venerdì 16 settembre 2011

Grazie dei fiorini


Da sabato a Firenze una mostra sul rapporto tra arte, potere, religione e denaro nel Rinascimento. Così una moneta aurea coniata in Toscana alla metà del Duecento divenne il dollaro dell’Europa di allora

Si apre sabato a Firenze, in Palazzo Strozzi, la mostra «Denaro e Bellezza. I banchieri, Botticelli e il rogo delle vanità» (fino al 22 gennaio, tutti i giorni dalle 9 alle 20, giovedì 9-23). Insieme con la storica dell’arte Ludovica Sebregondi, ne è curatore lo scrittore inglese Tim Parks, di cui pubblichiamo in anteprima un estratto dell’articolo che uscirà domani sul «London Review of Books». 

Nel 1237 Firenze fondò la zecca e coniò il fiorino d’argento. Fino ad allora la città aveva usato il denarius del Sacro Romano Impero ormai al tramonto, ma la moneta era ormai così svalutata da dover essere affiancata da monete più pregiate di centri allora più grandi come Siena e Lucca. 

Stava diventando sempre più importante monetizzare tutte le transazioni, per poter trasformare tutta la ricchezza in denaro e ridistribuirlo o investirlo a piacere. Il fiorino d’argento valeva un soldo, cioè 12 denari. Serviva per acquistare un paio di uova, una pagnotta, un litro di vino. Questo non era sufficiente. 

Nel 1252 la zecca fiorentina coniò il fiorino d’oro, 3,53 grammi di oro a 24 carati che oggi varrebbe circa 110 sterline. Questa era la moneta giusta per un commercio serio e i fiorentini si assicurarono che il suo peso e la purezza rimanessero assolutamente invariati: per quasi trecento anni fu coniata, mantenendo meticolose registrazioni delle alterazioni nel conio e istituendo un sistema di controllo della qualità che prevedeva che ogni sovrintendente rimanesse in servizio solo sei mesi al fine di prevenire la corruzione. 

Alla fine del XIII secolo il fiorino era utilizzato nelle transazioni commerciali in tutta l’Europa occidentale, e dove non era fisicamente presente era ampiamente adottato come moneta di riferimento. Bel colpo per quello che allora era un piccolo centro di commerci. 

Sul fiorino non c’era alcuna testa di re o di duca. Firenze aveva da tempo vietato alla nobiltà la partecipazione al governo, che ora era repubblicano: i nove membri dell’esecutivo erano sorteggiati tra la comunità patrizia ogni due mesi, in modo che nessuno potesse mai acquisire troppo potere. I partiti politici erano stati vietati. 

Su un lato della nuova moneta c’era il giglio, simbolo di Firenze, e sull’altro San Giovanni Battista, il santo patrono della città. Così dovere civico e osservanza religiosa erano elegantemente fusi, in oro. Quando i farisei chiesero a Gesù: «È lecito pagare il tributo a Cesare?», lui aveva potuto prendere in mano una moneta, indicare la testa di Cesare e rispondere «Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio». 

Il mondo era diviso così, da un lato politica ed economia, dall’altro fede e metafisica. Ma nella Firenze del XIII secolo, dove si riteneva che la gerarchia sociale dei possidenti medievali fosse stabilita dalla volontà divina, i leader civili e i mercanti-banchieri (spesso gli stessi uomini) erano ansiosi di evitare una tale divisione. Non volevano credere che fosse più difficile per un ricco entrare nel regno dei cieli che per un cammello passare attraverso la cruna di un ago. 

San Giovanni Battista appare di nuovo sullo statuto della zecca, edito nel 1341. Fedele al racconto biblico, indossa il cilicio, segno della vita in povertà, salvo che l’artista fiorentino gli ha anche avvolto attorno alle spalle il mantello rosso segno di ricchezza e di autorità. La sua aureola è d’oro e ai lati ci sono tre dischi d’oro che assomigliano in modo sospetto a monete, come se il denaro stesso fosse sacro, o se richiamassero un credito che potrebbe essere incassato. Nel 1372 la zecca commissionò un’enorme pala d’altare che raffigura l’Incoronazione della Vergine. Qui l’uso sontuoso e costoso della foglia d’oro sullo sfondo e la corona d’oro sulla testa della Madonna di nuovo suggeriscono che non vi è alcun conflitto tra denaro e santità. 

Nonostante questa riconciliazione tra sacro e profano nella moneta, nel libro dello statuto e nella pala d’altare - tre degli oggetti che aprono la mostra «Denaro e bellezza. Banchieri, Botticelli e il rogo delle vanità» a Palazzo Strozzi di Firenze, furono in molti a capire che la monetizzazione della società poneva una seria minaccia agli altri valori. [...]

Quando si accumulava una quantità di moneta tale da non poter essere facilmente utilizzata nel commercio, un modo ovvio di farla fruttare era quello di prestarla, meglio se a un commerciante disposto a ripagarla in modo più conveniente. 

Il problema era che la Chiesa aveva condannato categoricamente ogni finanziamento fruttifero, o usura, come è stata chiamata. Oggi si tende a pensare che questa legge nascesse da una preoccupazione per i poveri, come protezione contro usurai senza scrupoli. Non è così. Banche come quelle dei Medici, degli Strozzi, dei Cambini non prestarono mai ai poveri, ma furono comunque oggetto di controllo continuo da parte dei teologi che esaminavano le loro pratiche finanziarie. Ci sono varie spiegazioni: nell’Inferno di Dante si scopre che l’usura è contro natura perché Dio ci ha dato il lavoro per guadagnarci il pane con il sudore della fronte, e l’usura non è un lavoro; così gli usurai condividono il terzo girone del settimo cerchio infernale con sodomiti e bestemmiatori, accomunati dall’innaturalità dei loro peccati. [...]

[Traduzione di CARLA RESCHIA]

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