lunedì 2 marzo 2015

Note dalla doppia vita di Canetti

La raccolta  di massime dedicata  nel  1942  alla donna nella cui casa Elias lavorava

Elias Canetti conobbe Marie-Louise von Motesiczky nel 1939 o nel 1940. Lei discendeva da un’illustre famiglia di ebrei viennesi assimilati: veniva considerata una grande bellezza; un veliero che scivolava sull’oceano del mondo. Lui era un ebreo di recente immigrazione dall’Europa orientale: era brutto, tozzo, goffo; e ne soffriva. Divennero amanti: la loro amicizia durò oltre mezzo secolo, e finì soltanto con la morte dello scrittore. Egli le dedicò dei bellissimi aforismi nel settembre e nell’ottobre 1942 (Aforismi per Marie-Louise, Adelphi, nella traduzione di Ada Vigliani): i quali ricordano da vicino quelli contenuti nel suo capolavoro, La provincia dell’uomo (Adelphi, traduzione di Furio Jesi). I due si conobbero a Londra, al tempo dei bombardamenti tedeschi; e la lasciarono per trasferirsi ad Amersham, un grazioso sobborgo della grande città. Canetti teneva i suoi libri a casa della Motesiczky, dove leggeva e scriveva. Non lasciò mai la moglie Vera: il rifiuto di Canetti di scegliere Marie-Louise fece soffrire e logorò l’amica, che lo attese invano per anni. Canetti era duro, superbo, orgoglioso: nutriva disprezzo e una specie di gelosia per tutti gli altri; persino verso gli scrittori che amava e imitava. 


Nutriva lo stesso odio per gli uomini che Karl Kraus aveva provato per il mondo. «Era talmente altezzoso che avrebbe voluto regalare sempre qualcosa a Dio». Era insaziabile, in tutti i sentimenti e le idee e le sensazioni. Voleva vivere come se avesse dinanzi a sé un tempo illimitato: aveva una fame di smisuratezza; e giudicava questa fame grandiosa e magnifica. Disprezzava la storia: al contrario della Genesi, pensava che «la creazione non fosse buona». Da molti anni dedicava la parte maggiore del proprio tempo all’elaborazione della sua opera fondamentale, Massa e potere. Avvertiva questo impegno come una specie di ossessione: sentiva in sé un’oppressione che acquistava dimensioni pericolose; e diventò indispensabile per lui crearsi una valvola di sfogo. Al principio del 1941 la trovò nei suoi quaderni di appunti, dove elaborava aforismi. La loro libertà, la loro spontaneità, la convinzione che i quaderni non servissero ad alcun scopo, l’assenza di responsabilità per cui non li rileggeva mai, lo salvarono dall’irrigidimento quotidiano. A poco a poco divennero un indispensabile esercizio. Respirava: respirava con assoluta libertà e naturalezza.



Viveva senza nessuno scopo, neppure pensando all’eternità. Lasciava liberi gli altri, abbandonando qualsiasi forma e desiderio di potere. Leggeva, leggeva insaziabilmente: sempre nuovi scrittori, sempre nuovi libri; e questa attitudine apparentemente passiva diventò il cuore e lo spunto della sua attività. Non era distante da Leopardi: solo ciò che aveva letto gli permetteva di captare la vita; e senza ciò che aveva letto non esisteva. Amava soprattutto i miti: lo scopo della sua vita era di conoscere profondamente i miti di tutti i popoli. Studiava la Bibbia: la sua terribilità lo consolava e lo liberava dall’ossessione del nazismo, che allora avvolgeva e costringeva tutte le menti. Ciò che lo toccava sempre da vicino era la fede, di qualsiasi genere: si sentiva tranquillo in ogni fede finché sapeva di poterla abbandonare. Si legava ad ogni fede e poi giocava con essa; e non riusciva neppure a dire quanto divenisse lieto e sicuro nel farlo. Ammirava sé stesso mentre giocava col tutto e con il sacro. La sua gioia non aveva fine, e si sentiva superiore a sé stesso, superiore a qualsiasi tema e argomento. «Io voglio andare sempre più avanti», commentava. Ma temeva che la possibilità di ampliamento del proprio spirito fosse limitata. Sopra ogni cosa, evitava lo spirito di sistema: aveva bisogno di conoscere tutti i costumi, i pensieri e le abitudini e le vicende degli uomini, recuperando la verità trascorsa perché quella ulteriore era vietata. Teneva separati i pensieri, a forza: essi formavano troppo facilmente un intrico, una capigliatura. 



Non si legava mai a un solo metodo: sfuggiva l’angustia delle discipline stabilite. Si guardava dalle chiusure: che ci fossero aperture, che ci fosse spazio, questo era il suo pensiero dominante. Detestava il solido e il corposo: disprezzava la realtà, sebbene fosse fortissimo, in lui, il desiderio di descriverla e di raccontarla. Amava il vento — «l’unica cosa libera nel mondo» —: tutto ciò che si muove, si sposta, si aggiunge. Adorava il silenzio. Ma, al tempo stesso, lo spirito aforistico dominava la sua mente che cercava di fissare e fissava tutto ciò che, in lui, era mobile e agitato. La verità doveva venire fermata. Un pensiero dominava, in lui, tutti gli altri pensieri: quello della morte. Voleva cancellare la morte: voleva che nessun uomo morisse più; non accettava la morte, mentre tutti la accettavano. «Nella vita la cosa più audace — scriveva — è odiare la morte: sono disprezzabili e disperate le religioni che attenuano questo odio». «Bisogna odiare la morte, quella di chiunque come la propria, far pace una volta con tutto, mai con la morte». Cercava di raggiungere l’immortalità per gli uomini: un obiettivo concreto, serio, riconosciuto, che inseguiva con tutte le proprie forze. Quando, un giorno, gli uomini riusciranno a cacciare la morte dal mondo, non possiamo prevedere ciò che saranno in grado di immaginare, di credere, di essere.

FONTE: Pietro Citati (corriere.it)

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