Evento per il maestro olandese che non dipingeva per le chiese
Da giovedì al 20 gennaio, Vermeer arriva a Roma con otto quadri: un numero mai visto in Italia, e una sola volta al mondo; alle Scuderie del Quirinale le prenotazioni sono già una marea. Per due secoli, fino a metà Ottocento, era stato dimenticato: nemmeno menzionato già a tre anni dalla morte, poi solo poche citazioni e Joshua Reynolds che ne elogia un quadro in un diario di viaggio; lo riscopriranno un critico francese e Marcel Proust; di lui, si sa pochissimo: e anche questo ha permesso che a inizio Novecento, fosse vittima di una falsificazione tra le più imponenti, poi scoperta (per fortuna) negli anni 50; forse, non si è mai mosso dalla sua patria: viveva a Delft, cittadina di solo 22 mila anime e tanti ponti quanti i giorni dell’anno, eppure (sarà il caso o che altro?) ricchissima di 52 pittori.
Giunge a Roma uno degli artisti più misteriosi e preziosi (un catalogo di 35 opere, era molto meditativo e lento), morto ad appena 43 anni, divenuto tra i più osannati ed ambiti: Johannes o Jan Vermeer (1632-75). Otto suoi autentici capolavori faranno compagnia ad altri 49 dipinti coevi, anch’essi del secolo d’oro della pittura olandese, la metà del Seicento: tempi di straordinaria floridezza, economica e non soltanto, una generazione dopo Rembrandt e due dopo Rubens.
Classe media, padre tessitore, mercante di quadri e dopo locandiere; come tutti gli olandesi, a differenza del resto d’Europa, rare occasioni di commissioni pubbliche, e poche possibilità di un posto fisso. Tanti quadri da cavalletto: dimensioni e prezzo ridotti; proposti alle fiere, venduti dagli ambulanti, sorteggiati come premi, o battuti in asta. Vermeer non se la passava bene: in tremende ristrettezze, lottava perfino per nutrire e vestire i figli. Alla morte, due dipinti importanti erano ancora in casa: L’atelier del pittore (oggi al Kunsthistorisches di Vienna), e La veduta di Delft (oggi ad Oslo), che la vedova cede alla madre per salvarla dai creditori, ma senza esito: con altri 25 suoi quadri va all’asta e non sappiamo né quali fossero, né chi li abbia allora acquistati.
Come non sapremo mai quanto egli conoscesse dell’arte italiana: da alcune sue opere, sembra parecchio. Ci sarà anche un quadro di Felice Ficherelli che certamente l’ha ispirato per Santa Prassede; certo, respira un po’ di Caravaggismo: corrente artistica tra le più sviluppate in Olanda, presto importata anche da Hendrick ter Bruggen, a Roma dal 1604 al ’14. La suocera di Vermeer, da cui stava con la famiglia, possedeva un quadro di Dirck Baburen: appare in due sue opere; e nel Seicento, tanti olandesi cercano fortuna a Roma: vivevano già a via Margutta e al Babuino. Forse, è la base di una autentica rivoluzione, nella raffigurazione prospettica e spaziale. Maestro gli è probabilmente Carel Fabritius (1622-54), il più originale discepolo di Rembrandt, giunto a Delft per eseguire pitture murali per Guglielmo II giovane nel 1650, morto presto per la devastante esplosione nel deposito di polvere da sparo del 1654: un dipinto di Egbert van der Poel, in mostra, la descrive; altri invece raccontano Delft come era.
Non dipinge per le chiese o i palazzi dei nobili: le intime scene di interni, i dialoghi serrati tra le figure, le rappresentazioni dei sentimenti, la luce che filtra dalle vetrate, le raffigurazioni della vita quotidiana della società borghese d’allora, sono per gli artigiani e il ceto medio: un suo collezionista era un ricco fornaio. Era in contatto con un mercante di Amsterdam, e suoi quadri finiscono pure all’Aja e ad Anversa; alcuni facoltosi si recano apposta a Delft, per ammirare (comprare?) quanto ha dipinto e realizzato, quanto ha pensato e inventato.
Dall’inventario post mortem, ne conosciamo la casa, comune denominatore delle sue opere: due locali per la suocera; un seminterrato; un piano dove si soggiornava e cucinava (due stanze e due cucine); un altro piano con due camere, e una era il suo studio. Walter Liedtke del Metropolitan, che con Sandrina Bandera, la direttrice di Brera, e Arthur Wheelock (National di Washington) ha curato la mostra, dice: curioso pensare che il pittore di interni accoglienti e talora, almeno per gli standard olandesi, sontuosi (i pavimenti in marmo, ad esempio), dove vi sono oggetti rari, preziosi, strumenti musicali, tappeti turchi o persiani, brocche d’argento dorato e personaggi distinti, assai ben vestiti, non abbia mai avuto una casa tutta sua, né probabilmente posseduto nulla di più costoso che un dipinto minore di un altro artista.
Tra i quadri che vedremo a Roma, La stradina, un’immagine della sua Delft che è un suo raro esterno: per l’artista tedesco Max Lieberman, «il più bel quadro da cavalletto che esista», la cui tavolozza impressiona parecchio Van Gogh; per Longhi, erano nature morte di città. E’ ad Amsterdam, al Rijksmuseum. Mentre dalla National di Washington arriva La ragazza con il cappellino rosso, le cui piume invadono di splendore l’opera (Giuseppe Ungaretti), tra le sue poche firmate e datate: per Malraux, la sua prima figlia. Ci sono due Giovani donne con il virginale, una con un bicchiere di vino, e una con il liuto; la Santa Prassede e l’Allegoria della fede, con tele di artisti poco noti in Italia, però fondamentali non solo nel periodo: come Gerard ter Borch, Gerrit Dou (spesso, era scambiato per Rembrandt), Carel Fabritius, de Hooch, van der Heyden, van Loo, Maes, Metsu. Alcuni capolavori di Vermeer non si possono prestare: La fanciulla con l’orecchino di perle, La lettera, il Concerto della Frick di New York; ma guardando questi dipinti, si ha la sensazione di vivere quella città e quel mondo. Saranno l’unica, inevitabile mancanza di una mostra che, per Roma, promette d’essere certamente un altro evento da ricordare.
FONTE: ilmessaggero.it
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