Al Museo Bilotti un protagonista del dopoguerra
C’è un quadro emblematico, a siglare questa curiosa mostra, molto di studio, ben congegnata, ma forse un po’ troppo mono-tematica, per far conoscere agli italiani, nella sua complessità sanguinante, quel pittore singolare, che fu Philip Guston (1913-80) protagonista della New York School, ma con poco da spartire, sia con l'Espressionismo Astratto gestuale che con la Pop. Con la sua inconfondibile «scrittura» grossolana ed infantile, intorno ad un cavalletto che pare piuttosto un cartello stradale da fumetto western (nulla da spartire con il retino di Lichtenstein) ed una pendula lampadina nuda, che scende sino a terra, Guston lascia navigare alcuni nomi nel vuoto: Masaccio, Piero, Giotto, de Chirico, Tiepolo, che fanno parte del suo Pantheon ideale (questo il titolo dell’opera, datata 1973). La sua carta del Tenero.
La lampadina sostituisce l’oculo al vertice del Pantheon, monumento laico, che sacralizza i grandi nomi patrii, visitato dalla coppia Guston «in estasi», in quel lungo soggiorno romano, all’American Academy. E forse è una citazione traslata, inconscia, della lampadina di Guernica, anche se probabilmente Picasso non rientra troppo in quel Pantheon originale (meglio allora Orcagna o Signorelli, Beckmann o Ensor, evocati tutti dalla moglie poetessa Musa McKin, in un diario pubblicato per la prima volta in questo bel catalogo: evidente journal di viaggio a quattr'occhi). De Chirico, certo: scoperto da giovane e responsabile della sua passione di pittore. Manichini-marionette ed architetture nude. Tiepolo, non tanto per il «rosa Tiepolo», evocato da Calasso, ma per i funerei Pulcinella incappucciati, che ritroviamo anche in queste vedute romane, in cui diventano vele enfie di nulla, cappucci che non fanno vedere, piramidi. Perché quel terzo viaggio italiano (1970-71) è un vero viaggio di fuga, dopo il «disperato» periodo seguito alla mostra, epocale, alla Malborough Gallery, che segna il ritorno di Guston al figurativo (dopo un lungo periodo di pittura astratto-vibratile-stratificata). Ed un clamoroso insuccesso di critica, di sprezzo, che lo rende fragile ed ombroso.
Non basta la «sbornia» di arte antica italiana, a salvarlo: tornano anche qui quei quasi ossessivi cappucci da Ku Klux Klan, che hanno siglato la mostra new-yorkese, suggestionata dalle manifestazioni anti-Vietnam. E che egli ritrova però, compulsivamente, anche nel suo salvifico Grand Tour: nei flagellanti delle Madonne della Misericordia di Piero, nel Signorelli di Orvieto, in Giordano Bruno martire, nelle processioni dei penitenti al Colosseo (e forse quel rosa dentiera o cheewing-gum, che domina la sua bicromia percussiva, lo va a pescare proprio nelle sanguigne delle vedute settecentesche). Classicità tradotta nei suoi «pupazzi» grotteschi (come li chiamerà l'amico Toti Scialoja, durante una lite furiosa, in difesa dell’astrattismo, da lui rinnegato). Aggallano mattoni, scarpe e rustiche suole (ricordo della Shoah) i cappucci hanno occhiali da sole e fumano sigari da mafiosi, i libri squadernati paiono dolmen o fette di salame. In modo molto differente dai pop artisti, Guston, «stufo di troppa purezza» inespressiva ed impersonale, vuol proprio combattere quel puritanesimo d’avanguardia integralista, d’un vate come Clement Greenberg, che con il credo minimalista, voleva «epurare l’opera d’arte del contenuto esplicito». Imitando le insegne delle corporazioni gotiche, che isolano gli utensili in tabelle enciclopediche, Guston ripristina così la terza dimensione, ispirandosi a Flatlandia di Abbott. E dissemina il suo orizzonte di goffi cipressi, di fontane puerili, di grandi scarpe, bio-monumenti alla verità del semplice.
FONTE: Marco Vallora (lastampa.it)
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