venerdì 27 agosto 2010

Arte Povera, immersione nella natura A Vassivière c'è Marisa Merz


Nel parco regionale di Millevaches, Francia, una grande mostra personale dell'artista torinese. Tra opere inedite e lavori nuovi, l'artista racconta la bellezza naturale di questa porzione di Francia


Marisa Merz, torinese, classe '31,  figura di spicco dell'Arte Povera,  moglie del grande Mario (senza rimanerne mai oscurata, con alle spalle celebrazioni da Documenta di Kassel al Centre Pompidou di Parigi,  alla Tate Modern di Londra, fino al premio speciale della Biennale di Venezia nel 2001) è una di quelle artiste somme, originali e suggestive che sa esplorare con grazia leggera e sopraffina l'intimo legame tra l'arte e la vita. Lo fa con le sue creature fragili ed introspettive, sculture di argilla e cera, materiali molli, esili superfici di metallo e fili tessuti di rame, ma anche grandi tele che tratteggiano in un limbo evanescente esangui volti femminili che parlano in un silenzio assordante. Un'energia estetica d'una femminilità vibrante che trova oggi la sua ideale collocazione nelle sale del Centre international d'art et du paysage de l'île de Vassivière che nella sua struttura perfettamente bilanciata con l'ambiente, una vera e propria isola, dialoga in armonia con il lago di Vassivière, uno dei più grandi bacini artificiali della Francia, incastonato a nord del parco regionale di Millevaches, da cui si gode un panorama mozzafiato di gioielli naturalistici. 


E' qui che fino al 26 settembre può essere ammirata la mostra personale di Marisa Merz a cura di Chiara Parisi che inanella eccezionalmente lavori inediti e nuove produzioni realizzate appositamente per gli spazi espositivi francesi, profondamente ispirati alla dimensione femminile, dove i reperti di un vivere quotidiano sono trasfigurati in apparizioni evocatrici di spazi intimi. Come dice la curatrice, "Marisa Merz è l'immagine di una potente e grande femminilità, di un'energia primordiale. La fragilità che in un primo momento sembrerebbe dominare tutta la sua opera, altro non è che l'apparenza da cui emerge progressivamente la forza e la grande trasgressione della sua opera".  

Il percorso all'interno del Centre international d'art et du paysage diventa un paradigma di questo forza, tanto che si può dire che tutta l'isola sia la mostra. L'idea dell'artista è quello di instaurare affinità elettive tra il suo universo visionario e le energie naturali che caratterizzano l'isola di Vassivière. Un'intima fusione di natura e vita che parte dal nucleo cilindrico postmoderno di Aldo Rossi, vertice ascensionale dell'intero centro museale. Qui i fili d'erba d'un prato verde dialogano con le filiformi figure azzurre che animano un grande quadro realizzato su carta giapponese e illuminato da una cornice con trame di rame, in un contrappunto musicale perfetto con l'ovale azzurro, in cera. 

Il percorso, poi, diventa un incunearsi negli spazi intimi del centro attraverso il gioco meticoloso delle opere allestite. Ecco i volti schizzati al centro delle  tele come "un vuoto, un'emozione", per dirla con l'artista, grovigli di linee ondulate e sottili, eterei volti femminili appaiono lentamente con un'infinita delicatezza, segni evanescenti che all'improvviso prendono corpo in testine d'argilla posate ai piedi della tela.  "L'artista  -  sottolinea la curatrice -concepisce la sua arte 'tutto come la vita', vede il mondo come soggetto a un continuo cambiamento, un passaggio di stato chimico e alchemico, una progressiva evoluzione, che è sottintesa a tutte le forme che portano dentro la loro struttura, la possibilità di diventare un'altra forma".  

"Nel mio immaginario  -  rivela Marisa Merz - quello che scopro, non lo chiamo conoscenza, per me, è la felicità. Appena diventa conoscenza, la felicità è perduta. D'accordo, non riesco sempre a fare in modo che non diventi conoscenza, ma qualche volta ottengo quest'istante di felicità. E' la felicità legata al contatto con me stessa e al contatto con il mondo, e al rapporto tra i due. La trasformazione in conoscenza è quasi simultanea, inevitabile. Non so se la conoscenza contiene del dolore. Credo che sia la ripetizione, una cosa che conosci già. A differenza della felicità che è una sorpresa, uno stupore, quell'instante preciso, ecco. Ma io ho uno spirito bizzarro". Una curiosità, le audio-guide sono in formato Ipod e contengono riflessioni, perplessità e storie sul lavoro dell'artista da parte di studiosi e personalità del mondo dell'arte, da Danilo Eccher a Dieter Schwarz. 

E per chi vuole scoprire nel dettaglio questo singolare museo, all'estremità dell'edificio di Aldo Rossi, quella che è la sua caffetteria, che si affaccia sul lago di Vassivière, spicca il padiglione del tè creato appositamente per lo spazio dall'architetto Kengo Kuma. E' il Fu-an, visibile fino al 5 settembre, "uno spazio per la cerimonia del tè che fluttua nell'aria", lo definisce lo stesso artista: "E' concentrandosi sull'essenziale e sul forte senso di poesia, che possiamo creare, all'interno di zone incompiute, uno spazio di vita raffinato che generi delle nuove e importanti idee'. Kengo Kuma reinterpreta la caffetteria di Aldo Rossi trasformandola in una struttura luminosa, leggera, che invita alla contemplazione e al raccoglimento, in cui vivere un'esperienza estetica e gustativa come si ritrova nelle case tradizionali giapponesi, nello spazio consacrato alla cerimonia del tè. 

Notizie utili  -  "Marisa Merz", fino al 26 settembre 2010, Centre international d'art et du paysage, Ile de Vassivière, Francia. Orari: aperto tutti i giorni dalle ore 11 alle ore 19. Ingresso: intero €3 euro, ridotto €1,5 euro. Informazioni: .: +33 (0)5 55 69 27 27, www.ciapiledevassiviere.com 2

FONTE: Laura Larcan (repubblica.it)

venerdì 20 agosto 2010

MAIOLICHE IN ROCCA. La collezione di Gisèle Brault-Pesché



Trecento e più pezzi rari e rarissimi: una strepitosa collezione privata di maioliche delle grandi manifatture europee e orientali è esposta sino al 31 ottobre alla Rocca Borromeo di Angera sul Lago Maggiore. La collezione è il frutto della passione, del gusto e della competenza di Madame Gisèle Brault-Pesché, proprietaria del Petit Museè du Costume di Tours. Madame ha “legato” alla Principessa Bona Borromeo Arese le sue magnifiche raccolte di arti applicate che comprendono, oltre alle maioliche, mobili, antichi giocattoli, automi: le passione di una vita.

Studiate, classificate, restaurate, le antiche maioliche di Madame Brault-Pesché sono esposte all’interno della Sala della Mitologia della Rocca. Di provenienza francese, tedesca, olandese, italiana, spagnola, persiana, cinese, le maioliche, ceramiche e porcellane della Collezione Brault-Pesché documentano l’evoluzione degli stili e delle principali manifatture europee, con particolare risalto a quelle francesi, celebri in Europa e nel mondo. Con i pezzi di provenienza europea, la mostra propone anche esemplari di origine orientale, tutti scelti con l’attenzione e la cultura del collezionista: pezzi rari, particolari, talvolta curiosi, sempre di assoluta qualità.

Tra le maioliche di maggior pregio, un rarissimo Delft Dorè olandese ispirato alle porcellane Imari, piatti settecenteschi della manifattura di Nevers raffiguranti figure, paesaggi, stemmi araldici, alcuni straordinari bacili con dipinti gli alberi della vita, scene galanti, galeoni, preziosi piatti cinesi della Famiglia Verde, quello assai particolare della Compagnia delle Indie che mostra una singolare scena con galli, esemplari spagnoli di decorazione moresca a smalti iridescenti, i curiosi piatti di Moustiers con dipinti soggetti caricaturali, popolari, patriottici. Tutti esempi di alta maestria artistica e curiosità al tempo stesso.

L’allestimento, firmato da Filippo Perego, in collaborazione con il curatore del Museo della Bambola e del Giocattolo Marco Tosa, ripropone l’aspetto originale della raccolta, così com’era disposta nella casa di Tours, una sorta di “tappezzeria” fitta e colorata che ricopriva le pareti di sale e salotti.

La mostra offre un motivo in più per visitare la medievale Rocca Borromea, conosciuta anche come la “Casa delle Bambole”. Alle bambole (e ad una rarissima raccolta di automi perfettamente funzionanti) sono dedicate molte delle sale del piano terra dello storico edificio. I grandi Saloni del Piano Nobile del maniero, molti dei quali recentemente restaurati e in parte ricoperti di cicli affrescati plurisecolari, accolgono arredi d’epoca ed ora anche questa preziosissima Collezione. Ulteriore motivo di interesse della Rocca è il percorso dedicato ai Giardini Medievali, con sale interattive di introduzione e i giardini veri e propri che si estendono intorno al castello. Questi giardini sono uno dei tre “Paradisi Borromeo” sul Lago Maggiore, insieme ai Giardini Rinascimentali dell’Isola Bella e a Parco Romantico dell’Isola Madre.

Per informazioni e prenotazioni: (+39) 0323 30556. www.borromeoturismo.it

martedì 17 agosto 2010

Giambattista Tiepolo tra scherzo e capriccio

Capricci e scherzi d'autore ad Udine. E' un Tiepolo inedito ed intrigante quello che si rivela nelle sale del Castello. Esoterico, intriso di mistero e ricco di simoboli alchemici e di rimandi alla cultura sapienziale Tiepolo stupisce e attira i visitatori in un viaggio all'interno del “sapere nascosto” e recondito.

Immagini che si svelano a chi le sa leggere a chi sa cogliere il messaggio criptato: un gioco allusivo e ricco di suggestioni che porta direttamente nel cuore della cultura del Settecento veneto. Una cultura che apparentemente si mostra chiara e comprensibile ma che rivela il senso ultimo solo a chi è in grado di coglierlo.

Un Tiepolo affascinante e soprattutto inedito viene rivelato grazie ad un sapiente lavoro di ricerca delle curatrici (Cristina Donazzolo Cristante e Vania Gransinigh) della mostra che sono riusciti a riunire ad Udine, a 40 anni dall’ultima loro storica esposizione il corpus completo della produzione grafica dell’artista veneziano insieme ad una selezione di suoi disegni, opere direttamente collegate ai temi delle incisioni. Il tutto affiancato dagli oli del Tiepolo e dei tiepoleschi patrimonio delle Gallerie d’Arte udinesi e dai cicli di affreschi che i Tiepolo, Giambattista e Giandomenico, hanno lasciato in città e che valgono ad Udine l’appellativo di “Città di Tiepolo”.

La mostra rientra, ed è anzi una delle proposte di punta, delle “Giornate del Tiepolo 2010”, programma ideato e gestito dall’Assessorato alla Cultura del capoluogo friulano, che propone, ogni anno itinerari tiepoleschi, concerti di musica barocca, momenti di approfondimento storico e scientifico, tutto intorno appunto al marchio “Udine Città del Tiepolo”.
“Di spiritoso e saporitissimo gusto” è il giudizio entusiasta che lo Zanetti profferì nell’ammirare per la prima volta, affascinato, le incisioni di Tiepolo. A colpirlo innanzitutto fu l’uso della tecnica dell’acquaforte: le figure sembrano schizzate senza alcuna esitazione, sull’impeto del momento, di getto, si direbbe. Del resto “concepire, disegnare, intagliare non è che un istante per me..”, ebbe a chiosare Tiepolo stesso.


Ma la mostra di Udine è anche un'occasione importante per conoscere meglio, e da vicino, l'estro di Tiepolo genio della pittura. Un Tiepolo che colora i cieli di rosa e di azzurro che rende le nuvole soffici e candide come panna appena montata, che sa drappeggiare broccati e sete preziose attorno ai corpi di angeli e santi esili ed eleganti.

Tiepolo che apre e scoperchia soffitti e tetti di chiese e Palazzi con cieli fantastici dai colori nuovi e cangianti. Tiepolo che inventa e crea una realtà che fa da sfondo ai personaggi immortalati. Tiepolo che amplia la tavolozza e la rende pastosa e morbida ma sempre incandescente e rutilante.Tiepolo che ha in Udine una vera seconda patria, dopo Venezia. Udine da visitare e da gustare seguendo le opere di Giambattista e perdendosi nelle suggestioni della sua pittura.

Qui, in questa città nel cuore del Friuli, Tiepolo arriva nel 1725 su invito del patriarca Dionisio Dolfin, per decorare il suo palazzo, appena ristrutturato. Il primo affresco che esegue è il soffitto dello scalone, con La caduta degli Angeli ribelli, per passare poi alla decorazione della Cappella del Sacramento del Duomo.

Quando arriva a Udine, Tiepolo è ancora legato alla pittura accademica, ma qui trova un ambiente particolarmente favorevole, che, diversamente da quello veneziano saturo di artisti e di rivalità, è caratterizzato da una committenza forse più “ruspante” ma certamente più aperta, che gli consente anche nuove sperimentazioni.

Il momento più importante è il ciclo degli affreschi della “Galleria” nel Palazzo Patriarcale: è il suo primo importante intervento pittorico su larga scala, quello in cui riesce a svincolarsi definitivamente dalla tradizione barocca, per elaborare un linguaggio autonomo e originale.

Dopo il Palazzo patriarcale Tiepolo continua a lavorare a Udine: oltre alla Cappella del Sacramento nel Duomo, realizzerà anche gli affreschi del Castello, due dipinti in Palazzo Caiselli, le due tele per la Chiesa dei Filippini; il clamoroso e rivoluzionario Consilium in arena, per ricordare e celebrare un momento importante per la nobiltà udinese, che aveva ottenuto (faticosamente) di essere iscritta, come la nobiltà veneziana, nell'Ordine di Malta, e la decorazione della Chiesa della Purità, con la collaborazione del figlio Giandomenico.

Tiepolo e Udine: un dialogo mai interrotto e che, adesso con l'iniziativa dell'Assessorato alla Cultura, è destinato a ripetersi ogni anno per regalarci mostre ed eventi ma soprattutto incontri ravvicinati con il genio di questo artista. Info per la visita alla Mostra: PuntoInforma tel. 0432 414 717 – 8 puntoinforma@comune.udine.it www.udinecultura.it Ulteriori informazioni:www.comune.udine.it 
di Natalia Encolpio

venerdì 13 agosto 2010

Impegno & dissacrazione a Como irrompe Hans Haacke


La Fondazione Ratti celebra, con la prima personale italiana, il tedesco fautore di un impegno che sfida da sempre potere e mercato. Lui, sull'abside dell'ex chiesa di San Francesco, tra gli affreschi sacri, proietta in tempo reale le tre reti Mediaset


Trent'anni fa il Guggenheim Museum di New York decideva di bloccare una sua mostra personale in seguito a un sondaggio rivolto ai visitatori. A fare scalpore erano state due opere che prendevano di mira gli imperi immobiliari della Grande Mela. Da allora, nulla è cambiato nella creatività di Hans Haacke, classe '36, tedesco ma americano d'adozione da una vita, celebrato in almeno quattro edizioni di Documenta, vincitore nel 1993 con Nam June Paik il Leone d'Oro per il miglior padiglione della Biennale di Venezia (il suo era la Germania), e che dopo un acceso dibattito nazionale, può vantare dal 2000 una sua installazione permanente all'interno del Reichstag di Berlino, la sede del Parlamento tedesco. 
Haacke ha sempre scelto di impregnare la sua arte di un impegno polemico e provocatorio, macinando tematiche scottanti come il potere economico e mediatico, il mercato, la libertà di espressione, le responsabilità civili in una società democratica. La sua irruenza sulla scena contemporanea all'inizio puntava sullo studio ravvicinato e al vetriolo di processi fisici e organici, poi l'interesse di Haacke si è progressivamente spostato sul contesto socio-politico in cui l'arte viene esposta e commercializzata. E in Italia non fa sconti a nessuno. Dopo aver presieduto come visiting professor la sedicesima edizione del Corso Superiore di Arti Visive della Fondazione Antonio Ratti dal titolo "Give and take", ha portato i suoi lavori concepiti ad hoc per gli ambienti dello Spazio Culturale Antonio Ratti per la sua prima personale italiana, godibile fino al 5 settembre. 

Strumento clou del suo intervento è un'inedita strategia di videoproiezioni, che si dipana in tre lavori perfettamente calibrati con i dettagli architettonici e il complesso degli affreschi dell'ex-chiesa di San Francesco. Si parte dalla fine orchestrazione di immagini televisive tratte dall'etere Mediaset che gorgheggia sull'abside della chiesa sconsacrata. Titolo della composizione multimediale è "Once Upon a Time...", dove con malcelata audacia insiste sulla forza provocatoria dell'abbinamento di ambientazione sacra e irruenza profana. Haacke infatti proietta nelle parti mancanti degli affreschi seicenteschi dell'abside, cancellate e compromesse dai danni prodotti dal tempo, le tre reti Mediaset in tempo reale, creando una sorta di collage tra le immagini sacre e quelle che lui definisce "immagini mutevoli della cultura imprenditoriale dell'Italia di oggi". 
Da qui ci si tuffa nella monumentalità della navata centrale dove ondeggia come un fiume in piena lungo la pavimentazione un lavoro del 1967, "Wilde White Flow", rivisitato per l'occasione e reinstallato in grandi dimensioni in affinità suggestiva con lo spazio, facendo leva sul vezzo della seta, in omaggio alla storia serica comasca. 

Nelle navate laterali della chiesa e negli spazi retrostanti l'abside è invece installata l'opera "The Population meets St. Francis", che rievoca indirettamente il suo lavoro permanente al Reichstag di Berlino. Qui sfilano una serie di  fotografie dedicate alle piante cresciute spontaneamente in un cortile esterno del Parlamento tedesco. Le piante sono frutto dell'ambizioso progetto partecipativo ideato dall'artista stesso, col titolo "Der Bevölkerung" (Alla popolazione), iniziato nel 2000, che prima di venire approvato dal Bundestag (il parlamento federale tedesco) con una maggioranza molto ristretta, aveva suscitato un violento dibattito nazionale. Haacke aveva chiesto ai parlamentari tedeschi di portare la terra impura delle regioni che rappresentavano, da cui far germogliare le piante spontanee. Dalla sua inaugurazione, avvenuta 10 anni fa, più di 280
parlamentari tedeschi hanno partecipato a questa performance bucolica. Come sottolinea l'artista, "la dedica a tutti i residenti del paese vuole rovesciare il senso di esclusione e la pesantezza
storica dell'iscrizione Dem Deutschen Volke , ossia al Popolo Tedesco, posta sulla facciata dell'edificio".

FONTE: Laura Larcan (repubblica.it)

mercoledì 11 agosto 2010

La vita segreta di Caravaggio a Roma

A metà dicembre in mostra i documenti dell'Archivio di Stato


Nessuno possiede più documenti su Caravaggio: circa 70. «Cadevano letteralmente a pezzi e non ci davano un euro per i restauri», dice Eugenio Lo Sardo, direttore dell’Archivio di Stato di Roma; «da anni, nessuno li studiava». Anche se la crisi economica («100 mila euro di debiti ogni 12 mesi») è spaventosa «e forse ci obbligherà a chiudere», l’Archivio ha rimesso a posto quelle carte: le hanno studiate in otto, guidati da due funzionari, Orietta Verdi e Michele Di Sivo; da metà dicembre, una mostra racconterà la Vita dal vero di Caravaggio a Roma, e le sorprese non mancheranno. Farsele dettagliare tutte adesso, non si può; ma già solo le prime destano grande rumore.

«Pensiamo di aver individuato in una Faustina, padre spagnolo e madre napoletana, vedova di un pittore non molto noto, Lorenzo Carli sposato a 19 anni che le aveva dato quattro figli, la modella che Caravaggio usa per la Santa Caterina d’Alessandria, ora a Madrid, Museo Thyssen, e per la Giudittanella scena con Oloferne che è a Palazzo Barberini; lei, doveva avere tra i 26 e i 27 anni», dicono Lo Sardo e i due curatori. Poi raccontano una storia intricata, fatta di due barbieri che abitano a un passo dal palazzo del cardinal Del Monte, primo mecenate del maestro, che è Palazzo Madama, attuale sede del Senato; uno dei due vede spesso il pittore a casa della (giovanissima) vedova, «di cui, peraltro, sappiamo tutto: anche che si sposò senza dote, e con l’aiuto di Santa Caterina della Rota. Viveva a 100 metri da qui, in via di Sant’Agostino; e un barbiere, a Pozzo delle Cornacchie, davanti al palazzo del Cardinale». Sempre lo stesso, piccolissimo, fazzoletto della città.

E’ l’affascinante storia di una ricerca approfondita; che, come tale, regala sempre sorprese. «Per esempio», spiega Di Sivo, «la faccenda dello stupro di Artemisia Gentileschi: è da intendere non come oggi; all’epoca, era una promessa di matrimonio non mantenuta; dopo 10 mesi di rapporti con una donna vergine, peraltro consenziente, l’abbandono veniva qualificato così».

Con lui e Orietta Verdi, in Archivio dal 1978, sui documenti di Caravaggio hanno lavorato «giovani o non più giovani: tutti tra i 30 e 36 anni, bravissimi; sono ricercatori formatisi qui, cui noi cerchiamo di dare un po’ di lavoro, almeno quattro soldi». Le povertà stringono la cinghia; ma davvero anche il cuore; ha quasi un sapore di ingiustizia. «Se dovremo chiudere, sbarreremo la porta anche a numerosi uffici del Senato, che sono sopra noi»: perché addirittura Sant’Ivo alla sapienza, tra i massimi tesori di Borromini, è in condominio, e l’Archivio divide i propri 50 chilometri di scaffali tra due sedi, l’altra è a Galla Placidia. In questi chilometri, troppo poco sfruttati, c’è davvero tutto: dall’omicidio di Giordano Bruno, alle storie d’ogni artista vissuto a Roma; «le carte di Michelangelo sarà dal 1980 che nessuno le studia più».

L’esposizione si farà anche grazie a un discreto numero di sponsor «trovati uno a uno»: la Federazione Tabaccai, Land Rover, la Banca d’Italia, un difficile accordo con Arcus, altri ancora. Ma torniamo a Caravaggio: «Con i documenti, vorremmo esporre 20 dipinti, suoi e non solo, riferiti a questre vicende».

«Calvesi non è più riuscito a leggere il nome, incerto, sul pagamento per la Deposizione che è in Vaticano»: ecco cosa produce l’impossibilità d’un restauro. Anche l’allestimento della Sala Alessandrina, sparito, è da reinventare. Seguono le storie di bastonate; denunce per il porto di pugnale; di ferraioli (mantelli) portati via e restituiti; il processo intero cui Caravaggio fu sottoposto; l’ultimo contratto di affitto a Roma. E lui che rompe un soffitto in via di San Biagio, solo perché era un intemperante? «Ma no: per avere più luce, pratica soltanto un foro». Tutti documenti che sono stati corretti e trascritti, per non equivocare: come spesso, purtroppo, accade. 

FONTE: Fabio Isman (ilmessaggero.it)

martedì 10 agosto 2010

Guston, il traditore dell'astrattismo

Al Museo Bilotti un protagonista del dopoguerra


C’è un quadro emblematico, a siglare questa curiosa mostra, molto di studio, ben congegnata, ma forse un po’ troppo mono-tematica, per far conoscere agli italiani, nella sua complessità sanguinante, quel pittore singolare, che fu Philip Guston (1913-80) protagonista della New York School, ma con poco da spartire, sia con l'Espressionismo Astratto gestuale che con la Pop. Con la sua inconfondibile «scrittura» grossolana ed infantile, intorno ad un cavalletto che pare piuttosto un cartello stradale da fumetto western (nulla da spartire con il retino di Lichtenstein) ed una pendula lampadina nuda, che scende sino a terra, Guston lascia navigare alcuni nomi nel vuoto: Masaccio, Piero, Giotto, de Chirico, Tiepolo, che fanno parte del suo Pantheon ideale (questo il titolo dell’opera, datata 1973). La sua carta del Tenero.

La lampadina sostituisce l’oculo al vertice del Pantheon, monumento laico, che sacralizza i grandi nomi patrii, visitato dalla coppia Guston «in estasi», in quel lungo soggiorno romano, all’American Academy. E forse è una citazione traslata, inconscia, della lampadina di Guernica, anche se probabilmente Picasso non rientra troppo in quel Pantheon originale (meglio allora Orcagna o Signorelli, Beckmann o Ensor, evocati tutti dalla moglie poetessa Musa McKin, in un diario pubblicato per la prima volta in questo bel catalogo: evidente journal di viaggio a quattr'occhi). De Chirico, certo: scoperto da giovane e responsabile della sua passione di pittore. Manichini-marionette ed architetture nude. Tiepolo, non tanto per il «rosa Tiepolo», evocato da Calasso, ma per i funerei Pulcinella incappucciati, che ritroviamo anche in queste vedute romane, in cui diventano vele enfie di nulla, cappucci che non fanno vedere, piramidi. Perché quel terzo viaggio italiano (1970-71) è un vero viaggio di fuga, dopo il «disperato» periodo seguito alla mostra, epocale, alla Malborough Gallery, che segna il ritorno di Guston al figurativo (dopo un lungo periodo di pittura astratto-vibratile-stratificata). Ed un clamoroso insuccesso di critica, di sprezzo, che lo rende fragile ed ombroso. 

Non basta la «sbornia» di arte antica italiana, a salvarlo: tornano anche qui quei quasi ossessivi cappucci da Ku Klux Klan, che hanno siglato la mostra new-yorkese, suggestionata dalle manifestazioni anti-Vietnam. E che egli ritrova però, compulsivamente, anche nel suo salvifico Grand Tour: nei flagellanti delle Madonne della Misericordia di Piero, nel Signorelli di Orvieto, in Giordano Bruno martire, nelle processioni dei penitenti al Colosseo (e forse quel rosa dentiera o cheewing-gum, che domina la sua bicromia percussiva, lo va a pescare proprio nelle sanguigne delle vedute settecentesche). Classicità tradotta nei suoi «pupazzi» grotteschi (come li chiamerà l'amico Toti Scialoja, durante una lite furiosa, in difesa dell’astrattismo, da lui rinnegato). Aggallano mattoni, scarpe e rustiche suole (ricordo della Shoah) i cappucci hanno occhiali da sole e fumano sigari da mafiosi, i libri squadernati paiono dolmen o fette di salame. In modo molto differente dai pop artisti, Guston, «stufo di troppa purezza» inespressiva ed impersonale, vuol proprio combattere quel puritanesimo d’avanguardia integralista, d’un vate come Clement Greenberg, che con il credo minimalista, voleva «epurare l’opera d’arte del contenuto esplicito». Imitando le insegne delle corporazioni gotiche, che isolano gli utensili in tabelle enciclopediche, Guston ripristina così la terza dimensione, ispirandosi a Flatlandia di Abbott. E dissemina il suo orizzonte di goffi cipressi, di fontane puerili, di grandi scarpe, bio-monumenti alla verità del semplice.

FONTE: Marco Vallora (lastampa.it)