Prima ancora di «Sensation», che nel ’95 alla Royal Academy di Londra decretò il successo della young British art, fu «Post Human» la mostra che cambiò per sempre lo sguardo sull’arte contemporanea, imponendo forme e soprattutto contenuti violenti, scioccanti, oltraggiosi.
Finita la lunga stagione del concettuale, rinchiusa e protetta in una bolla di vetro, «Post Human» fa con l’arte ciò che Baudelaire fece con la poesia: raccoglie l’aura dal fango e la getta in pasto al mondo, alla gente. Arrivata in Italia al Castello di Rivoli nell’autunno ’92 e curata da Jeffrey Deitch, la mostra leggeva la fine del XX secolo come l’epocain cui l’uomo avrebbe potuto modificare il proprio aspetto, ricorrendo alla chirurgia estetica, e predeterminare i propri tratti genetici attraverso la manipolazione del Dna. Dalla pecora Dolly clonata in provetta allo sbianchettamento di Michael Jackson, dalle trasformazioni di Madonna ai più semplici lifting, liposuzioni di uomini e donne, sono argomenti sui quali scienza, filosofia e media riflettono e si scontrano da tempo. Per molti «Post Human» è uno scandalo. La cultura italiana affonda le proprie radici nel cattolicesimo, dunque nell’impossibilità da parte dell’uomo di mutare un atto creativo trascendente. Secondo Deitch, invece, la manipolazione dei caratteri ereditari sarà la chiave d’accesso al terzo millennio. C’è chi rimane affascinato dal connubio tra arte e tecnologia, chi invece ci vede un’apologia dell’idea di razza perfetta, scomodando pericolosi fantasmi di dittatura.
La maggior parte delle opere esposte è di grande impatto, violente o comunque destinate a far discutere: molti si sentono urtati dai manichini dei fratelli Chapman, dove la clonazione è un esperimento fallito e i ragazzi del futuro si ritrovano con orifizi e organi genitali al posto della bocca o del naso; altri non sopportano le orge omosessuali di Charles Ray, gli accoppiamenti tra uomini e vegetali di Paul McCarthy; alcuni, invece, trovano quest’arte fonte di idee trasgressive e perfettamente in linea con la società del nostro tempo. Inutile dirlo, un clamoroso successo. Da «Post Human» in poi la linea prevalente dell’arte internazionale sarà quella dello choc: «Sensation», «Apocalypse», l’obitorio dell’americano Serrano che fotografa i morti veri, le esposizioni stupidamente blasfeme come la rana crocifissa di Kippenberger al Museion di Bolzano e i cavalli imbalsamati di Cattelan con la scritta «INRI». A distanza di quasi vent’anni è giusto interrogarsi se questa idea di arte mantenga ancora un valore autenticamente trasgressivo (e se ciò sia compito dell’arte) o se piuttosto, dopo l’11 settembre, il terrorismo internazionale, la violenza quotidiana, il dramma non si sia trasformato in farsa e il realismo in operetta.
La risposta, comunque controversa, provano a darla due mostre aperte in contemporanea a Milano, nel cuore di Brera. La Fondazione Trussardi propone da ieri (fino al 4 luglio), nel ritrovato Palazzo Citterio finalmente aperto al pubblico, la personale del californiano Paul McCarthy, classe ’45, un tempo violento performer, ora autore di gigantesche sculture che esaltano escrementi, vomito, secrezioni varie in una visione umana quantomeno bestiale. Pig Island, l’opera clou della rassegna, è una sorta di zattera della Medusa in forma di relitto, giunta direttamente dall’inferno, che non lascia spazio ad alcun discorso consolatorio. Vi finiscono i media, l’intrattenimento, la politica, il sistema dell’arte, la globalizzazione aberrante con protagonisti l’ex presidente Usa George Bush che si intrattiene sessualmente con un maiale (certamente l’immagine più rivoltante dell’installazione), la regina Elisabetta, Topolino e Angelina Jolie. Secondo McCarthy la società dello spettacolo è quanto di male e disgustoso l’uomo possa produrre oggi.
FONTE: ilgiornale.it
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