obitorio dell’americano Serrano che fotografa i morti veri, le esposizioni stupidamente blasfeme come la rana crocifissa di Kippenberger al Museion di Bolzano e i cavalli imbalsamati di Cattelan con la scritta «INRI». A distanza di quasi vent’anni è giusto interrogarsi se questa idea di arte mantenga ancora un valore autenticamente trasgressivo (e se ciò sia compito dell’arte) o se piuttosto, dopo l’11 settembre, il terrorismo internazionale, la violenza quotidiana, il dramma non si sia trasformato in farsa e il realismo in operetta. 
La risposta, comunque controversa, provano a darla due mostre aperte in contemporanea a Milano, nel cuore di Brera. La Fondazione Trussardi propone da ieri (fino al 4 luglio), nel ritrovato Palazzo Citterio finalmente aperto al pubblico, la personale del californiano Paul McCarthy, classe ’45, un tempo violento performer, ora autore di gigantesche sculture che esaltano escrementi, vomito, secrezioni varie in una visione umana quantomeno bestiale. Pig Island, l’opera clou della rassegna, è una sorta di zattera della Medusa in forma di relitto, giunta direttamente dall’inferno, che non lascia spazio ad alcun discorso consolatorio. Vi finiscono i media, l’intrattenimento, la politica, il sistema dell’arte, la globalizzazione aberrante con protagonisti l’ex presidente Usa George Bush che si intrattiene sessualmente con un maiale (certamente l’immagine più rivoltante dell’installazione), la regina Elisabetta, Topolino e Angelina Jolie. Secondo McCarthy la società dello spettacolo è quanto di male e disgustoso l’uomo possa produrre oggi.
FONTE: ilgiornale.it

martedì 18 maggio 2010

Metz, un fungo nel deserto sognando l'effetto Bilbao


Il nuovo Pompidou si apre con una maxi-mostra di 750 opere


Una città, una regione con le cicatrici della crisi economica, marginale, dimenticata dal dio Sviluppo? Un tempo, per risollevarla, i politici avrebbero ordinato di costruire una fabbrica. Oggi si installa un museo. E già: chi sfugge ormai agli adescamenti del modello Bilbao? 1997, la folle architettura di Franck Gehry, la magia del nome Guggenheim: funzionò. Duecentotrenta milioni di euro di incassi ogni anno per l’economia locale grazie all’arte. Da allora non c’è sindaco delle periferie del mondo, di luoghi in cui si vede bene che hanno attraversato tempi migliori, che non sogni di rinnovare quel miracolo. A parte, forse, la Tate Gallery traslocata nel porto di Liverpool (ma dopo anni di pene) nessuno ha mai avuto successo.  Prendete la Lorena. Nessuna regione francese ha più titoli per dire di essere derelitta: prima abbandonata dalle acciaierie, un cimitero degli altiforni spenti, ridotti a ruggine e aspri ricordi; poi persino dalle caserme, vuote ora che il nemico non è più accampato dall’altra parte del Reno e non c’è da temere il ritorno degli unni. E’ rimasto dunque come unica speranza il modello Bilbao, versione francese: la Buona Novella è il Centro Pompidou che trasloca a Metz con le sue immense riserve di capolavori. La sfida di smentire la verità tenace secondo cui in questo Paese l’arte non ha posto fuori dalla sua capitale. Ma un museo può davvero essere prima di tutto un investimento? Inquieta un poco, e stona, che prima di parlare di opere si parli a Metz di incassi, di flussi di visitatori potenziali, di collegamenti ferroviari e di bretelle stradali: dei settanta milioni di euro investiti nel costruirlo, versati dalle collettività locali, di destra e di sinistra una volta tanto unanimi nello sperare nel business artistico, di quanti visitatori saranno necessari ogni anno (si spera in 250 mila) per ammortizzare. Già si mormora, inquieti, che per coprire il budget di 10 milioni di euro bisognerà aumentare le tasse. Thierry Jean che presiede l’agenzia di sviluppo economico di Metz Métropole mette le mani avanti: «Il Centre Pompidou in sé non crea ricchezza, l’idea è di appoggiarsi su di lui per aumentare l’attrattiva della città, ma i frutti si raccoglieranno nella seconda metà del decennio». Bene. Ma chi saprà attendere? Per ora attorno alla costruzione, disegnata del team francogiapponese Shigeru Ban e Jean de Gastines, c’è soltanto il deserto. Nonostante qualche timida smentita ufficiale che parla di pratiche «in avanzato stato di valutazione» tutti i programmi immobiliari sono fermi nel quartiere dell’anfiteatro, venti ettari di cui il Centro Pompidou è la boa centrale. Il palazzo dei congressi che costa 60 milioni di euro sono solo fogli di carta, l’albergo di lusso non esiste, uffici, negozi, appartamenti, tutto è da costruire e soprattutto finanziare.  Ci si fa forza elencando i vantaggi geografici: un’ora e mezzo in Tgv da Parigi, al vertice di un grande bacino della Renania-Palatinato, Vallonia e Lussemburgo. È l’argomento su cui insiste il direttore, Laurent Le Bon, ex conservatore del Pompidou Parigi, inventore di eventi memorabili come l’esposizione sul dadaismo e lo scandalo di Jeff Koons a Versailles: «Ci sono milioni di abitanti di questa euroregione che possono venire rapidamente a Metz nella più grande superficie espositiva d’Europa». Turisti tedeschi, svizzeri e belgi, venite dunque a salvare questa vecchia città-guarnigione. Per ora i commercianti si preparano seguendo con scrupolo i corsi di lingue organizzati dalla camera di commercio mentre gli uffici di traduzione lavorano sui menu per i ristoranti. Si loda l’architettura sinuosa e candida dei 10 mila metri quadri di agorà artistica, inaugurati ieri da Sarkozy, ispirata a Shigeru Ban, maestro dell’arte povera, da un cappello cinese, la semplicità dei materiali, legno chiaro, vetro, metallo di colore bianco, la cupola coperta di teflon e capace di autopulirsi per evitare un antiestetico degradare verso il grigio. Stile, come si vede esplicitamente, ribelle rispetto alla casa madre parigina anche dal punto di vista estetico. Qualcuno, iconoclasta o semplicemente birichino, già la critica paragonandola a un buffo fungo. Metz è in anticipo anche in questo su Parigi, ci sono voluti 33 anni perché qualcuno osasse mormorare che il Beaubourg è orribile. Metz non avrà opere sue, nessuna acquisizione: solo esposizioni, da quattro a sei per anno, già quindici in programma fino al 2013. Il materiale lo fornirà Parigi, attingendo alle sessantamila opere che ha in deposito. Non c’è il rischio che Metz diventi un semplice fondo magazzino della sorella parigina? La prima mostra che apre oggi allude e polemizza: «Chefs d’oeuvre?» dove l’elemento essenziale è il punto interrogativo. Per ora è gigantismo puro: 780 opere, 5000 metri quadri, un invito a visitarla, vista l’enormità, a puntate. Accolti dal più celebre dei bronzi di Maillol, La Méditerranée, si affoga tra Picasso e Chagall, Giacometti e Dubuffet, Man Ray e Malevitch, ma anche in una copia della Gioconda e in un falso David: l’avventura comincia.

FONTE: Domenico Quirico (lastampa.it)

lunedì 17 maggio 2010

LUCI DELLA CITTA’
- ROMA IN CHIAROSCURO -

Arti pittoriche e fotografiche in esposizione


Pittori e fotografi si sono uniti per rappresentare le varie facce di Roma: un viaggio tra cielo e terra in una città millenaria con le sue ombre e le sue luci. Città multiculturale da sempre dove il tutto ed il nulla si uniscono e si fondono, dove il passato rivive nel quotidiano per proiettarsi nel futuro.
Città in chiaroscuro in grado come poche altre di comunicare con gli artisti. Questi la ascoltano, colgono lo stimolo ed a loro volta offrono le proprie sensazioni alla platea dei romani e non solo, ciascuno secondo il proprio stile. Questo atto, questa presa di coscienza è solo il principiare dell’ambizioso percorso. E’ nelle nostre intenzioni, nel portare l’arte al pubblico, dialogare con gli spettatori in una interazione continua. Infatti, durante il periodo espositivo, gli artisti a turno saranno presenti offrendosi ai visitatori per generare continui flussi comunicativi di andata e ritorno.
Ed è questo il vero scopo dell’evento: incontrarsi, discutere, parlare e far parlare.


STRUTTURA DELL’EVENTO

Ogni artista sarà presente con almeno tre opere. Ci troveremo, quindi, di fronte a tante micro-mostre che possiamo pensare come altrettante tessere di un unico puzzle. Il tema costituisce il collante che tiene insieme il tutto. La novità è costituita dal fatto che gli artisti si sono uniti – non è il primo e non vogliono che sia l’ultimo intervento – per dire la loro su un tema che si sono dati, in piena libertà e senza alcun vincolo di sorta. L’evento non ha alcuno scopo di lucro.

Artisti in erba sfidano i grandi La strana avanguardia di Gemine Muse


La settima edizione di una manifestazione che porta l'arte contemporanea "estrema" in spazi storici e di vita quotidiana. Ventidue città italiane coinvolte da un esercito di 120 artisti, a suon di installazioni, performance, ambienti sonori e videoarte


"Mi chiedo spesso che cosa farebbe oggi Caravaggio, se disponesse di una telecamera digitale. Allora vado in giro a guardare le opere del passato come se fossero arte contemporanea. So che non è corretto filologicamente, ma mi sembra un modo di liberare il passato da se stesso". Con queste parole, lo scrittore Tiziano Scarpa evoca il senso intimo della rassegna monumentale e ambiziosissima "Gemine Muse" che torna alla sua settima edizione dal 15 maggio, in piena Notte dei Musei, al 18 luglio proponendo un lungo, bizzarro, avventuroso e inaspettato viaggio attraverso ventidue città italiane più o meno distanti tra loro, i cui punti storici nevralgici vengono riletti e, a volte anche trasfigurati, da una carovana di centoventi giovani artisti contemporanei, coordinati da trenta curatori, per mettere a segno una mappatura inedita di installazioni, ambienti sonori, performance e videoarte concepiti ad hoc per strutture e spazi urbani che fanno parte della storia ma anche della quotidianità. 


Un modo nuovo e insolito di scoprire l'Italia con un progetto che rientra nell'Italia creativa a cura del dipartimento della Gioventù della presidenza del Consiglio dei Ministri, in collaborazione con l'Associazione nazionale Comuni italiani e l'Associazione per il circuito dei Giovani artisti italiani. Come dice Luigi Ratclif, segretario del Gai, Gemine Muse è davvero "un invito al viaggio, un suggerimento a compiere tragitti emozionali e a fruire luoghi storico-geografici in tutta Italia nell'ottica di una mappa che collega epoche, sensibilità, autori diversi". A voler fare una (im)possibile sintesi, come suggerisce Ratclif, la trama dell'arte naviga da nord a sud. 

A Torino, il raffinato Museo d'Arte Orientale si lascia riscrivere dai "Guardiani del tempo", i lavori di tre promesse selezionate da Maria Teresa Roberto. A Biella, complice Pistoletto, Palazzo Ferrero fresco di restauro, accoglie le opere frutto del progetto di incontri e laboratori sul tema "La macchina nella storia e nel futuro" per cinque artisti presso Cittadellarte Fondazione Pistoletto. A Novara, la Biblioteca Civica "Carlo Negroni", propone Bilderatlas, le ricerche di due artiste ispirate ad un atlante figurativo. A Pavia i Musei Civici offrono un'immersione in storie, alfabeti, linguaggi attraverso gli interventi d'arte di quattro creativi. 

Il Fai apre la storica Villa Necchi Campiglio di Milano alla collettiva Low Déco di cinque talenti presentati da Alessandro Rabottini. Cremona svelerà il suo centro storico diffuso attraverso le storie sulla pubblica piazza suddivise in quattro sezioni artistiche (arti visive, fumetto, musica, scrittura) dal titolo "Ti vengo incontro" coinvolgendo sette autori, cinque curatori e un giovane storico. Se a Trento, una serie di negozi del centro storico e un nucleo centrale presso la sede di UpLoad Art Project restituiranno le tappe del progetto espositivo Figure ipotetiche, a Padova, saranno le vetrine dei negozi di Borgo a sfoggiare un ideale itinerario con le installazioni di sette giovani artisti. A Ferrara, la Biblioteca Comunale Ariostea sfoggerà i Volumi contemporanei di due artisti visivi e una scrittrice e a Forlì parte la kermesse giovanilistica e hi-tech Videodrome tra una rassegna di videoarte di giovani ma già affermati artisti, e un concorso per opere video realizzate col cellulare rivolto a liceali e universitari. 

A Bologna c'è Vincoli, cinque interventi site-specific all'interno del Palazzo dell'Archiginnasio. A Modena tre interventi trasformano il Museo Civico Archeologico nel "Sesto continente". A Genova il Museo Luzzati diventa il palcoscenico ideale per la fiaba Mediettarnea "Il mare non ha paese nemmeno lui", con opere sonore di cinque artisti. Al Museo del Tessuto di Prato sfilano le "Trame d'arte / Identità e inganni" di tre giovani artiste. Ad Ancona, la Pinacoteca Comunale accoglie il progetto De Rerum Natura con due artisti, mentre la Pinacoteca Civica di Teramo diventa lo scenario fiabesco shakespeariano di Sogno di una notte di mezz'estate grazie ad una video-perfomance. 

A Roma, il Caffè Letterario delle Biblioteche di Roma, diciotto artisti interpreteranno il tema dell'eroe attraverso interventi di pittura, scultura, fumetto, audiovisivi. A Campobasso, nel Museo Provinciale Sannitico due artisti raccontano le loro Illusioni. Palazzo Mincuzzi di Bari, sede di una catena di abbigliamento, diventa scenario di Shops and the City, expo di contaminazioni creative. A Messina, otto interventi multidisciplinari trasfigurano il Forte San Salvatore. Se a Catania il Castello Ursino riserva tre istallazioni dedicate alle grandi isole del Mediterraneo, a Cagliari i tre piani del Palazzo di Città sono invasi da dieci giovani artisti più un collettivo torinese ispirandosi alla storia del luogo.

FONTE: repubblica.it

domenica 16 maggio 2010

Gli alti e bassi di Renoir

Salgono Monet, Giacometti, Calder e Basquiat; scendono Van Dongen, Bonnard, Munch 
e Hirst



Dopo la crisi dell’anno scorso, il mercato dell’arte si sta riprendendo e i prezzi iniziano di nuovo a salire: a New York le vendite dell’ultima settimana hanno quasi triplicato il totale del 2009. Eppure qualcosa è cambiato. Il Wall Street Journal spiega che il quadro è stato trasformato dalla recessione e che decine di artisti di grosso calibro sono stati prima sparati in alto e poi abbandonati ai margini del campo.
Solo Picasso e Andy Warhol restano indifferenti all’andamento del mercato, e i loro pezzi continuano a essere venduti a cifre due o tre volte superiori al loro più alto valore stimato: la settimana scorsa Sotheby’s ha battuto un Picasso per 106 milioni di dollari.
Da Sotheby’s hanno giustificato l’episodio dicendo che il prezzo per ogni artista dipende molto dalla contingenze legate alla disponibilità dei pezzi, “è molto raro che un collezionista metta in vendita un quadro così importante come ‘Nudo, Foglie Verdi, e Busto’ di Picasso”. Ma anche la situazione economica gioca un ruolo decisivo. David Nahmad, collezionista con gallerie a New York e Londra, dice che prima della crisi gli appassionati compravano di tutto, ora sono molto più selettivi.
Salgono Renoir, Monet e Dali, nomi che fino a pochi anni fa erano considerati démodé nei circoli artistici. Ora invece pare che i collezionisti, con in testa i nuovi ricchi compratori asiatici, tendano a gravitare sempre di più intorno agli impressionisti europei, carini e accessibili. E infatti la Gagosian Gallery a New York ha subito organizzato una mostra sull’ultimo periodo di Monet, cosa che sarebbe stata molto improbabile fino a pochi anni fa.
Il Wall Street Journal fa la classifica di chi sale e chi scende:
SU
Pierre-Auguste Renoir
I ritratti delicati di donne dell’epoca vittoriana con bambini sono tra i preferiti dei collezionisti asiatici, che stanno scoprendo gli impressionisti e preferiscono Renoir a Monet perché costa meno.
Claude Monet
Pare che il maestro dell’impressionismo venda meglio all’inizio di un nuovo ciclo di aste, quando i collezionisti preferiscono andare sul sicuro e puntare sui classici. E ora con la mostra della Gagosian Gallery i suoi quadri a partire dal 1905 sembrano destinati a salire.
Alberto Giacometti
Un tempo preferito solo dai collezionisti europei, sta salendo grazie ai rilanci dei collezionisti russi e americani. Il 4 maggio Christie’s ha venduto il busto del fratello di Giacometti per 53 milioni di dollari, ben sopra la sua stima più alta di 35 milioni.
Alexander Calder
Le sue sculture cinetice hanno resistito alla recessione e ora si stanno impennando. Mercoledì un suo pezzo è stato battuto da Sotheby’s per 5 milioni di dollari. I collezionisti americani dicono che il valore della sua opera era stato sottovalutato troppo a lungo.
Jasper Johns
Anche i pezzi del pioniere dell’arte pop stanno salendo: una delle sue bandiere è stata venduta a New York per 28 milioni di dollari, 15 milioni sopra la stima più alta.
Jean-Michel Basquiat
Dopo aver raggiunto i 14 milioni di dollari per un pezzo nel 2007, i collezionisti avevano iniziato a vedere crollare le sue quotazioni. Ora stanno di nuovo salendo e martedì Christie’s ha venduto un suo quadro del 1982 per quasi 5 milioni di dollari, contro i tre milioni e mezzo chiesti. E il dipinto con un sassofonista del 1983 ha scatenato una battaglia di rilanci mercoledi da Sotheby’s, e alla fine è stato venduto per 7 milioni di dollari contro i sei previsti.
GIÙ
Kees Van Dongen
L’anno scorso Sotheby’s aveva venduto un ritratto del maestro olandese del fauvismo per quasi 14 milioni di dollari. I collezionisti russi sembravano impazzire per i suoi ritratti femminili, ma poi hanno iniziato a preferirgli la connazionle Natalia Goncharova e gli americani non sono arrivati a colmare il vuoto.  La scorsa settimana sette suoi quadri sono stati ritirati dall’asta di Sotheby’s.
Pierre Bonnard
Tra il 2005 e il 2006 ventitre quadri di Bonnard furono tutti venduti al di sopra delle loro stime. Ma a partire dallo scorso autunno i suoi quadri sono andati sempre più spesso invenduti a tutte le maggiori aste.
Edward Munch
Sembra che i collezionisti non amino molti i quadri di Munch se non hanno a che fare con urla e disperazione: dal 2008, tutti i maggiori quadri di Munch che ritraggono scene felici sono andati o invenduti o venduti a cifre molto più basse del previsto.
Damien Hirst
Dopo aver venduto un pezzo per più di 200 milioni di dollari in un’asta a Londra, le vendite per l’artista inglese si sono improvvisamente fermate. In quest’ultimo giro di aste c’era solo un suo pezzo da Sotheby’s e Christie’s ed è stato venduto per 782.000 dollari, ma due anni fa altri pezzi simili erano arrivati fino a quattro milioni. Gli esperti dicono che la sua assenza temporanea finirà solo col far schizzare di nuovo verso l’alto le sue quotazioni nel momento in cui presenterà qualche pezzo più raro.
Richard Prince
Nel 2008 i suoi pezzi furono venduti complessivamente a 68 milioni di dollari ma da allora hanno iniziato solo a scendere. L’anno scorso il totale raccolto dalle sue vendite in asta è calato di quasi 12 milioni di dollari: i collezionisti non se la sentono di investire su un artista che potrebbe non vendere.
FONTE: ilpost.it

sabato 15 maggio 2010

Da Jacopo della Quercia a Donatello. Full-immersion nel Quattrocento senese


La più vasta presentazione di pittori e scultori senesi. Fra le nostalgie trecentesche, il gotico internazionale di Gentile da Fabriano e le innovazioni di Jacopo della Quercia, Lorenzo Ghiberti e soprattutto Donatello col quale irrompe il Rinascimento. L'impressionante "San Giovanni Battista" che precorre la bronzistica moderna fra Ottocento e Novecento. L'eccezionale presenza di un profeta restaurato della "Porta del Paradiso"


Più che una mostra è una "full immersion" nelle arti e negli artisti di Siena, dal primo Quattrocento con Jacopo della Quercia al 1461, ultimo soggiorno di Donatello, determinante "nell'innesco della reazione a catena destinata a condurre Siena sulla via del Rinascimento". Arti al plurale perché le 300 fra opere e oggetti, un numero che fa paura, sono espressione dei generi più vari. In grande maggioranza dipinti su tavola, polittici monumentali e  altaroli, copertine di Biccherne; affreschi su muri; sculture in marmo e bronzo, statue e pietre tombali, legno policromo; bronzetti; disegni; codici miniati e manoscritti; oreficerie e reliquari; tessuti e paramenti liturgici, paliotti. Cofani e cofanetti nuziali. Una scelta in cui traspare il gusto dell'entomologo. Un vantaggio è dato dal numero delle sedi della mostra (aperta fino all'11 luglio), che permette intervalli nella visita e di prendere le opere per dosi. Tutte sedi in poche centinaia di passi. L'antico ospedale di Santa Maria della Scala, la sede principale della mostra e quella che nel Pellegrinaio presenta un ciclo a fresco unico nella pittura italiana del Quattrocento degno della fama europea dell'ospedale, portato a termine entro il 1444 da due dei protagonisti  del "primo Rinascimento" a Siena, il Vecchietta (Lorenzo di Pietro) e Domenico di Pietro. Di fronte al Santa Maria il Duomo (al quale erano destinate diverse opere esposte al Santa Maria), e lungo il Duomo il Battistero (dove avviene l'incontro-scontro fra tradizione tardogotica e modernità che sa di Rinascimento, fra Lorenzo Ghiberti, Jacopo della Quercia, Donatello). Tutta Siena si è mobilitata per la mostra. L'eccezionale costo, tre milioni e mezzo di euro compresi 25 restauri (di cui circa 700 mila euro per la "promozione"), ha reso ancora più necessario l'apporto della Fondazione Monte dei paschi.

FONTE: Goffredo Silvestri (repubblica.it)

venerdì 14 maggio 2010

Le ultime sette parole di Cristo



Minestra di fede per cialtrone e strumenti antichi

uno spettacolo di  Giovanni Scifoni

cialtrone                                      santur, liuto, chitarra, percussioni             nichelarpa, viella, ribeca
Giovanni Scifoni                           Maurizio Picchiò                          Stefano Carloncelli

BIBLIOTECA ENNIO FLAIANO  VENERDI’ 14 MAGGIO ORE 20,00
VIA MONTE RUGGERO 39
ROMA MONTE SACRO

 

Fede purissima, ateismo purissimo, superstizione purissima sono al centro di Le ultime sette parole di Cristo, l’appassionato e brillante monologo in cui un “cialtrone”, Giovanni Scifoni, attraversa con ironia i temi e i personaggi della spiritualità, scanditi dalle sette frasi evangeliche, che per sette volte sospendono il tempo e l’aria. Il cialtrone non si ferma mai, inondando lo spettatore di storie, leggende, baggianate, fregnacce, incalzandolo con parole di cui sembra essersi perso il senso: peccato, misericordia, buona morte… concetti alla base della ricerca spirituale che si trasformano in teatro ed azione. Dalle infuocate prediche del canonico Rinaldo Deggiovanni a Beda il venerabile, dai Padri del deserto, pazzi e morti di fame, a Dismas il buon ladrone, fino a Dostoevskij e Bergman, lo spettacolo – in scena nella Cappella Orsini dal 29 al 31 gennaio e dal 5 all’8 febbraio – riesce ad raccontare la grande mistica con leggerezza, in un inarrestabile crescendo che cattura lo spettatore, al di là delle convinzioni personali, innescando la riflessione sulla nostra esistenza e sulla “gloria umana”.
Anticamente, durante la liturgia del venerdì santo, le vetrate della cattedrale di Cadice venivano oscurate creando il buio, l’eclissi, come narrato nel Vangelo. Il vescovo saliva all’ambone e proclamava una delle ultime frasi pronunciate da Gesù prima di morire, poi si prostrava davanti al crocifisso e i fedeli meditavano con lui, qualcuno suonava uno strumento. E così sette volte. Col tempo la Chiesa ha perso quest’usanza, che torna a vivere in palcoscenico, dove due musicisti, Maurizio Picchiò e Stefano Carloncelli, evocano le antiche sonorità della tradizione cristiana e un uomo magro e barbuto, il cialtrone, si agita forsennato per lo spazio, prendendo spunto dalla liturgia quaresimale per investigare l’anima umana e il silenzio di Dio.
Mio padre, Pino e Beatrice, Luciano, Fabio, il barbone logorroico di Narni, tante persone ho incontrato che non potevano fare a meno di parlare di Dio, gli scappava: appassionati, ossessionati, innamorati, esausti, nevrotizzati, felici. Tante ore, notti, ad ascoltare la loro versione delle cose: che faccia ha Dio, come si comporta, che tipo è, Dio.
Dio nessuno l’ha mai visto.

Scrivo questa piece nel maggio scorso su richiesta dell’orchestra Roma-tre, per il concerto di fine stagione al teatro Palladium di Roma. L’orchestra deve eseguire  “Le ultime sette parole di Cristo” di F. J.Haydn, in occasione dell’anno commemorativo del compositore austriaco. Io scrivo il mio monologo raccontando storie e personaggi tratti dalla vita, gli incontri casuali, e soprattutto dal materiale che raccolgo da anni nel mio lavoro di ricerca, tra i testi sacri, gli scritti apocrifi, gli antichi sermoni sulle ultime sette parole di Cristo, i detti e fatti dei padri del deserto, la mistica medievale, le tradizioni, gli autori moderni. Dopo l’esperienza concertistica decido dare al lavoro una forma diversa, rinuncio all’orchestra e alla struttura “a concerto” per collaborare con il Mo Maurizio Picchiò e il Mo Stefano Carloncelli. L’evocazione sonora e timbrica del medioevo ha il potere immediato di far apparire quel gran carnevale di santi, di idioti, di cialtroni che ronzano nello spettacolo.                                                                                                          
Giovanni Scifoni

 

 

 

 

 

Biglietto 7€ - Info e prenotazioni: 06.83395292 - 347.6227328


Ufficio stampa
Marina Saraceno - cell 349.3602434 mail marinasaraceno@gmail.com
Esa Ugazzi Bruno – cell. 334.6284039

giovedì 13 maggio 2010

A Torino: assaggi di fotografia di architettura



INGREDIENTI:
Prendere gli allievi di una scuola di fotografia, spargerli per Torino in compagnia di un fotografo di architettura,selezionare la miriade di scatti insieme ad un docente di educazione all'immagine e confezionare il prodotto sottovuoto.
Il tutto va servito a temperatura ambiente nei locali di Res Nova LA SCUOLA phlibero 
IL FOTOGRAFO MarianoDallago 
I PARTECIPANTI:
ClaudioBaldino AndreaBertone PaoloBianco StefaniaBoari GraziellaBrusa DonatellaCalvi ElenaCasalegno MartaCattaneo AndreaCiprelli StefanoCreti DanieleCuccotti AlessandroD'Adda RobertaDotto GiorgioDua ClaudiaFarinelli TeaGiordana VivianaGrana SilviaMaoli AndreaMartinetto SimoneMartino RobertaMolicaColella RaffaellaMontagna BarbaraMoretti GianlucaPedrazzani MaurizioPiseddu EugeniaSorba GiorgioTozzi 
da RES NOVA in via Accademia Albertina 10 a Torino dalle ore 18,30 del 14 Maggio al 12 Giugno.
VERNISSAGE: il 14 maggio dalle 18,30 
ASSAGGI DI FOTOGRAFIA D'ARCHITETTURA è il gustoso risultato di una semplice ricetta che vede coinvolti i partecipanti a diversi corsi di fotografia d'architettura tenuti da phlibero dal fotografo Mariano Dallago. Gli ingredienti sono stati accuratamente selezionati da un team di intenditori composto da Mariano Dallago fotografo e docente di fotografia d'architettura, Roberto Sorba di Res Nova, Maria Barletta e Uma Franchini di phlibero. Delle 247 immagini pervenute solo 66 hanno passato il loro rigoroso controllo qualità e ricevuto l'appellativo DOCG, requisito fondamentale per venire esposte. Ovvia e imprescindibile condizione per ottenere la denominazione è l'appartenenza alle aree geografiche interessate: Torino spina 1, spina 2, spina 3, Lingotto e Villaggio Olimpico. La Biodiversità degli ingredienti è garantita dai loro 28 produttori che seguendo ognuno il proprio stile ed estro creativo hanno reso uniche le specie in questione talvolta rifacendosi alla tradizione e talvolta generando nuove varietà. Risultato: un tripudio di colori, forme, emozioni che appagheranno anche i gusti più difficili. I 66 ingredienti sono stati successivamente elaborati nella scuola di alta cucina, phlibero, da Beppe Molinar, docente di fotoritocco, e confezionati sottovuoto da Multimmagine per esaltarne e preservarne la qualità. Phlibero è un fucina creativa dove vengono tramandate, da professionisti della fotografia, del fotoritocco e della stampa altamente qualificati, sia le ricette tradizionali dove tutto è ancora manuale sia quelle innovative dove non viene disdegnato l'uso di ingredienti digitalmente modificati pur mantenendo le qualità organolettiche delle immagini. Assaggi di fotografia d'architettura verranno serviti, rigorosamente a temperatura ambiente, nelle innumerevoli sale da pranzo di Res Nova dal 14 maggio al 12 giugno 2010. In mostra anche l’ultimo lavoro di Mariano Dallago: SNAP SHOT! La visione della realtà e la sua decodifica in termini fotografici hanno trovato negli ultimi anni, grazie all’evoluzione dei sistemi digitali (sia di ripresa che di elaborazione), delle nuove e ancora sconosciute forme di interpretazione e riproduzione. Nuove possibilità stilististiche dunque, e se vogliamo, di sintassi linguistica della fotografia. La possibilità di eseguire “montaggi” di immagini sempre più perfetti mi ha suggerito anche la possibilità di “sfruttare” il tempo fotografico che intercorre tra uno scatto e l’altro, e cercare di mettere in evidenza il susseguirsi di fatti che accadono all’interno della scena scelta come teatro dell’immagine. I “fatti” (persone, auto, pulman, etc.) che accadono in una piazza per esempio, si intersecano fra di loro, si fondono gli uni con gli altri all’interno di un paesaggio architettonico che diventa “contenitore”, teatro”, spettatore”, di un concetto di caos, (una sorta di “caos calmo”). Quasi un’inversione di ruoli dunque, e non necessariamente (o non solo), immagini di un’architettura urbana. Le riprese fotografiche (dalle 70 alle 120 immagini), che vanno a confluire in un’unica immagine finale, scattate a distanza di tempo fra l’una e l’altra, (sia esso una frazione di secondo o qualche minuto se non decine di minuti), si intersecano fra loro creando una sorta di “movimento" nel tempo e nello spazio. Un caos di umanità in contrapposizione alla calma degli elementi architettonici e di arredo urbano. Le immagini scelte come esempio della ricerca, sono luoghi noti della realtà torinese, volutamente luoghi riconoscibili, all’interno dei quali si svolge la vita quotidiana della città. Credo che questa riconoscibilità del luogo dia a una sorta di “documentarismo” alla fotografia e quindi ne consenta una lettura, se vogliamo, meno spettacolare. Pertanto, la lettura si sposta da questa prima percezione più “pacata” ad una diversa percezione di “svolgimento” dei fatti in quello spazio. Mariano Dallago Per info: phlibero – 011 19505351 – info@phlibero.it – www.phlibero.it