martedì 28 maggio 2013

Milano riscopre Pellizza, dopo 40 anni torna il Paesaggio


Alla Galleria d'Arte Ambrosiana è esposta l'opera divisionista di Giuseppe da Volpedo. Dipinto nel 1904, nelle campagne del paese natale, il quadro è stato raramente esposto al pubblico e ora torna dopo un accurato restauro. Fino al 15 giugno.

"Le vecchie mura, la chiesa della Pieve e la lapide a Perino sono tra le più importanti nostre vestigia. ... Le due torri, che furono un giorno baluardo agli antichi abitatori di Volpedo, che servì nei giorni tristi delle invasioni, che difesero dai vicini e dai predoni". Descriveva così, con estrema precisione, la sua terra Giuseppe Pellizza, il grande pittore del celeberrimo "Quarto stato", che nel 1892 quando compì i 24 anni, decise di aggiungere alla sua firma "da Volpedo" per sottolineare il forte legame che sentiva con il suo luogo d'origine.

È quindi un'importante occasione quella che ci permette di rimirare il dipinto "Il paesaggio" che l'autore realizzò nel 1904 e che da 40 anni non era visibile al pubblico. Ora, dopo una attenta operazione di restauro e ripristino, l'olio su tela torna a mostrarsi con gli accordi cromatici originali restituiti dalle puliture, che mostrano nitidamente una superficie pittorica fittamente coperta dalle pennellate filamentose dell'artista. Traspare tra le pennellate di colore-luce dai toni puri, un sentimento che va oltre l'esecuzione tecnica. La composizione è espressione di una poesia pittorica che fonde le delicate e luminose tonalità del cielo, i verdi brillanti della vegetazione e le ombre colorate ai margini del sentiero, segni di purezza linguistica e trasporto affettivo nei confronti della bellezza di una campagna, riassunta nei suoi tratti caratteristici, che se pur non collocabile per la mancanza di riferimenti precisi, riesce a descrivere "la dimensione del cuore".

Giuseppe Pellizza torna a Volpedo dopo gli studi in alcune Accademie di Belle Arti e vari viaggi di formazione. Figlio di agricoltori, seguì la grande passione per il disegno e decise di iscriversi all'Accademia di Belle Arti di Brera, dove fu allievo di Francesco Hayez e di Giuseppe Bertini. Terminati gli studi milanesi, Pellizza decise di proseguire il tirocinio formativo, andando a Roma, prima all'Accademia di San Luca poi alla scuola libera di nudo all'Accademia di Francia a Villa Medici. Roma non lo conquistò, anzi, abbandonò la città prima del previsto per recarsi a Firenze, dove frequentò l'Accademia di Belle Arti con Giovanni Fattori come maestro. Alla fine dell'anno accademico ritorna a Volpedo, per dedicarsi alla pittura dal vero attraverso lo studio della natura. Nel 1889 si recò Parigi in occasione dell'Esposizione universale. Frequentò poi l'Accademia Ligustica a Genova. Al termine di quest'ultimo tirocinio, ritornò al paese natale, dove sposò una contadina del luogo, Teresa Bidone, nel 1892, anno in cui, come dicevamo, sentendosi ancor più legato alla propria terra, completò il suo nome d'artista con il nome del paese che tanto amava.

Seguono anni in cui progressivamente abbandona la pittura ad impasto per passare al divisionismo di cui "Il paesaggio" è un'altissima testimonianza. Confrontandosi con altri pittori che usavano questa tecnica, soprattutto con Giovanni Segantini, Angelo Morbelli, Vittore Grubicy de Dragon, Plinio Nomellini, Emilio Longoni e, in parte, anche con Gaetano Previati, raggiunse una maestria tecnica, che unita alla forza espressiva, lo portò ad esporre nei più importanti templi dell'arte italiani, dalla Triennale di Milano, alla Quadriennale di Torino, e anche all'estero.

La mostra propone inoltre documenti inediti, conservati dagli eredi della famiglia proprietaria, che testimoniano la crescente richiesta nel tempo, da parte di musei e storici dell'arte, di prestiti per pubbliche esposizioni e di numerose riproduzioni dell'opera, dovute alla sua fondamentale importanza all'interno del Divisionismo italiano. Ci sono poi esposti anche i risultati e le immagini della relazione scientifica condotta da Gianluca Poldi, già autore di studi diagnostici sul celebre Quarto Stato, oggi al Museo del Novecento di Milano.

FONTE: Valentina Tosoni (repubblica.it)




lunedì 27 maggio 2013

I mostri di Witkin, il fotografo del proibito

 
 
Il bricolage spettacolare di Joel Peter Witkin porta in scena la fascinazione profonda del proibito. Ma in una maniera inquietante, frequentando una forma di bellezza diversa dal consueto, riproducendo l’indesiderabile, l’abnorme, il mostruoso. Eccoli i soggetti ritratti nelle sue fotografie: storpi, nani, ermafroditi, androgini, una serie di fantasmi provenienti dal rimosso, da una stanza distante che evoca le torture dell’inconscio. Un mosaico di corpi deformi, ricuciti in una scena iperrealista, barocca, dove la morte si accosta alla vita e la diversità si riappropria del palcoscenico, magari quello del M.O.M.A. di New York o del Victoria and Albert Museum di Londra. Witkin ritorna in Italia a distanza di diciotto anni dalla grande mostra di Rivoli, arriva questa volta a Firenze con 55 opere esposte al Museo Nazionale Alinari della Fotografia. Joel-Peter Witkin. Il Maestro dei suoi Maestri, dal 21 marzo al 24 giugno, ripropone un viaggio urticante e mistico riemerso dai bestiari medievali, partorito dalla letteratura moderna che attinge al Frankenstein di Mary Shelley. Le sue inquietanti creature lasciano pensare all’universo delle comparse felliniane, meglio ai protagonisti delle storie di Dylan Dog con uno sguardo ai mutanti cyberpunk.

ERMAFRODITI

Nato a New York nel 1939, padre russo ed ebreo, madre napoletana e cattolica, ad influenzare singolarmente la sua cultura religiosa. Comincia a fotografare professionalmente negli anni Sessanta, su commissione del fratello gemello, pittore e scultore: ritrae una “chicken lady”, un uomo con tre gambe e un ermafrodito nei paraggi di New York. Da allora l’universo dei freak diventa il suo circo privato, la realtà a cui attingere per scioccare e sedurre. L’America puritana gli ha rovesciato addosso le accuse di pornografia, blasfemia, psicopatia.

IPERREALISMO

Le sue immagini vanno ben oltre le trasgressioni di un Mapplethorpe – dal quale prende le distanze: presentano ciò che è inaccettabile alla percezione comune, rimuovono e indagano il tabù della pornografia della morte. L’impatto con l’occhio è iperrealista, l’immagine viene progettata a tavolino con disegni preparatori, elaborata con allestimenti scenografici di fondali e luci, stampata con graffi e trattamenti pittorici. Il suo lavoro diventa una singolare forma di preghiera, in grado di evocare lo strano meraviglioso o, come afferma lui stesso, provocare quel flash «dell’ultima cosa che una persona vede o ricorda prima di morire».

Demiurgo e voyeur, Witkin colloca il suo improbabile universo di supereroi da confine tra la vita e la morte, dove la fotografia ha ragione di esistere e forza per sconvolgere, attingendo alla storia dell’arte, all’iconografia cristiana del memento mori, citando in un bricolage fantastico il mondo di Bosch e le angosce religiose di Zurbaran, le ombre, le luci, i modelli di Caravaggio, gli abiti e la teatralità di Velazquez con i tableaux fotografici di Muybridge e Reylander, i giochi surreali di Arcimboldo con quelli delicatissimi di Mirò, il surrealismo di Dalì insieme ai sogni simbolisti di Kubin, Balthus e Beckmann. È la rivincita del corpo nell’era dell’immateriale digitale: ma del corpo deforme e postumano, della fisicità che per imporsi deve fa paura, della sessualità che riappare sotto forma di mostruosità, della bellezza disabile che nell’occhio di Witkin ha trovato un paladino visionario.

FONTE: Giovanni Fiorentino (ilmessaggero.it)

martedì 21 maggio 2013

La chiamata alle armi ambientalista di Salgado


All'Ara Pacis di Roma in mostra gli scatti del grandissimo autore brasiliano, con il chiaro intento di riportare l'uomo a rispettare il pianeta

Galápagos, Brasile, Zambia. Zone di un pianeta che tutti dovremmo tenere a mente, parti di continenti di cui spesso dimentichiamo l'esistenza, aldilà delle cronache che inducono a perdere di vista il lato vero di quelle terre, la loro bellezza e l'importanza centrale che hanno per l'ecosistema. A ricordarcene, con una mostra, è Sebastião Salgado, le cui foto sono esposte da oggi fino al 15 settembre all'Ara Pacis di Roma. "Genesi. Fotografie di Sebastião Salgado " a cura di Lélia Wanick Salgad, moglie del fotografo, raccoglie oltre 200 scatti ed è molto di più di un'esposizione: è un'esortazione a riconsiderare con la giusta attenzione la Terra e a trattarla con cura. É una vera e propria "chiamata alle armi" come si legge in una delle pareti dell'Ara Pacis: "Non possiamo continuare a inquinare terreni, acqua e aria. Dobbiamo agire adesso per preservare le terre e i mari incontaminati, per proteggere i santuari naturali di animali e antichi popoli. E possiamo spingerci oltre, cercando di riparare ai danni che abbiamo causato". Firmato Sebastião Salgado e Lélia Wanick Salgad.


Marito e moglie non si sono limitati alle belle parole ma hanno dato il loro contributo riforestando una proprietà nel sud-est del Brasile, piantando circa due milioni di alberi di oltre 300 specie diverse per "respirare meglio e nutrire speranze per il futuro del nostro pianeta" scrivono. La presa di posizione è palese: se prima i soggetti di Salgado erano soprattutto esseri umani ora lo sguardo si posa anche sulle altre specie, animali e vegetali, si concentra sulla natura, ci svela parti del Pianeta mai viste come il Cerro Torre (la cima del Campo de Hielo Sur, situato in Patagonia, fra Argentina e Cile, le cui foto introducono il percorso espositivo), ci racconta altre forme di vita, come quella minerale. "La specie minerale è viva quanto noi" ha detto Salgado all'inagurazione della mostra. E "Genesi" è effettivamente un inno al rispetto dell'ecosistema inteso in maniera globale.

"Per fotografare gli animali ho dovuto imparare a mettermi di fronte a loro alla pari" ha spiegato il fotografo, che ha raccontato qualche aneddoto con cui è riuscito a immortalare, ad esempio, le tartaruge delle Galapagos. Accucciandosi, avvicinandosi, indietraggiando e rimanendo in silenzio ad osservare e ad aspettare. Quattro ore per entrare in confidenza con loro ed ecco gli scatti, solo dopo che l'animale ha dato il consenso andando incontro al fotografo con naturale accoglienza. Tutte le foto esposte sono in bianco e nero e raccolte in cinque diverse sezioni: il Pianeta Sud, i Santuari della Natura, l'Africa, il grande Nord, l'Amazzonia e il Pantanàl. Un discorso a parte meritano le didascalie, quelle che spesso fanno impazzire -per avarizia di informazioni- i visitatori. In questa mostra i dati accanto ad ogni foto abbondano: si trova scritto l'anno e il luogo esatto in cui è stata scattata l'opera -una mappatura mondiale- dalla Siberia all'oceania, si leggono i nomi di popolazioni indigene mai sentite prima, si scoprono particolari che rivelano come è stato possibile realizzare lo scatto, per esempio da una mongolfiera, per non disturbare le mandrie in corsa.

Un viaggio nel viaggio, a metà strada tra etnologia ed ecologia, che termina con uno scatto fatto sul parco nazionale del Bryce Canyon, nel sud-ovest degli Stati Uniti, Utah. Dopo aver fatto un salto sin lassù si può uscire dall'Ara Pacis e reimmergersi in Roma, con nuove semplici consapevolezze e gli occhi pieni di altre forme di vita.

La mostra è promossa da Roma Capitale, Assessorato alle Politiche Culturali e Centro Storico - Sovrintendenza Capitolina e dalla Camera di Commercio di Roma con il patrocinio del Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, realizzata da Amazonas Images e prodotta da Contrasto e Zètema Progetto Cultura, o, Genesi presentata in prima mondiale a Roma si svolgerà in contemporanea con altre grandi capitali (Londra, Rio De Janeiro e Toronto).


Info utili. Mostra: Genesi. Fotografie di Sebastião Salgado

Luogo: Museo dell'Ara Pacis, Lungotevere in Augusta, Roma

Apertura al pubblico: 15 maggio - 15 settembre 2013

Orari: martedì, mercoledì e da venerdì a domenica ore 9.00- 20.00 (ultimo ingresso 19); giovedi aperta fine alle 22, ultimo ingresso 21; chiuso il lunedì

Info Mostra. 060608 (tutti i giorni ore 9.00- 21.00) oppure a questo link.

twitter #genesisalgado

Biglietti. Solo mostra € 10 intero, € 8 ridotto, € 4 speciale scuola, € 22 speciale famiglie. Biglietto integrato museo/mostra: € 16 intero, € 12 ridotto.

FONTE: Valentina Bernabei (repubblica.it)


lunedì 20 maggio 2013

Dipinti, sculture e armi antiche: a Villa d'Este l'arte della caccia


Daini e caprioli, spesso cinghiali, a volte addirittura orsi in fuga ansimanti inseguiti da mute di cani. Falconi che volteggiano nel cielo. E i fuochi dei servitori che stanano gli animali spingendoli verso i cavalieri armati, in attesa. Decine e decine di ettari di terra verde e lussureggiante, alberi, cascate, fiumi e stagni trasformati in un unico immenso parco giochi che evoca l’Eden ma che per gli animali braccati e in fuga si trasforma in un inferno di intere giornate di inseguimenti. Centinaia, anche migliaia di cavalieri e dame, servitori al seguito, abiti sfarzosi ricchi di piume e veli, cappelli e mantelli drappeggiati e cavalli dalle criniere pettinate e arricciate.

L’OSTENTAZIONE

Niente come la battuta di caccia principesca somigliava di più, nell’antichità, all’ostentazione di una ricchezza senza limiti, di un potere di vita e di morte valido anche in tempo di pace, dell’autocelebrazione di un’intera classe sociale. Ce lo racconta con una fastosa raccolta di dipinti e sculture provenienti dai musei pubblici romani tra cui Palazzo Corsini, Palazzo Venezia, Galleria Colonna e i Musei Capitolini, la mostra “Cacce principesche. L’arte venatoria nella prima età moderna” dal 17 maggio a Tivoli allestita nelle stanze affrescate a tema di Villa d’Este, sede perfetta per rievocare una tradizione nobiliare che la vide protagonista, sotto la guida del cardinale, mecenate e amante dell’arte Ippolito II d’Este, di cacce tanto principesche da raccogliere migliaia di ospiti e ricordate per la presenza di partecipanti illustri come Margherita de Medici, Scipione Gonzaga e i principi Sforza.

Non era un semplice passatempo ma un’arte complessa, con le sue regole e i suoi cerimoniali a rappresentare la stessa ragione d’essere di un’aristocrazia potente e ricchissima. La lunga preparazione, le ricchezze impiegate per ospitare migliaia di ospiti, l’organizzazione meticolosa degli spostamenti da una tenuta all’altra, la presenza di animali splendidi come cinghiali, daini o caprioli, e la lotta fra le corti d’Europa per accaparrarsi gli esemplari migliori di cani e cavalli appositamente addestrati, sono minuziosamente raccontati da lettere, registri spese e atti amministrativi conservati nell’archivio estense e studiati a fondo da Marina Cogotti, direttore di Villa d’Este, in occasione nel convegno che si è tenuto nel 2010 per le celebrazione del V centenario della nascita del cardinale Ippolito. «E dopo la mostra dello scorso anno dedicata all’arte del banchetto, stiamo lavorando a una terza esposizione per il prossimo anno che avrà come tema il paesaggio o il giardino tiburtino» spiega la Cogotti.

LEOPARDI COME PREDE

Che la caccia fosse il passatempo prediletto di Ippolito, figlio di Lucrezia Borgia, nipote di Cesare e esperto dell’arte venatoria imparata direttamente nello sfarzo delle corti francesi e della stessa Ferrara dove, secondo la tradizione, la caccia si praticava con i leopardi, lo testimoniano senza possibilità di equivoci proprio le carte. «Il primo atto di compravendita firmato da Ippolito non appena arrivato a Tivoli – spiega la Cogotti – fu proprio quello relativo ai terreni destinati alla sua personale riserva di caccia. Un’area immensa che includeva anche terreni lavorati dai contadini locali che ne vennero espropriati con la creazione di un vero e proprio muro di cinta».

Le oltre sessanta opere esposte nelle sale della villa in occasione della mostra promossa dalla Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici del Lazio, testimoniano al meglio il grande potere evocativo che le scene di caccia seppero sempre rappresentare. «Dipinte e scolpite, le rappresentazioni delle arti venatorie sono figurate su arazzi e affreschi e, con l’avvento della stampa, riprodotte e diffuse in centinaia d’esemplari – spiega il curatore della mostra Francesco Solinas - verso la metà del Cinquecento, si afferma un’importante produzione di scene di caccia, un nuovo genere artistico che godrà di vasta fortuna sino all’Ottocento».

In mostra ovviamente le opere di Antonio Tempesta «massimo esegeta del genere venatorio ad affresco, su tela, su rame e su pietra» come spiega Solinas, ma anche dei fiamminghi Bril e Brueghel, e di coloro che raccolsero la loro eredità come Michelangelo Cerquozzi e Peter Boel. A completare la mostra una selezione di armi antiche, arrivate eccezionalmente per l’occasione dal Museo Stibbert di Firenze.

FONTE: Maria Grazia Filippi (ilmessaggero.it)





giovedì 16 maggio 2013

Dipinti, sculture e armi antiche: a Villa d'Este l'arte della caccia














ROMA - Daini e caprioli, spesso cinghiali, a volte addirittura orsi in fuga ansimanti inseguiti da mute di cani. Falconi che volteggiano nel cielo. E i fuochi dei servitori che stanano gli animali spingendoli verso i cavalieri armati, in attesa. Decine e decine di ettari di terra verde e lussureggiante, alberi, cascate, fiumi e stagni trasformati in un unico immenso parco giochi che evoca l’Eden ma che per gli animali braccati e in fuga si trasforma in un inferno di intere giornate di inseguimenti. Centinaia, anche migliaia di cavalieri e dame, servitori al seguito, abiti sfarzosi ricchi di piume e veli, cappelli e mantelli drappeggiati e cavalli dalle criniere pettinate e arricciate.

L’OSTENTAZIONE

Niente come la battuta di caccia principesca somigliava di più, nell’antichità, all’ostentazione di una ricchezza senza limiti, di un potere di vita e di morte valido anche in tempo di pace, dell’autocelebrazione di un’intera classe sociale. Ce lo racconta con una fastosa raccolta di dipinti e sculture provenienti dai musei pubblici romani tra cui Palazzo Corsini, Palazzo Venezia, Galleria Colonna e i Musei Capitolini, la mostra “Cacce principesche. L’arte venatoria nella prima età moderna” dal 17 maggio a Tivoli allestita nelle stanze affrescate a tema di Villa d’Este, sede perfetta per rievocare una tradizione nobiliare che la vide protagonista, sotto la guida del cardinale, mecenate e amante dell’arte Ippolito II d’Este, di cacce tanto principesche da raccogliere migliaia di ospiti e ricordate per la presenza di partecipanti illustri come Margherita de Medici, Scipione Gonzaga e i principi Sforza.

Non era un semplice passatempo ma un’arte complessa, con le sue regole e i suoi cerimoniali a rappresentare la stessa ragione d’essere di un’aristocrazia potente e ricchissima. La lunga preparazione, le ricchezze impiegate per ospitare migliaia di ospiti, l’organizzazione meticolosa degli spostamenti da una tenuta all’altra, la presenza di animali splendidi come cinghiali, daini o caprioli, e la lotta fra le corti d’Europa per accaparrarsi gli esemplari migliori di cani e cavalli appositamente addestrati, sono minuziosamente raccontati da lettere, registri spese e atti amministrativi conservati nell’archivio estense e studiati a fondo da Marina Cogotti, direttore di Villa d’Este, in occasione nel convegno che si è tenuto nel 2010 per le celebrazione del V centenario della nascita del cardinale Ippolito. «E dopo la mostra dello scorso anno dedicata all’arte del banchetto, stiamo lavorando a una terza esposizione per il prossimo anno che avrà come tema il paesaggio o il giardino tiburtino» spiega la Cogotti.

LEOPARDI COME PREDE

Che la caccia fosse il passatempo prediletto di Ippolito, figlio di Lucrezia Borgia, nipote di Cesare e esperto dell’arte venatoria imparata direttamente nello sfarzo delle corti francesi e della stessa Ferrara dove, secondo la tradizione, la caccia si praticava con i leopardi, lo testimoniano senza possibilità di equivoci proprio le carte. «Il primo atto di compravendita firmato da Ippolito non appena arrivato a Tivoli – spiega la Cogotti – fu proprio quello relativo ai terreni destinati alla sua personale riserva di caccia. Un’area immensa che includeva anche terreni lavorati dai contadini locali che ne vennero espropriati con la creazione di un vero e proprio muro di cinta».

Le oltre sessanta opere esposte nelle sale della villa in occasione della mostra promossa dalla Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici del Lazio, testimoniano al meglio il grande potere evocativo che le scene di caccia seppero sempre rappresentare. «Dipinte e scolpite, le rappresentazioni delle arti venatorie sono figurate su arazzi e affreschi e, con l’avvento della stampa, riprodotte e diffuse in centinaia d’esemplari – spiega il curatore della mostra Francesco Solinas - verso la metà del Cinquecento, si afferma un’importante produzione di scene di caccia, un nuovo genere artistico che godrà di vasta fortuna sino all’Ottocento».

In mostra ovviamente le opere di Antonio Tempesta «massimo esegeta del genere venatorio ad affresco, su tela, su rame e su pietra» come spiega Solinas, ma anche dei fiamminghi Bril e Brueghel, e di coloro che raccolsero la loro eredità come Michelangelo Cerquozzi e Peter Boel. A completare la mostra una selezione di armi antiche, arrivate eccezionalmente per l’occasione dal Museo Stibbert di Firenze.

FONTE: Maria Grazia Filippi (ilmessaggero.it)


mercoledì 15 maggio 2013

RomArché: appuntamento col passato


Al Museo Nazionale Etrusco di Valle Giulia dal 20 al 26 maggio prossimi la sesta edizione del Salone dell'Editoria Archeologica

Dal 20 al 26 maggio prossimi il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma ospita RomArché, progetto ideato e realizzato dalla Fondazione Dià Cultura, è un’iniziativa culturale dai contenuti piuttosto articolati che ruotano intorno al Salone dell’Editoria Archeologica che nel 2013 arriva alla sua IV edizione. Il tema di quest'anno è “Politica Economia Società”. In programma ci sono convegni, visite guidate sperimentali, rassegna cinematografica e laboratori didattici.

Scopo della manifestazione è sostenere il confronto scientifico e culturale in ambito archeologico; valorizzare il patrimonio archeologico e artistico di Roma e non solo; coinvolgere il pubblico in esperienze ad alto valore culturale; supportare la didattica scolastica e universitaria; rafforzare il ruolo di Roma come riferimento internazionale in ambito archeologico. Tra gli appuntamenti previsti: il convegno “Ploutos & Polis. Aspetti del rapporto tra economia e politica nel mondo greco” e "Gli Etruschi senza mistero. Origini, Politica, Economia Società.
 
FONTE: Nicoletta Speltra (lastampa.it)
 
 
 

 


venerdì 10 maggio 2013

Zavattini e la passione "mignon" per l'arte

Zavattini e i Maestri del ‘900, una sfilata di autoritratti alla Pinacoteca di Brera

Bruno Munari e Giorgio De Chirico, Gillo Dorfles e Renato Guttuso, ma anche Mimmo Rotella e Fortunato Depero. Tutti in scala ridotta, incorniciati in mini-dipinti di 8x10 centimetri, sono esposti dal 7 maggio all'8 settembre nella Sala XV della Pinacoteca di Brera, a Milano, nell'ambito della mostra "Zavattini e i maestri del Novecento"

Ci sono alcuni dei più importanti protagonisti del mondo dell'arte nel XX secolo nella collezione di "autoritratti minimi" di Cesare Zavattini, che è ora in parte esposta nella Sala XV della Pinacoteca di Brera, a Milano. Il titolo della mostra è Zavattini e i maestri del Novecento,  lo scrittore e sceneggiatore neorealista, era infatti, un grande appassionato di pittura e nel corso della sua vita commissionò e raccolse quasi 1.500 dipinti di piccolissime dimensioni. Diceva di non potersi permettere opere grandi e di dover quindi ripiegare su quelle piccole. In particolare, chiese a quasi tutti i grandi artisti dell'epoca di realizzare un autoritratto per la sua collezione. Venduta nel 1979 da Zavattini per problemi economici, è stata in parte dispersa, ma nel 2008 la Pinacoteca di Brera ha acquisito 152 autoritratti, oggi restaurati e per la prima volta presentati al pubblico. La mostra é realizzata in collaborazione con l'Archivio Cesare Zavattini, prodotta da Skira, è stata curata da Marina Gargiulo, che presenta il percorso. "Si tratta di un gruppo di dipinti - dice - che viene dalla collezione di Cesare Zavattini che amava tantissimo ed è noto universalmente come sceneggiatore del neorealismo, ma aveva una passione incredibile per la pittura era lui stesso pittore e collezionista. Era appassionatissimo di questa raccolta che continuava ad alimentare. Ci sono autori famosissimi da Burri, de Chirico, Guttuso, Balla e artisti anche più recenti come Pistoletto, Plessi, Tullio Pericoli. Accanto ai 152 quadri, sono esposte una serie di lettere di risposta dei pittori alle insistenti richieste di Zavattini in cui i maestri fanno anche delle considerazioni sulle difficoltà che hanno nell'autoritrarsi in un formato minuscole.

Quanto fu dispiaciuto di dover essere costretto a vendere la collezione ?

"Si. Dovette venderla per difficoltà economiche come racconta nel suo diario. E sempre lì descrive quanto gli costò in termini affettivi, ricorda come i suoi figli impararono i nomi dei grandi maestri, guardando i quadretti e balbettandoli fin da piccoli, del resto aveva, come lui diceva, un'enciclopedia della pittura tutta in una stanza. Ed è vero perché erano tutte le stanze del suo appartamento e studio che erano rivestire e nel video in mostra si vedono".

C'è qualche storia o aneddoto, dietro a questa passione per la miniatura di Zavattini?

"Zavattini racconta nel suo diario di aver ricevuto in regalo dal critico d'arte Raffaele Carrieri nel 1940, prima di trasferirsi da Milano a Roma, un bozzetto di Massimo Campigli della 'Ricamatrice' di dimensioni molto piccole, e poco dopo di aver visto un pittore che dipingeva un pacchetto di sigarette. Questi due incontri lo portarono a prendersi a cuore questa idea del formato piccolo, dove secondo lui l'artista era costretto a concentrare il meglio della sua cifra stilistica. E' poi simile alla cifra poetica anche di Zavattini: le piccole cose, quelle del quotidiano. Il collezionismo per casa, il collezionismo domestico, insomma".

Ha mai espresso preferenze o legami particolari nei confronti di alcuni di questi dipinti?

"No, Non ha mai espresso preferenze, nei suoi diari o nei suoi scritti una preferenza per un artista o per uno di questi dipinti. Piuttosto c'è l'apprezzamento per una persona. Nell'archivio Zavattini di Reggio Emilia c'è un quantità di materiale enorme e lì si trovano gli intensi scambi epistolari che lui intratteneva, e si capisce quanto fossero veri questi rapporti d'amicizia, infatti è per quello che abbiamo scelto come sottotitolo della mostra è Zavattini e i maestri del '900, per il profondo rapporto che aveva con il mondo dell'arte".

Ci può raccontare qualche aneddoto particolare che emerge dai carteggi esposti in mostra?

"Ci sono moltissime riflessioni e proteste di artisti che dicono non mi chieda più questi quadretti, e tra questi c'è ne è uno molto divertente del pittore Lugabue a cui Zavattini era molto legato, è stato uno dei suoi scopritori e grande sostenitore della pittura naif, Ligabue per Natale gli scrive una lettera in cui gli scrive 'mi dicono che mi vuole far fare un film' e Zavattini risponde 'Assolutamente NO, ma chi glielo ha detto!'".

FONTE: Valentina Tosoni (repubblica.it)

mercoledì 8 maggio 2013

A Foligno il genio di Julian Schnabel



E' dedicata al grande artista newyorkese la nuova mostra del Centro italiano di arte contemporanea di Foligno  in programma fino al 23 giugno. Quattordici i capolavori in mostra che esemplificano cronologicamente il lavoro compiuto tra il 1985 e il 2008 da un artista famoso, anche per la produzione cinematografica, quanto eccentrico

Se si parla di Julian Schnabel non si può non parlare di New York, perché lui è il prototipo dell'artista della Grande Mela. Nativo di Brooklyn, ha sempre vissuto con orgoglio dell'appartenenza a quella realtà. "Nessun luogo al mondo è stato caratterizzato in egual misura dall'energia e dal senso dell'opportunità", spiega da Palazzo Chupi, il posto in cui vive nella zona ovest di down town, e conclude "New York continua ad apparire vibrante e performativa". È' inscindibile la sua ricerca artistica con lo spirito della metropoli in cui vive: "Chi viene qui è pronto a ridefinire la propria identità, per celebrarla e diventare così newyorchese. La sensibilità nasce in questo terreno e nell'idea di libertà su cui è stata fondata la città".

La libertà è infatti uno dei concetti fondamentali della ormai storica ricerca artistica di Schnabel, che non si è mai arreso davanti a nessuna difficoltà realizzativa, ricorrendo persino alla dote camaleontica di passare da un linguaggio ad un altro senza timore alcuno: dalla pittura alla scultura, dalla fotografia alla regia cinematografica, e riuscendo sempre ad ottenere risultati di altissimo livello.

Ora una mostra affascinante racconta uno spaccato importante della vita artistica del fenomeno americano, il CIAC di Foligno, Centro Italiano di Arte Contemporanea, espone 14 grandi capolavori dell'artista in gran parte mai visti in Italia. Esponente di spicco di un neoespressionismo che risente delle influenze europee e anche della transavanguardia italiana, la più importante operazione artistica di Schnabel è stata la ripresa della pittura in assoluta indipendenza tecnica e contenutistica. La mostra è curata e presentata in catalogo da Italo Tomassoni e si propone come un'occasione per approfondire la conoscenza di questo grande artista e della pittura contemporanea americana.


I dipinti esposti, di grandi dimensioni, raccontano il lavoro dell'artista dal 1985, al 2008: otto opere appartengono al gallerista Gian Enzo Sperone, amico intimo di Schnabel, suo vicino di casa a New York. Gli altri sei lavori, appartengono a un collezionista milanese che ha accettato di prestare le sue opere per completare il percorso della mostra. Solo tre lavori erano già stati esposti in precedenza in Italia. Tra quelli per la prima volta presenti nel nostro paese, spicca il capolavoro JMB realizzata dopo il tragico suicidio dell'amico Basquiat, e messo in mostra una sola volta a Toronto. La rassegna aiuta a comprendere la poetica connaturata, anche se non sempre manifesta, nelle opere fortemente ispirate a Pollock e Twombly, artisti contemporanei a cui ha guardato prendendo in prestito tecnica e spirito, ma anche alla fiorente tradizione europea e mediterranea, ricordando artisti come El Greco o Goya di cui ha detto: "La modernità del giallo usato nelle scarpe della regina al museo di Capodimonte mi ha lasciato senza parole".

Numerosi sono i rimandi storici, ma anche musicali, rintracciabili nelle sue opere. Il poliedrico artista di origine ebraica, per creare le sue opere utilizza molti materiali, come il velluto, la tela cerata, pezzi di legno provenienti da tutto il mondo, fotografie e tappeti. Insomma qualsiasi elemento riesca ad innescare la sua creatività diventa parte del lavoro, conquistandone l'anima. È noto poi come regista cinematografico: ha infatti diretto Basquiat (1996), Prima che sia notte (2000, Gran Premio della Giuria alla 57ª Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia e Coppa Volpi per il miglior attore a Javier Bardem), Lo scafandro e la farfalla (2007, miglior regia al 60° Festival di Cannes e ai Golden Globes 2008), Berlin (2007) e Miral (2010).

Questa esposizione di Julian Schnabel è dunque un'occasione importante per apprezzare la potenza poetica e cromatica di questo grande comunicatore, sempre alla ricerca di nuovi stimoli e suggestioni da riportare nelle sue grandi opere, che hanno segnato in modo indelebile l'arte contemporanea internazionale degli ultimi cinquant'anni.

Notizie utili.

La mostra resterà aperta al CIAC di Foligno sino al prossimo 23 giugno: venerdì, sabato e domenica; dalle 10 alle 13 e dalle 15.30 alle 19. Ingresso gratuito.

FONTE: Valentino Tosoni (repubblica.it)












venerdì 3 maggio 2013

Van Wittel, esposti tutti i disegni: magiche istantanee di Roma



Esposti per la prima volta tutti insieme, dal 1903, i 52 disegni di Gaspar van Wittel, Gaspare «degli occhiali», un padre fondatore della veduta pittorica, che la Biblioteca nazionale di Roma possiede. Sono il frutto di un acquisto, in parte ancora oscuro, compiuto alla vigilia del ferragosto 1893, quando queste cose normalmente non si fanno e tutti sono in vacanza, da Domenico Gnoli, Prefetto dell’Istituto, che li rilevò da un sedicente «antiquario romano», amico e creditore di Gabriele D’Annunzio, Francesco Gentiletti, per 498 lire e 13 centesimi: allora, una bella cifretta. Sono disegni che preparano dipinti famosi, studiati e pubblicati per primo da Giuliano Briganti nel 1966 nella fondamentale monografia con cui ricostruì anche la vita dell’artista, e ora analizzati da Laura Laureati. Restano divisi in categorie, le stesse che volle lo studioso: le Vedute di Roma, quelle dei dintorni, di altre città d’Italia, e quelle diverse, o «ideate», diciamo i «capricci». E saranno accompagnate da importanti prestiti, di quadri, manoscritti e documenti (le Vedute di Tivoli, del Porto di Ripa grande, di Ponte Sisto, dei Prati di Castello, ovviamente non ancora urbanizzati) e da un’interessante sezione multimediale, con cui si potrà «navigare» all’interno dei disegni, scoprire dettagli che altrimenti non sarebbero apprezzabili, leggere piccole note relative, per esempio, all’uso dei colori.

L’ACQUISTO MISTERIOSO

E sarà ricostruito anche il singolare acquisto, che rimane in parte misterioso. Gentiletti viveva a via del Babuino e Passeggiata di Ripetta; si definisce antiquario, ma certi documenti lo qualificano come artista, o trattore; non si trova traccia della sua attività in alcuna fonte. Era stato capo cameriere al Gran Caffé Roma di San Carlo al Corso dal 1891 per due anni, e qui D’Annunzio gli firma due cambiali, ancora conservate; lui pagava le colazioni al poeta, e gli prestava grosse cifre, che D’Annunzio non restituirà mai. Era creditore anche di Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao. Al Vate farà pignorare quadri di Francesco Paolo Michetti e tappeti della principessa Maria Gravina, finiti in possesso di D’Annunzio, che forse lo descrive, nella Nemica, come un usuraio. Chissà se solo con il salario e le mance, nel 1906 Gentiletti compera la trattoria Corradetti, nota come Alla Concordia in via Croce 81, che ora è Otello, nel cortile di palazzo Boncompagni Ludovisi, poi Poniatowski. E in un suo scritto per i 66 anni d’attività, si autoqualifica come un «avvelenatore mondiale»; dice: «Fatto del bene, ricevuto del male, ben mi sta».

L’IPOTESI

D’Annunzio non se la passava sempre bene, nel suo periodo romano, in cui redigeva anche note di costume su Cronaca Bizantina: nel 1891, deve sloggiare da via Gregoriana 25, proprio per l’incursione di chi doveva pignorare; sposa Maria Hardouin del Gallese, che gli darà tre figli, ma ne avrà una anche da Maria Gravina; in dieci anni, fino al 1891, scrive ad esempio Il piacere. È solo un’ipotesi: ma se quei disegni fossero stati suoi? Del resto, poco si sa anche sulla dispersione delle opere dei van Wittel italianizzati Vanvitelli: sia di Gaspare (1653 - 1736), giunto a 18 anni a Roma che mai più abbandonerà, sia del figlio Luigi, l’autore della Reggia di Caserta ed anch’egli pittore e disegnatore. Il figlio Carlo ne possedeva le due raccolte, spesso confuse, dal 1773: 96 vedute e 31 quadri di prospettive, 146 fogli di incisioni, 30 stampe di figure; i percorsi successivi restano ignoti.

Alcuni di questi disegni ora in mostra si erano già visti a Roma, una decina d’anni fa. Quasi tutti fogli quadrettati, «preparati dall’artista per essere riportati in proporzione sulla tela, o su altro supporto» (Laureati); Trinità dei Monti ancora senza il suo scalone; il Campidoglio e l’Aracoeli prima del Vittoriano e degli sventramenti; Villa Medici; i Fori, che erano ancora Campo Vaccino; il Tevere ancora senza i muraglioni; Villa Aldobrandini a Frascati e il castello Odescalchi a Palo, ma anche Porta Galliera a Bologna e la Badia Fiesolana, Venezia, San Marco e la Salute, Verona e Napoli; un ponte romano chissà se sparito o inventato, giusto per esemplificare. Sempre con mille dettagli, frutto pure della camera ottica; sempre con mille curiosità; sempre con il sapore del tempo che non c’è più. I turisti andavano pazzi, nel loro viaggio d’iniziazione alla storia ed alla cultura, per questo nuovo genere pittorico, sbocciato a Venezia, ma di cui anche Roma era divenuta una capitale.

La mostra (dal 18 aprile al 13 luglio) vanta un bel catalogo, prodotto da chi l’ha organizzata, è a cura di Maria Breccia Fratadocchi e di Paola Puglisi.

FONTE: Fabio Isman (ilmessaggero.it)