martedì 25 febbraio 2014

Berlino: la Street Art all'insegna del Blu


La capitale tedesca  definita “la Mecca dei graffiti del mondo urbano”: qui ha trovato largo spazio uno dei dieci migliori street artist al mondo. Ed è italiano...

“La Mecca dei graffiti del mondo urbano”: così Berlino è stata definita da Emilie Trice, critica d'arte internazionale. Ma anche l'UNESCO ne ha osannato le peculiarità architettoniche, battezzandola come “città del design”. Negli ultimi anni, poi, la città tedesca ha visto tante nuove gallerie d'arte aprire le proprie porte a turisti e autoctoni. Con tantissimi spazi dove creatori e cultori possono confrontarsi e ingegnarsi. 
Negli ultimi anni, tra tutte le varie forme artistiche, c'è una che è esplosa e ha contagiato tutta la città: quella dei graffiti, della street art, in tutti i suoi colori e rappresentazioni. I più famosi della città sono quelli della East Side Gallery: 1.300 metri e 106 opere, realizzate tra il 1990 e il 2009, i cui colori donano un nuovo messaggio di speranza lungo tutto lo storico “muro”.  Nelle aree di  Friedrichshain e Kreuzberg, inoltre, la concentrazione di graffiti è particolarmente elevata.
Proprio qui ha trovato ampio spazio anche l'artista italiano Blu, riconosciuto dal Guardian come uno dei dieci street artist migliori al mondo, che ha vissuto in Germania negli anni 2000. Ancora sconosciuta la sua identità, ma tra le poche notizie certe, si sa che è originario di Senigallia, nonostante sia cresciuto artisticamente a Bologna. Attorno a Cuvrystrasse, fra il 2006 e il 2009, grazie alla partecipazione a varie edizioni dei festival Backjump e Planetprozess sono comparsi alcuni dei suoi capolavori, uno di quali realizzato in collaborazione con il fotografo francese J-R. 
Proprio qui, nel 2006, l'artista realizza una delle sue prime animazioni dipinte direttamente sulle pareti, caratteristica che sarebbe divenuta in poco tempo la sua firma per molti suoi video. 

FONTE: FRANCESCO SALVATORE CAGNAZZO (NEXTA)

giovedì 20 febbraio 2014

Tra figura, linea e colore. A Ferrara il genio di Matisse

Tra figura, linea e colore. A Ferrara il genio di Matisse

Nel Palazzo dei Diamanti una mostra incentrata sulla rappresentazione della figura, soprattutto ma non solo femminile, il genere che ha affascinato e impegnato di più l'uomo che, assieme a Picasso, ha rivoluzionato il corso dell'arte nel Novecento


"Quel che sogno è un'arte fatta di equilibrio, purezza e tranquillità... Qualcosa come una buona poltrona". Henry Matisse

Un fauve, una "bestia feroce", così veniva chiamato dai suoi detrattori Henri Matisse, per i colori vivaci e le forme poco convenzionali che utilizzava nei dipinti. In realtà lui era alla ricerca di ben altro, ma ci vollero anni perché riuscisse ad imporre la sua pittura appunto anticonvenzionale. Per farsi un'idea di come il suo percorso sia stato inizialmente tortuoso, e poi anche di considerevole soddisfazione, Ferrara propone a Palazzo dei Diamanti una grande mostra dal titolo "Matisse, la figura. La forza della linea, l'emozione del colore", dove in oltre cento opere, tra tele, sculture e disegni, viene messo l'accento sulla rappresentazione della figura, nodo centrale insieme al colore di tutto il suo lavoro.  

Matisse aveva una predilezione per questo genere pittorico, esaltato dal colore scelto e dato non solo di conseguenza alla composizione, ma con l'intento di creare un'armonia d'insieme, in cui ogni elemento arrivava ad avere identico peso. Accade così nel famoso dipinto "Madame Matisse" del 1905, anno della svolta nel lavoro del maestro, in cui ritrae la moglie Amelie in un abito color geranio contro uno sfondo verde, rosso e blu lavanda, e con il viso diviso in due da una linea verde che dalla fronte scende fino al mento. I tempi però non erano ancora maturi e in quell'insieme all'epoca, nessuno vedeva qualcosa di armonioso. Anzi, al Salon de'Automne di quell'anno, dove il dipinto fu esposto tanto contrastava con una scultura tradizionale posta nella stessa sala, che fu definita come un "Donatello tra le bestie selvagge". Da qui nasce la denominazione "fauve", che velocemente si diffuse sulle riviste e descrisse Matisse come una "belva selvaggia", capace di distruggere e calpestare la pittura accademica. 

In realtà Matisse ha vissuto una vita felice, non è il prototipo dell'artista maledetto. Ha avuto una famiglia alla quale é stato molto legato, la figlia Marguerite era una delle sue modelle preferite.  La costante ricerca di serenità, di equilibrio e di armonia si legge attraverso tutta la sua opera e quello che lui cercava era proprio la perfezione d'insieme tra linea e colore.  Ciò emerge in questa mostra, dove oltre ai dipinti ci sono sculture e disegni, in cui la sua idea di bellezza si compie in maniera perfetta. 

I lavori in esposizione, oltre cento, arrivano da ogni parte del mondo, da collezioni pubbliche e private. Ci sono opere molto importanti come ad esempio il prestito avuto dal Moma di New York, una figura femminile dipinta su un sfondo blu quasi accecante, dal Metropolitan arriva invece una bellissima odalisca degli anni Venti, mentre  dal Giappone è stato dato uno splendido ritratto della figlia, risalente agli anni di Nizza.
 "Abbiamo voluto ricostruire tutta la carriera di Matisse tramite il tema della figura, che era appunto quello che gli stava più a cuore" - ci ha spiegato la direttrice di Palazzo dei Diamanti, Maria Luisa Pacelli - "Nonostante sia un pittore molto conosciuto è difficile intuire quale è il mistero del suo genio e con questa esibizione, che è una sorta di passeggiata all'interno del suo atelier, speriamo si riesca a capire come il suo genio si metteva in moto".  
Matisse è considerato oggi il fondatore del modernismo insieme a Picasso, auspicava il libero uso del colore, la sua influenza si avverte fino agli esperimenti più radicali degli artisti del XX secolo, e i suoi dipinti continuano ad infondere equilibrio, purezza e tranquillità.

FONTE: Valentina Tosoni (repubblica.it)

sabato 15 febbraio 2014

Giacometti in mostra con i suoi bronzi alla Galleria Borghese



È la più grande mostra sull’artista mai organizzata in Italia: 40 sculture di Alberto Giacometti (1901 - 66) da mercoledì fino al 25 maggio alla Galleria Borghese, che è già un “regno” della scultura, ma di quella di Gian Lorenzo Bernini ed Antonio Canova. Sarà un confronto interessante: lo organizzano Anna Coliva, che dirige la Galleria, e Christian Klemm, uno dei massimi esperti dell’artista del Canton Grigioni. La classicità dei marmi degli autori più famosi si coniuga con l’essenzialità dei bronzi, divenuti ormai, anch’essi, tra i più celebri e osannati, resi tipici dal suo “segno” inequivocabile.

Precoce Giacometti comincia giovanissimo: a 18 anni è già a Parigi, alla scuola di Émile-Antoine Bourdelle. Fa parte del gruppo surralista, ma poi se ne va: alla ricerca di una dimensione tutta propria. Già alcune sue realizzazioni di quando aveva 30 anni e nemmeno, entrano presto nei maggiori musei, e in particolare al Modern Art di New York. Dal mito, passa alla diretta osservazione della realtà, e oltre a scolpire, non si stanca mai di disegnare, e di dipingere. Spesso rivisita i propri temi: gli oggetti che lo circondano, i paesaggi, e la madre ed il fratello. La sua Donna di bronzo, esile e filiforme, gli dà fama assoluta; L’uomo che cammina, del 1947, la ribadisce; un’edizione, rivista nel 1960, è forse ancora l’opera d’arte pagata a più caro prezzo al mondo (quadri esclusi): 100 milioni di dollari quattro anni fa, a Londra, pagati da una banca tedesca a un’asta a Londra. Sono lontani, ormai, i tempi dei suoi «oggetti invisibili», che coniugava negli Anni Trenta.

Tutta la vita A Roma, le opere copriranno tutta la sua intera esperienza artistica. Si va dalle forme sinuose della Femme couchée qui reve, Donna distesa che sogna, del 1929, alla Testa che guarda, quasi coeva, che dialogano con la Paolina Borghese», fino al primo Homme qui marche. Altri uomini e altre donne, altissimi e sottili, stilizzatissimi, saranno sparsi nelle sale. Ma sarà anche ricostruito l’incredibile “ensemble” del 1960, a New York, Chase Manhattan Plaza: tre Donne in piedi e un Uomo che cammina, I versione. Ci saranno anche la Donna cucchiaio e la Donna sgozzata, di tempi più antichi; con il Ritratto di Madina Visconti del 1932, laTesta di Annette, del 1959, e quella «del professor Corbetta» del 1962: Serafino Corbetta, medico a Chiavenna e collezionista morto nel 1976, era un suo caro amico. Nella sala dominata dall’enorme affresco di Giovanni Lanfranco, uno dei capisaldi assoluti del barocco, e non soltanto romano, i busti più noti dello scultore: Lothar III del 1965, l’Uomo del 1961, e Annette, 1961. La sposa, che se n’è andata nel 1993 a 70 anni, modella preferita, nella seconda Guerra crocerossina: si conoscono in una brasserie svizzera nel 1942; lei lo raggiunge a Parigi nel 1946; si sposeranno nel 1949; lei non lo lascia più fino alla morte. Oggi, a Parigi e Zurigo, la Fondazione del grande pittore è intestata a loro due.

Poco viste In mostra, anche opere poco viste, di collezioni private. Per esempio, la Femme de Venise V, del 1956, mentre le principali opere, e i più noti capolavori sono ormai sparsi nei maggiori musei del mondo: alla Guggenheim di Venezia (Peggy ne era una fan assoluta), al Pompidou di Parigi, nei maggiori istituti americani. Del suo surrealismo dei primi tempi ha mantenuto un concetto magico dello spazio; spesso, le sue realizzazioni interpretano alla perfezione anche la solitudine tipica dei tempi moderni. Per qualuno, non gli sono aliene nemmeno le ispirazioni tratte dai bronzetti preistorici. L’angoscia che si legge talora in lui è stata anche la molla di una lunga amicizia con Jean-Paul Sartre. Eppure, iniziata la carriera artistica giovanissimo, non è stato precoce nei successi, almeno quelli ufficiali: la Biennale di Venezia, per dirne una, ha atteso fino al 1962 per tributargli il Gran premio; e perfino tre anni in più la città di Parigi. Adesso, arriva a Roma, nella “reggia” della scultura classica: una mostra così, in Italia, non si era mai vista.

FONTE: ilmessaggero.it

giovedì 6 febbraio 2014

Al Vittoriano in mostra da febbraio 65 capolavori del museo d'Orsay

Le repas di Gauguin 
 Tra le “vedette”, ci saranno sicuramente L’Italiana di Vincent Van Gogh, del 1887, che è Agostina Segatori, già modella per Degas e proprietaria del cabaret Tambourin a Boulevard de Clichy a Parigi, dove l’artista s’incontra con i suoi amici Emile Bernard, Paul Gauguin, Henri de Toulouse Lautrec: tra il pittore e la modella nasce una storia, lui decorerà le pareti del cabaret con propri dipinti e stampe giapponesi.
Ma anche Il pasto del 1891: uno dei magnifici quadri che Gauguin realizza a Papeete; vende all’asta 30 dipinti per pagare il viaggio, incassa 9.860 franchi, due mesi esatti fino a Tahiti. O il Cortile di fattoria del 1879, paesaggio fondamentale per Paul Cézanne dopo il tonfo alla mostra degli Impressionisti di due anni prima, nella ricerca di una cifra personale: «Lavorerò in silenzio - scrive - finché non sarò capace di difendere teoricamente i risultati delle mie prove».

Età dell'oro Tre capolavori tra le 65 opere provenienti dal parigino Musée d’Orsay e scelte dal direttore Guy Cogeval, che saranno a Roma, al Vittoriano, dal 22 febbraio all’8 giugno (cat. Skira). Illustreranno una stagione essenziale dell’arte: quella che spazia dal 1848 al 1914: Degas, Manet, Pissarro, Seurat, Monet, Corot, Sisley, per citare soltanto i maggiori nomi. Si passa dalla pittura ancora accademica dei Salon, alle avanguardie del nuovo modo di dipingere, fino ai Nabis e al Simbolismo. Un’autentica rivoluzione. Ma allora, non del tutto accettata. Precursore del Museo d’Orsay è quello del Luxembourg, creato nel 1818 e dismesso al termine della II Guerra: «Quei dipinti davano scandalo», ricorda Cogeval. I primi Impressionisti, accettati appena nel 1894, grazie al lascito di Gustave Caillebotte, uno di loro; ma il pittore Jean-Léon Gérôme protestava, continua Cogeval: «Perché lo Stato accetti simile spazzatura, dobbiamo proprio essere alla degenerazione». E ancora: «Il primo paesaggio di Monet comperato dallo Stato all’artista, è appena del 1907, una delle Cattedrali di Rouen»; ma è acquistato esclusivamente per l’insistenza di Georges Clemenceau, suo amico e primo ministro, grazie al quale noi ora abbiamo anche il tesoro inestimabile delleNinfee. Per queste difficoltà, prima del 1914, tanti collezionisti, sia americani, sia russi, riescono a comperare numerose opere degli Impressionisti; soltanto Albert Coomb Barnes avrà, a Philadelphia, 180 Renoir, 69 Cézanne, 60 Matisse e 44 Picasso, tutti e soltanto del periodo blu e rosa.
Il tesoro è qui Ma la parte più ingente dei tesori di questa stagione sono qui, al Musée d’Orsay, dopo essere stati nel dopoguerra al glorioso Jeu de Paume, divenuto del tutto insufficiente per ospitare i quadri di questo periodo d’oro. Sono al Louvre i dipinti precedenti al 1848, e al Centre Pompidou quelli dei tempi più recenti: successivi al più famoso e celebrato tra i movimenti artistici. E la Capitale mostrerà del museo una completa panoramica cronologica. Dai tempi dell’Accademia e della «nuova pittura», per esempio con Gustave Courbet (la Donna nuda con cane), ai paesaggi, che già preannunciano l’Impressionismo: i pastori e le greggi di Jean-François Millet, una Regata a Argenteuil di Monet, del 1874.
La vita È la vita contemporanea, assai spesso, il soggetto delle opere, di solito eseguite “en plein air”: c’è anche il “nostro” Giuseppe De Nittis, con la Piazza delle Piramidi a Parigi, che si stava rinnovando; o ancora Monet, che eterna, sulla Senna, Gli scaricatori di carbone. Il Simbolismo sarà poi rappresentato, per citarne un paio, dalla Pianta verde in un’urna di Odilon Redon, come da un Ritratto di Félix Vallotton opera di Edouard Vuillard: i pittori d’allora usavano assai spesso ritrarsi a vicenda. La mostra, che giustamente s’intitola Musée d’Orsay, capolavori, spazia dall’alba della modernità ai quadri più ricercati, ormai, da tutto il mondo; dipinti, come ricorda ancora Cogeval, nell’era industriale, in cui nascono il socialismo, i sindacati, gli imperialismi, la corsa agli armamenti, in cui la medicina compie immensi progressi. Insomma, è il mondo che cambia, e la pittura con lui.
Perde la classicità, scopre il moderno; l’arte contemporanea non vi sarebbe sicuramente stata, o non sarebbe stata la stessa, senza l’Impressionismo; e in particolare, senza Cézanne, che, spiegava già Giulio Carlo Argan, ne è senza dubbi il padre. Il Musée d’Orsay porta a Roma, in una città i cui musei sono assai deficitari sotto questo profilo, le basi da cui, pittoricamente, nasce il nostro essere, oggi.

FONTE:  Fabio Isman (ilmessaggero.it)

domenica 2 febbraio 2014

Arte, architettura, moda ecco il 2014 del Maxxi

 

La nuova programmazione del Museo di Zaha Hadid riparte dai numeri incoraggianti e  coinvolge tutte le arti, attività extra incluse. Ecco gli eventi, dalle personali tradizionali al ritorno di Roma Interrotta, fino al tributo alla nascita della fashion italiana

L'importanza delle cifre più che delle opere d'arte. Dopo un 2012 di commissariamento e un 2013 di assestamento, il Museo delle arti del XXI secolo di Roma (guarda il Maxxi) , inizia il nuovo anno  con la necessità di fare i conti e ripartire dai numeri che, finalmente, iniziano ad essere incoraggianti. Oltre il 40 per cento di visitatori in più rispetto all'anno precedente, 250mila accessi alla piazza da giugno 2013, una media di 1.500 al giorno con una affluenza di maggioranza internazionale, romana al 32 per cento e dal resto d'Italia al 28 per cento. Donne adulte quelle che lo frequentano di più. In forte crescita anche il numero del pubblico online (+85 per cento) che, con oltre 110mila contatti, rende il museo più social tra quelli italiani.

E poi le mostre: 37 di cui 27 prodotte o coprodotte e 6 esportate all'estero nel 2013. E nel 2014? Cosa ci sarà da vedere quest'anno nell'edificio progettato nel 2010 da Zaha Hadid?  Si inizia a febbraio con Utopia for Sale? a cura del nuovo direttore Hou Hanru che, con questa esposizione, rende omaggio all'artista americano Allan Sekula, scomparso cinque mesi fa. Insieme alle sue opere video e installazioni anche quelle di altri artisti come Noel Burch, Amie Siegle, Cao Fei, Li Liao e Adelita Husni-Bey, tutti focalizzati sui temi della globalizzazione, per fare il punto su come stanno cambiando le utopie contemporanee rispetto a quelle del passato. Hanru sarà anche il curatore di Indipendent space a giugno e Open Museum, Open City a ottobre, in cui ci sarà spazio per opere audio e progetti più trasversali.

L'attenzione all'arte italiana torna a marzo, con la personale di Ettore Spalletti, a cura di  Anna Mattirolo e in sinergia con alti importanti musei del nostro Paese come la Gam di Torino e il Madre di Napoli, tutti uniti per  rendere protagonista il lavoro di un artista che è certamente complesso e vasto, oltre che riconosciuto a livello internazionale. Di Spalletti, fino a settembre, saranno esposte le installazioni ambientali più recenti, ma anche opere pensate per il museo dalle dimensioni meno monumentali, dipinti e sculture.

Sempre a marzo ci sarà Verso la Grande Brera, a cura di Caterina Bon Valsassina e Margherita Guccione che, ereditando l'esposizione dalla Triennale di Milano, portano in mostra al Maxxi di Roma i progetti in gara per la ristrutturazione di Palazzo Citterio. Ad aprile è tempo di una riedizione della storica mostra Roma interrotta. Quest'anno, infatti, grazie alla donazione fatta al MAXXI dall'archivio di Incontri Internazionali d'Arte di Gabriella Lonardi Buontempo, rivivrà negli spazi del museo l'esposizione curata da Piero Sartogo nel 1978 ai Mercati di Traiano.

Maggio è il mese del Premio Maxxi, a cura di Giulia Ferraci con i quattro finalisti in mostra: Yuri Ancarani, Micol Assaël, Linda Fregni Nagler e Marinella Senatore. E spazio anche all'architettura con Geografie Italiane. Viaggio nell'architettura contemporanea e al design con la personale di Gaetano Pesce e la collettiva Design Destinations, a cui parteciperanno i talenti della Design Academy di Eindhoven, a cura di Domitilla Dardi.

A giugno ritorna Yap Maxxi, l'ormai conosciuto programma dedicato ai giovani architetti, a cura di Margherita Guccione e Pippo Ciorra, in partnership con il MoMA di New York. L'anno si chiuderà con United History, sequences of the modern in Iran form 1960 until now, un'anteprima europea che ripercorre la storia delle arti visive dell'Iran in epoca moderna, a cura di Catherine David, Odile Burluraux, Morad Montazami, Narmine Sadeg e Vali Mahlouji e in programma per dicembre. Nell'ultimo mese del 2014, ci sarà anche l'altra personale curata da Hou Hanru, questa volta dedicata a Huang Yong Ping, cinese affermato e conosciuto soprattutto in Francia, dove vive e lavora dagli anni Ottanta.

Ci sono inoltre due mostre ancora con data di inizio da definire: Bellissima. L'Italia dell'alta moda 1945-1968 a cura di Maria Luisa Frisa, Anna Mattirolo e Stefano Tonchi e Architecture in Uniform, a cura di Jean Louis Cohen e Maristella Casciato. Insomma, mostre di diverso genere, per accontentare più di un pubblico, a cui si aggiunge quello degli eventi, dei talk, dei film in programmazione. Perché i quasi 300mila visitatori che sono arrivati nel museo lo scorso anno sono entrati a vedere le mostre anche per le tanto discusse lezioni di yoga che si sono tenute nella piazza antistante. Se per molti  sono state una profanazione dell'arte, di sicuro si sono rivelate un appuntamento che ha fatto entrare nel museo un target di gente che non si sarebbe recato a vedere una mostra. Un modo per allargare la fruizione della sede espositiva a più gente possibile, proprio come succede ovunque il museo viene concepito come luogo da vivere, da tutti e per tutti.

FONTE: Valentina Bernabei (repubblica.it)