martedì 27 settembre 2011

Il genio dell'artista "esplosivo" A Reggio Emilia c'è Shimamoto


Palazzo Magnani celebra l'originale performer giapponese, con la prima antologica italiana. Il fondatore del Gruppo Gutai dipinge sparando colore con cannoni o scaraventando bottiglie sulla tela. E a 83 anni inaugura l'evento lanciando colore da una gru


REGGIO EMILIA - "Quando affermo che l'arte è stupire, la gente resta sorpresa. C'è la tendenza a pensare all'arte come un qualcosa di esteticamente bello, frutto di un lavoro delicato, ma questo è piuttosto quel che direi del mondo dell'artigianato. L'arte, oppure il gesto artistico, consistono al contrario nello stupire lo spettatore. Ovviamente stupire non significa sorprendere con gesti inconsulti e chiassosi". E infatti, nonostante le opere realizzate col "bottle crash", cioè facendo deflagrare sulla tela bottiglie piene di colore, in Shozo Shimamoto non c'è niente di inconsulto e chiassoso. Nel portentoso maestro giapponese, pioniere rivoluzionario di una sperimentazione artistica portata avanti dal Gruppo Gutai, che negli anni '50 del Novecento traduceva nel Sol Levante le ricerche informali di matrice europea, c'è la quintessenza di una creatività libera e inventiva, mai casuale o improvvisata. 

Niente di strano nel bombardare col colore una tela o un oggetto a suon di acrobazie, quando in contemporanea un genio come Jackson Pollock coreografava le sue danze da jem session intorno alla tela stesa a terra col suo "dripping", lo sgocciolamento del colore. La pittura sfoggia un Dna diverso, dove nuovi cromosomi le conferiscono una natura "performante" e materiale. Non a caso Gutai significa

"concretezza", termine che vuole opporsi all'astrazione, intesa come approccio mentale all'opera. Lo racconta in modo impeccabile, anche con un pizzico di divertimento, la bella mostra "Shozo Shimamoto. Opere 1950-2011. Oriente e Occidente", dal 25 settembre all'8 gennaio a Palazzo Magnani, a cura di Achille Bonito Oliva. 

E' la prima grande antologica in Italia dell'artista giapponese che offre un viaggio attraverso ottanta tra dipinti, sculture e video installazioni a ripercorrere la sua carriera, dalle prime innovative sperimentazioni degli anni Quaranta e Cinquanta, quando elaborò i "Cannon works", opere ottenute dall'accidentale disposizione del colore sulla tela, sparato da un cannone, seguito dalla tecnica del cut-up, il taglio della pittura, fino alle performance degli ultimi anni. Una ricerca inarrestabile, visto che a ottantatre anni, terrà a battesimo l'inaugurazione della mostra con una performance da guinness, lanciando i colori dall'alto di una gru su una grande tela (24 settembre, ore 16). "L'universo di Shimamoto - racconta Achille Bonito Oliva - è piegato di incidenti formali: il lancio di una moneta, di un pennello, un colpo di fucile, la macchia di un colore, l'introduzione di sagome di cose, alberi e uomini, presenze di foglie, griglie, maschere, pezzi di vetro rotto, puzzle fotografici ed infine parole. Tutto diventa immagine. E questo è l'effetto di un'arte giocata sempre sulla trasformazione degli elementi". E la mostra restituisce tutta questa indole dinamica del fare creativo di Shimamoto. Testimoniato da lavori storici. Ci sono le carte, mai esposti prima, e le tele degli anni Cinquanta, le esplosioni di colore delle performance di punta Campanella (Sorrento)  e Capri, i lavori realizzati a Palazzo Ducale di Genova, in occasione della mostra al Museo Di Villa Croce nel 2008. Fino alle opere più recenti quali le sculture, i violini e gli abiti da sposa protagonisti delle ultime coinvolgenti performance dove musica, danza e colore si fondevano nell'atto creativo di Shozo Shimamoto.Notizie utili - "Shozo Shimamoto. Opere 1950-2011. Oriente E Occidente", dal 25 settembre all'8 gennaio 2012. Reggio Emilia, Palazzo Magnani.Orari: dal martedì al venerdì: 10-13/15.30-19, sabato, domenica e festivi: 10-19, lunedì chiuso.Ingresso: Intero €9, ridotto €7, studenti €4Catalogo: Allemandi Editore.

FONTE: Laura Larcan (repubblica.it)

lunedì 26 settembre 2011

Lorenzo Delleani, la montagna vista da (molto) vicino


La Galleria d’arte moderna inaugura una antologica dedicata al paesaggista ottocentesco che ha raccontato con passione il suo Piemonte

Qualche anno fa, nel settembre del 2008, il Piemonte aveva celebrato con una serie di mostre il centenario della morte di Lorenzo Delleani (1840 - 1908). Formatosi all’Accademia Albertina di Torino, Delleani almeno inizialmente si era dedicato alla «pittura storica» o «di genere» (Il Museo Egizio, Il mercato a Porta Palazzo, I fondatori della Fiatma anche il ritratto di Caterina Cornaro), scegliendo infine quella di paesaggio. Con una particolare attenzione per i suoi luoghi (Torino, Biella e alla sua campagna, la natia Pollone, Oropa, le montagne) spesso rappresentati in maniera verista «con colori brillanti e pennellate pastose». Scene piemontesi (dal Cervino al lago di Mucrone) che nella maggior parte dei casi hanno come protagonisti personaggi umili (lavandaie, spaccapietra, macellai con tanto di vitelli, uomini, donne e chierici in processione o in preghiera), ma che (paradossalmente) nascevano in molti casi proprio durante i lunghi soggiorni di Delleani nel castello di Miradolo, ospite dei ricchi conti Cacherano di Bricherasio e (in particolare) della contessa Sofia, sua allieva prediletta.

Sembrerebbe davvero difficile spostare Delleani e la sua arte da quel (piccolissimo) universo piemontese costantemente «intriso di un’affamata ricerca della poesia». La mostra che si apre martedì alla Gam di Milano (curata da Maria Angela Privitera e Maria Fratelli con il patrocinio del Touring Club Italiano) arriva dopo quasi novant’anni dall’ultima rassegna dedicata all’artista biellese nel capoluogo lombardo e propone invece di ritrovare un altro baricentro dell’universo pittorico di Delleani. Grazie a una sorta di Doppia corsia (come appunto recita il titolo dell’esposizione) che di fatto accosta una selezione significativa delle opere di Delleani presenti nella collezione di Roberto Ruozi (biellese trasferitosi a Milano e grande collezionista del pittore) a quelle di Delleani e di altri esponenti della pittura di paesaggio ottocentesca (da Filippo Carcano a Emilio Longoni, da Carlo Fornara a Cesare Maggi) anch’essi presenti nelle stanze della Galleria d’arte moderna di Milano.


Sentieri di montagna, radure settembrine, tramonti d’autunno, vecchie badie, paesaggi alpestri, torrenti più o meno tumultuosi (con qualche raro scorcio di Roma e Venezia), pendii, cortei nuziali e atmosfere molto vicine a quelle del grande Segantini: questo il ritratto che Delleani fa del proprio mondo. Una rappresentazione che non nasce però soltanto dal sentimento: le quattro sezioni della mostra («Dal bosco al pendio», «Tradizioni da collezione», «Pittura ad alta quota», «Le stagioni del vero») testimoniano come questa visione melanconica e idillica di Delleani nascesse anche da un suo costante lavoro di documentazione. Basato, ad esempio, sulla fotografia (come testimonia l’immagine di un pellegrinaggio sopra Oropa che ricorda un olio del 1883 In montibus sanctis). Forse anche per questo nei suoi scorci (di ogni dipinto sono annotati con precisione giorno, mese e anno di esecuzione) Delleani ha raccontato davvero tutto quello che vedeva. E non solo con gli occhi, ma anche con il cuore.
FONTE: Stefano Bucci (corriere.it)

giovedì 22 settembre 2011

Raggi gamma e sonde per ritrovare a Firenze il Leonardo fantasma

Si va avanti. La ricerca della Battaglia di Anghiari , dipinto fantasma di Leonardo (nel ritratto) forse imprigionato in un'intercapedine del Salone dei Cinquecento a Palazzo Vecchio, dietro un affresco del Vasari, adesso utilizzerà neutroni e raggi gamma e forse una microsonda a fibra ottica per avere una risposta definitiva. La missione a Washington del sindaco di Firenze Matteo Renzi e dell'assessore alla Cultura, Giuliano da Empoli, ha dato esisti positivi. «Ci sono nuovi finanziamenti di National Geographic e di altri partner e dunque entro il 2012 la ricerca sarà conclusa», dice l'assessore dagli Usa. È un riconoscimento all'opera straordinaria di Maurizio Seracini, ingegnere e professore all'ateneo di San Diego in California. Da 36 anni Seracini, grazie a documentazioni storiche e studi scientifici, è convinto che la Battaglia di Anghiari si trovi dietro la parete est del Salone dei Cinquecento, dietro la Battaglia di Scannagallo in Valdichiana, «buonfresco» dipinto nel 1557 dal Vasari. Spiega Seracini: «Possiamo operare in due modi: utilizzando una sorgente di neutroni e poi di raggi gamma capaci di rilevare la presenza di un dipinto e mediante fibre ottiche da far passare in una delle microlesioni del dipinto del Vasari. I rischi sono praticamente inesistenti».
FONTE: Marco Gasperetti (corriere.it)

mercoledì 21 settembre 2011

Somaini, la scultura che resuscita

Nelle Chiese rupestri i sofferti lavori dell’artista comasco

C’è una spia eloquente, un «gesto» illuminante, per decifrare l’opera di Somaini, il segreto artista comasco, morto ottantenne, nel 2005. Grande e tormentato insoddisfatto perenne, Somaini ha talvolta voluto cancellare periodi della sua produzione, metabolizzandoli in opere successive, maturate. Cancellare: non però distruggendo, come hanno potuto fare Giacometti, Brancusi o Modigliani, ma sotterrando (nel suo giardino, con debita venerazione ctonia) le tracce perdute («Tracce» è un titolo che torna, nel suo universo espressivo) d’un percorso che non lo soddisfaceva più. Ma ecco come la circostanza eventuale di questa cerimonia domestica, privata, si fonde miracolosamente con la sua poetica. Una delle prime opere scelte ha titolo Proserpina, la Kore che viene rapita e sepolta da Plutone nell’Ade, e che tornerà stagionalmente, ogni primavera (Primavera d'altoforno) sulla terra: riportando vita, luce e frutti. La scultura non è altro, per lui, che questa semina della morte (anche della morte dell’arte) che rifiorisce in dilemma ed in esploso, tagliente smembramento drammatico. 

La morte della scultura («lingua morta», secondo la tesi del suo ispiratore Martini, che ragiona della fine dalla monumentalità, ma non soltanto) e che torna in vita, che resuscita, proprio per rappresentare, gemendo, questa fine, quest’agonia straziata (Grande Martirio Sanguinante). Così probabilmente non esiste spazio maggiormente ideale, indubbiamente uno dei più belli al mondo per posizionare lacerti vivi del Contemporaneo, di queste predestinate Chiese Rupestri di Matera, sassi fra i sassi, ove tra l’altro Somaini è stato giovane e suggestionato, dopo lo choc dell’agnizione sepolcrale dei folgorati di Pompei. E par quasi destino, in questo mondo taroccato e fasullo di consumo culturale, ove l’ufficialità eleva i mammozzi-tarocchi di Clemente agli Uffizi, è inevitabile, anzi, che, rovesciandosi le carte, un autentico maestro del dolore e della conoscenza dell’arte, debba scendere offeso e trionfante, come un Cristo nel Limbo, nelle catacombe magnifiche d’una terra, che la politica definì «vergogna d'Italia». 

Altro che retorica vuota del «site specific»! Grazie all’acribia caparbia del curatore Appella (adiuvato dalla figlia dell’artista) grazie alla maestria del «posatore» di sortilegi Alberto Zanmacchi grazie al labirinto di ripensamento cronologico di vitalità pulsante, in quest’Ade ospitalissima lo scultore ha trovato la sua «casa» ideale. In questi antri petrosi, sotto questo piovere notturno di salnitro, che ingravida ulteriormente gli originali, rugginosi «conglomerati ferrici» deglutiti nel cemento, in questo umidore sepolcrale che ridà forza allo Svolgimento dell'avvolto (utile confronto con le copiazzature sindoniche di Cattelan) Somaini ritrova la sua aura ideale e si libera, in fondo, di tutte le pastoie critiche (alla «luce» della manualistica) che giocoforza gli si sono incrostate addosso. Trasparenti, forse, le referenze iniziali, Medardo, Manzù, perfin Raphael se vogliamo, tornando al giovanile Rodin e ai suoi torsi, ma i frammenti lacerati, smembrati, strappati di Somaini son proprio lacerti d’una bellezza che non può più mostrarsi, che si nega e celebra nella Lotta con l’incarnata materia. Gesti di una drammaturgia sottratta. Come il suo Crocefisso, vuoto di Cristo, ma ove rimane addensato e sospeso lo strazio della carne di ferro. 

SOMAINI
MATERA. CHIESE RUPESTRI E MUSMA
FINO AL 9 OTTOBRE


FONTE: Marco Vallora (lastampa.it)

martedì 20 settembre 2011

L'Arte Povera si fa in otto


Germano Celant ha presentato la kermesse che in diverse città e sedi, tra l’autunno e l’inverno, celebrerà il movimento da lui inventato nel 1967

Il movimento dell’Arte Povera nasce nel 1967, con una mostra alla Galleria La Bertesca di Genova. A raccogliere una serie di artisti (da Merz a Pistoletto, da Prini a Pascali) che tra Torino e Roma si ribellano al predominio della Pop Art a stelle e strisce e puntano su materiali poveri è il critico genovese Germano Celant. È lui a coniare il nome che rimanda alle esperienze del Teatro Povero del polacco Grotowski. A segnare le prime tappe del movimento arrivano nel 1968 la mostra alla Galleria de’ Foscherari di Bologna e «Azioni Povere» ad Amalfi. Nel 1972 Celant dichiara la morte del movimento, il cui apprezzamento internazionale continua però ininterrottamente a crescere fino ai giorni nostri. In anni recenti si hanno nel 2001 la mostra alla Tate (curata da Bonami), mentre i vari artisti sono celebrati dai musei di tutto il mondo.

“Dal ministero? Abbiamo ricevuto solo tremila euro e una lettera di Galan». Si chiude con una nota polemica la presentazione della grande kermesse sull’Arte Povera che Germano Celant ha tenuto ieri alla Gnam di Roma. Seduto non a caso sotto l’Ercole e Lica di Canova (la ragazza strapazzata è l’Arte o la critica che ogni tanto lo punzecchia?), l’inventore nonché padre-padrone del movimento ha raccontato la fatica di realizzare il suo ambizioso progetto: «Non sapendo da dove partire - ha esordito - inizierò dai numeri. Abbiamo, per la prima volta in Italia, messo insieme sette città e sei musei, presentiamo 250 opere su una superficie complessiva di 15 mila metri quadri». Niente male per un movimento che aveva fatto della Povertà la sua cifra, ma che rimane a tutt’oggi dopo il Futurismo l’unico movimento italiano di rilevanza internazionale (merito dei poveristi o demerito di quelli che sono venuti dopo?). «Finora - ha detto ancora il critico genovese - mi ero sempre rifiutato, anche quando me l’aveva proposto la Tate, di fare “una” mostra sull’Arte Povera, perché non sarebbe stato possibile rendere la complessità del movimento, ed è invece proprio questo che cerchiamo di fare ora».

Nata del 1967 da un gruppo di artisti che, nel clima di quegli anni, si ribellano alla Pop Art americana e dimostrano che si può fare arte con materiali «poveri», dal ferro agli stracci, dalla terra alla carta, dal vetro al neon, il movimento si afferma in fretta: «Capii che ce l’avevamo fatta quando la critica accademica romana rifiutò e boicottò, nel 1968, la mia mostra “Azioni povere” ad Amalfi». Allora il gruppo era più numeroso (gli anni erano tumultuosi e fluidi), oggi Celant riconosce solo 13 artisti, di cui nel frattempo alcuni sono scomparsi (il primo fu Pascali che morì nel ‘68, poi Alighiero Boetti, Mario Merz e Luciano Fabro). Oltre a loro la pattuglia era ed è composta da Giovanni Anselmo, Pier Paolo Calzolari, Jannis Kounellis, Marisa Merz, Giulio Paolini, Giuseppe Penone, Michelangelo Pistoletto, Emilio Prini e Gilberto Zorio. Nel 1972 è Celant stesso a dire che l’Arte Povera è già finita. «Ne sono ancora convinto - ricorda -. In quella data finisce come movimento, dopo di allora rimangono le individualità degli artisti, che continuano a lavorare». E lavorano non poco, raggiungendo sul mercato quotazioni tutt’altro che povere (in qualche caso, come alcune Mappe di Boetti o grandi installazioni di Merz, diversi milioni di euro). E alcuni di loro oggi fanno fatica (pensiamo alle svolte concettuali di Paolini) a riconoscersi nel movimento che pure li ha lanciati.

Come si articola la kermesse? Accompagnata dal catalogo Electa, è una sorta di viaggio nel tempo (dal 1967 a oggi) e nella geografia. «Per rendere al meglio esperienze e linguaggi ho cercato di tener conto della specificità dei luoghi». Così ad esempio Torino, che oltre a essere la culla del Movimento (molti artisti erano torinesi) ne è anche il tempio (grazie alle collezioni del Museo di Rivoli, che conserva anche artisti internazionali di quel periodo), vedrà proprio al Castello di Rivoli «Arte Povera International», ossia un confronto tra poveristi e loro colleghi di vari Paesi del mondo. Milano non ha mai avuto una grande mostra del movimento e alla Triennale proporrà una sorta di antologica, per tappe essenziali. Bologna andrà alle radici con «Arte Povera 1968», che rievocherà la prima mostra bolognese alla Galleria de’ Foscherari. Due le sedi di Roma: «La Gnam - ha ricordato Celant - renderà omaggio a Pascali con 20 sue opere. Il Maxxi farà un omaggio al movimento con grandi installazioni recenti di Kounellis, Zorio e Penone. Grandi lavori anche al Teatro Margherita di Bari («È un teatro distrutto in via di ricostruzione, mi è sembrato il luogo ideale proprio perché l’Arte Povera ama gli spazi non finiti»). Il Madre di Napoli, nonostante il periodo non facile, allestirà «Arte Povera più azioni Povere 1968», che rimanda alla mostra di Amalfi. Proprio l’altro giorno si è aggiunta Bergamo, che metterà opere nelle piazze e nei palazzi.

Ma cosa resta oggi di quella che era la poetica del movimento? Per Celant se l’arte va verso la mondializzazione, in qualche modo, pur legati al binomio Europa-America, i poveristi anticiparono il rapporto con il «mondo conosciuto». E viene spontaneo pensare a Boetti e ai suoi viaggi in Afghanistan, dove tra l’altro i suoi arazzi sono diventati modelli per artisti locali. Inoltre, per Celant, la democratizzazione dell’arte, che era una delle caratteristiche del movimento, ha ancor oggi valore. Per il resto sarà la kermesse a permettere di capire cosa vale ancora e cosa no. Tornando alla lettera di Galan, il ministro fa grandi apprezzamenti. Ma la mostra non è stata inserita neppure nel cartellone delle celebrazioni di Italia 150. Probabilmente il ministero (leggi Bondi) aveva speso tutto per finanziare il Padiglione Italia di Sgarbi alla Biennale.

FONTE: Rocco Moliterni (lastampa.it)

lunedì 19 settembre 2011

Bolzano, il Museion raddoppia Carl Andre vs Laurie Anderson

Aprono due grandi mostre dedicate alla creatività contemporanea. Nel capoluogo, la prima antologica italiana di Carl Andre, padre del minimalismo. E in varie sedi, l'undicesima  Transart, festival delle sperimentazioni artistiche


La prima mostra antologica italiana di Carl Andre, tra i padri fondatori del minimalismo e l'undicesima edizione dei "Transart", festival borderline della sperimentazione artistica. La città di Bolzano mette a segno due suggestivi eventi che offrono l'occasione di perlustrare i meandri più audaci e temerari della creatività contemporanea. Il Museion, dal 17 settembre all'8 gennaio, diventa tappa gustosa con l'omaggio ad un grande protagonista delle neoavanguardie, una figura di spicco nell'affermazione di una scultura americana che negli anni Sessanta cercava con ambizione una contrapposizione forte alla tradizione europea. 
Classe '35, originario del Massachusetts, ma newyorchese d'adozione, Carl Andre, ispirato intimamente da Constantin Brancusi, ha scritto un capitolo emblematico nell'epopea della Minimal Art, in quel movimento che tesseva un linguaggio plastico nuovo all'insegna di un'astrazione geometrica radicale, che puntava a codificare creature dall'essenza "primaria". In questa avventura divise la scena con Frank Stella, con cui condivise anche lo studio dal '58 al '60, Richard Serra, Robert Morris, Dan Flavin, Donald Judd. Il Museion, a pochi mesi dal conferimento del prestigioso premio della Roswitha Haftmann Stiftung di Zurigo, ne ripercorre la carriera attraverso una ventina di lavori dalla fine degli anni Cinquanta ad oggi, prestiti di collezioni pubbliche e private. In Andre le dimensioni sono un segmento del Dna espressivo, e la versatilità tra opere grandi  dimensioni, altermate a medie e piccole è un dettaglio essenziale del percorso linguistico. Ad aprile il percorso, per esempio, è "Wirbelsäule" (colonna vertebrale) del 1984 realizzata a Basilea, raramente esposta, che oggi spicca davanti al museo. "Dalla scultura come forma alla scultura come struttura per approdare alla scultura come luogo". E' la famosa frase entrata nei manuali di storia dell'arte, con cui Carl Andre ha spiegato il senso della sua opera. 

"Le sculture di Carl Andre non sono un oggetto da contemplare, ma un luogo in cui stare, muoversi e fare esperienza, in una relazione di contatto fisico", avverte la curatrice e direttrice del museo Letizia Ragaglia. Al pianoterra si cammina sulle 225 lastre in acciaio, "Napoli Square del 2010, o a girare intorno alle tre piramidi in legno di noce africana Glärnisch, Urn e Star, del 2001. Al quarto piano si percorrono i ventitre metri di lunghezza delle 46 unità di Roaring Forties, del 1988 o si fa lo slalom tra le curve di sette Part Sort, del 1972. Chicca, sono i Poems, opere testuali poco note, e una selezione di libri d'artista, tra cui quello dedicato alla città natale di Andre, "Quincy Book", 1973. Fino al primo ottobre, poi, da Bolzano a Silandro, impazzano in Alto Adige i mille volti della sperimentazione artistica, tra performance, musica e contaminazioni, con il festival Transart che propone quest'anno un cartellone di eventi tra aree industriali dismesse, chiese, e persino le case private, grazie alla nuova idea di Rent a musician, che permetterà al pubblico di "affittare" per una serata un ensemble da ospitare a casa propria. Protagonista delle serate d'apertura (fino al 17 settembre), il compositore ed attivista inglese Matthew Herbert con una tappa del suo ambizioso progetto, ispirato a John Cage, che intende registrate "tutti" i suoni del mondo. Su questa linea, il compositore russo Boris Filanovsky, lancia la sinfonia per sirene, carri armati, martelli pneumatici, motociclette enduro, betoniere e truppe militari. Star al femminile è Laurie Anderson (25 settembre), preceduta in cartellone dalle creazioni a matita e carboncino di William Kentridge, che giocano con il linguaggio del teatro e delle nuove tecnologie in "Woyzeck on the Highveld" pluripremiata produzione della compagnia Handspring Puppet Theatre, ensemble fondato a Cape Town nel 1981. Ma sono solo alcuni dettagli di un programma tutto da scoprire su www. transart. itNotizie utili  -  "Carl Andre", dal 17 settembre all'8 gennaio 2012, Museion, museo d'arte moderna e contemporanea, Via Dante 6, Bolzano. Orari: martedì  -  domenica ore 10.00  -  18.00, giovedì ore 10.00  -  22.00.Ingresso: intero 6,00 €, ridotto 3,50 €. Ingresso libero: giovedì dalle ore 17.00 - 22.00.Informazioni: www.museion.it 

FONTE: Laura Larcan (repubblica.it)

venerdì 16 settembre 2011

Grazie dei fiorini


Da sabato a Firenze una mostra sul rapporto tra arte, potere, religione e denaro nel Rinascimento. Così una moneta aurea coniata in Toscana alla metà del Duecento divenne il dollaro dell’Europa di allora

Si apre sabato a Firenze, in Palazzo Strozzi, la mostra «Denaro e Bellezza. I banchieri, Botticelli e il rogo delle vanità» (fino al 22 gennaio, tutti i giorni dalle 9 alle 20, giovedì 9-23). Insieme con la storica dell’arte Ludovica Sebregondi, ne è curatore lo scrittore inglese Tim Parks, di cui pubblichiamo in anteprima un estratto dell’articolo che uscirà domani sul «London Review of Books». 

Nel 1237 Firenze fondò la zecca e coniò il fiorino d’argento. Fino ad allora la città aveva usato il denarius del Sacro Romano Impero ormai al tramonto, ma la moneta era ormai così svalutata da dover essere affiancata da monete più pregiate di centri allora più grandi come Siena e Lucca. 

Stava diventando sempre più importante monetizzare tutte le transazioni, per poter trasformare tutta la ricchezza in denaro e ridistribuirlo o investirlo a piacere. Il fiorino d’argento valeva un soldo, cioè 12 denari. Serviva per acquistare un paio di uova, una pagnotta, un litro di vino. Questo non era sufficiente. 

Nel 1252 la zecca fiorentina coniò il fiorino d’oro, 3,53 grammi di oro a 24 carati che oggi varrebbe circa 110 sterline. Questa era la moneta giusta per un commercio serio e i fiorentini si assicurarono che il suo peso e la purezza rimanessero assolutamente invariati: per quasi trecento anni fu coniata, mantenendo meticolose registrazioni delle alterazioni nel conio e istituendo un sistema di controllo della qualità che prevedeva che ogni sovrintendente rimanesse in servizio solo sei mesi al fine di prevenire la corruzione. 

Alla fine del XIII secolo il fiorino era utilizzato nelle transazioni commerciali in tutta l’Europa occidentale, e dove non era fisicamente presente era ampiamente adottato come moneta di riferimento. Bel colpo per quello che allora era un piccolo centro di commerci. 

Sul fiorino non c’era alcuna testa di re o di duca. Firenze aveva da tempo vietato alla nobiltà la partecipazione al governo, che ora era repubblicano: i nove membri dell’esecutivo erano sorteggiati tra la comunità patrizia ogni due mesi, in modo che nessuno potesse mai acquisire troppo potere. I partiti politici erano stati vietati. 

Su un lato della nuova moneta c’era il giglio, simbolo di Firenze, e sull’altro San Giovanni Battista, il santo patrono della città. Così dovere civico e osservanza religiosa erano elegantemente fusi, in oro. Quando i farisei chiesero a Gesù: «È lecito pagare il tributo a Cesare?», lui aveva potuto prendere in mano una moneta, indicare la testa di Cesare e rispondere «Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio». 

Il mondo era diviso così, da un lato politica ed economia, dall’altro fede e metafisica. Ma nella Firenze del XIII secolo, dove si riteneva che la gerarchia sociale dei possidenti medievali fosse stabilita dalla volontà divina, i leader civili e i mercanti-banchieri (spesso gli stessi uomini) erano ansiosi di evitare una tale divisione. Non volevano credere che fosse più difficile per un ricco entrare nel regno dei cieli che per un cammello passare attraverso la cruna di un ago. 

San Giovanni Battista appare di nuovo sullo statuto della zecca, edito nel 1341. Fedele al racconto biblico, indossa il cilicio, segno della vita in povertà, salvo che l’artista fiorentino gli ha anche avvolto attorno alle spalle il mantello rosso segno di ricchezza e di autorità. La sua aureola è d’oro e ai lati ci sono tre dischi d’oro che assomigliano in modo sospetto a monete, come se il denaro stesso fosse sacro, o se richiamassero un credito che potrebbe essere incassato. Nel 1372 la zecca commissionò un’enorme pala d’altare che raffigura l’Incoronazione della Vergine. Qui l’uso sontuoso e costoso della foglia d’oro sullo sfondo e la corona d’oro sulla testa della Madonna di nuovo suggeriscono che non vi è alcun conflitto tra denaro e santità. 

Nonostante questa riconciliazione tra sacro e profano nella moneta, nel libro dello statuto e nella pala d’altare - tre degli oggetti che aprono la mostra «Denaro e bellezza. Banchieri, Botticelli e il rogo delle vanità» a Palazzo Strozzi di Firenze, furono in molti a capire che la monetizzazione della società poneva una seria minaccia agli altri valori. [...]

Quando si accumulava una quantità di moneta tale da non poter essere facilmente utilizzata nel commercio, un modo ovvio di farla fruttare era quello di prestarla, meglio se a un commerciante disposto a ripagarla in modo più conveniente. 

Il problema era che la Chiesa aveva condannato categoricamente ogni finanziamento fruttifero, o usura, come è stata chiamata. Oggi si tende a pensare che questa legge nascesse da una preoccupazione per i poveri, come protezione contro usurai senza scrupoli. Non è così. Banche come quelle dei Medici, degli Strozzi, dei Cambini non prestarono mai ai poveri, ma furono comunque oggetto di controllo continuo da parte dei teologi che esaminavano le loro pratiche finanziarie. Ci sono varie spiegazioni: nell’Inferno di Dante si scopre che l’usura è contro natura perché Dio ci ha dato il lavoro per guadagnarci il pane con il sudore della fronte, e l’usura non è un lavoro; così gli usurai condividono il terzo girone del settimo cerchio infernale con sodomiti e bestemmiatori, accomunati dall’innaturalità dei loro peccati. [...]

[Traduzione di CARLA RESCHIA]

martedì 6 settembre 2011

Asiago e la mostra di Maurizio Bottoni


Le bellezze dell’Altopiano di Asiago, note in tutto il mondo, sono famose quanto le celebrità che contribuiscono al suo appeal in tempi recenti e meno recenti. Sono personaggi che vi sono nati come Giovanni Paganin scultore, l’attuale campione di pattinaggio Enrico Fabris, lo scrittore Mario Rigoni Stern; e poi altri che per diversi motivi ci son stati come Hemingwey e Hoffmannstal o che vi dimorano tuttora come Celentano con la famiglia.     
Di più c’è che la magnificenza della natura in questo altopiano, il più esteso d’Italia, è che sempre meglio si accompagna ad iniziative che parlano d’arte in luoghi ideali per raccontarla.Il più singolare è il Museo delle Carceri che la città montana ha inaugurato dieci anni fatrasformando le ex carceri in uno spazio istituzionale per esposizioni permanenti e temporanee di rilievo. E piace dire che l’originale costruzione ottocentesca, a pochi passi dal centro storico, non fu quasi mai stata usata quale luogo di reclusione continuativa. Infatti servì all’uso per il quale è stata eretta dal 1840 al 1963, detenendo prigionieri di passaggio prima di essere trasferiti in quel di Bassano. Così, dopo i necessari svincoli, il vecchio carcere si è trovato   “a liberare l’arte” anche grazie ad un restauro portato a buon fine da Massimo Muraro che ha fatto tesoro degli insegnamenti del suo maestro, il mitico Carlo Scarpa, emblema di una filosofia del ripristino attenta alle esigenze estetiche come ad una agibilità funzionale ai vari percorsi d’arte.Ora una tale rappresentativa nicchia celebra il suo decimo anno di vita con la mostra fino al 9 ottobre dell’artista milanese Maurizio Bottoni, ricca di dipinti i cui soggetti sono un inno a quanto di meglio la natura del luogo offre. Alcuni sono ambientazioni lussureggianti di boschi meravigliosi, fauna alpestre e fiori, frutta, ripresi con magnificenza anche nelle incisioni.Tutto ciò di cui l’altopiano eccelle come l’aura di monti e selve, l’emozione visiva della flora e l’universo dei volatili che sfrecciano su prati e declivi, questa pittura lo celebra dando all’immaginazione il giusto spazio e alla cultura del luogo e degli abitanti l’attenzione meritata. Talvolta, anziché dall’aspetto pittoresco del paesaggio o da interni di selve ombrose, il pittore è attratto dai particolari, come quando si concentra nel bicchiere con mazzetti di more o su erbe e fiori che si ergono da ‘zolle notturne’.Siamo di fronte ad un’arte antica e nuova praticata da un personaggio che, conscio della ricchezza tramandata dai suoi predecessori, ma senza mai sottrarsi alla contemporaneità del quotidiano, riscopre i classici dell’arte quale fonte di ispirazione e metro qualitativo. Oggetto di ammirazione e studio sono per lui quei grandi maestri che osservano il creato con sguardo lento e penetrante traendone immagini precise, come i più minuti particolari effigiati da Durer o dai alcuni grandi pittori spagnoli. Il suo tornare al passato per questo e per la tecnica facendosi da solo pure i colori, preparando alla maniera antica le tavole, volgendosi alla pergamena e incidendo col bulino come una volta, non gli impedisce di essere contemporaneo nel dipingere. Non per nulla si parla di lui facendo riferimento a Giorgio De Chirico e a Pietro Annigoni, e a certe prove memorabili esibite dall’iperrealismo più estremo.Anche le note biografiche su Bottoni sono interessanti. Nato a Milano nel 1950, si è cimentato nell’arte della tavolozza in età precoce, avvicinandosi a De Chirico e acquisendo abilità e conoscenze che l’hanno portato nel ’71 alla sua prima personale alla galleria Meravigli di Milano dove ha subito raccolto un successo anche da parte del collezionismo più raffinato. Nel 1990 vince il premio Suzzara e l’anno dopo alla Olivetti. Nell’incalzare delle rassegne cui è stato invitato, notevole la sua presenza a Palazzo Reale a Milano nel 2007 a cura di Vittorio Sgarbi e poi al premio Michetti, al Pac di Milano, a Villa Pariani a Verbania e questo giugno alla Biennale di Venezia su indicazione di Forattini.Lusinghiera è ora l’affluenza dei visitatori al Museo Le Carceri per questa sua rassegna che si titola “Opere 1971-2011”. Una mostra con oli, tempere e incisioni voluta dal Comune di Asiago, curata da Nino Sindoni e Alberto Buffetti, accompagnata dal bel catalogo su progetto editoriale dell’associazione Alberto Buffetti con testi critici di vaglia come quello esteso e puntualizzante di Antonio D’Amico.


FONTE: Marica Rossi (lastampa.it)

giovedì 1 settembre 2011

Acquerelli perduti di Otto Dix ritrovati in Baviera


Due galleristi hanno ritrovato in Baviera quattro acquerelli di Otto Dix, il maestro della Nuova oggettività. I lavori valgono fino a 200.000 euro e risalgono al 1922-1923, un periodo che Dix trascorse a Düsseldorf e che viene ritenuto fondamentale per la sua evoluzione artistica. 

Due dei quattro acquerelli, Soubrette e Nächtens, erano dati per scomparsi. Un altro è invece sconosciuto: si tratta diStrich III (nella foto), che riproduce una scena di strada con prostitute. A questi si aggiunge uno studio preparatorio per una delle opere più note di Dix, un ritratto del collezionista Alfred Flechtheim.I lavori erano chiusi in una cartellina rimasta per decenni in una cassa facente parte del lascito di una figlia di Martha Koch, la donna che Dix sposò nel 1923. Mentre preparavano una mostra sui 120 anni dalla nascita di Dix i galleristi Peter Barth e Herbert Remmert sono stati invitati da una nipote di Martha Koch a dare un’occhiata a casa sua e hanno scoperto la cartellina. La mostra sarà inaugurata domenica e comprenderà anche gli acquerelli ritrovati.


FONTE: lastampa.it