Al Museo del Prado una grande mostra sui simboli del potere tra arte e artigianato
Alla faccia della crisi! L’elettrizzante mostra al Prado su El arte del Poder, mette in gioco un tale sfarzo ed un deflagrare così coreografico d’immagini fastose che noi poveri papalini-sabaudi nemmeno a sognarlo! Per la prima volta, e l’idea è assai feconda, si mettono in dialogo, quasi a riverbero, i tre motivi considerati più regali dello status symbol monarchico-imperiale: e cioè l’armatura, gli arazzi, la pittura. Buon’ultima: perché, a rimbalzo simmetrico della nostra modernità, la pittura era considerata una componente secondaria, che collaborava certo al tramando dell’imago regale, ma non certo come una corazza, lavorata nelle botteghe principesche di Milano o di Vienna, e bagnata talvolta dal sangue simbolico d’una storica battaglia. Meno dei sontuosi arazzi dinastico-celebrativi, che venivano da Bruxelles (su disegni di venerati maestri, come Raffaello o Giulio Romano. Ma qui c’è la prova che anche scudi ed elmi avevano alle spalle gli stessi «progettisti» sommi).
Oggi, stoltamente, snobbiamo le armerie reali, ed è un errore, perché ogni volta che ci vien fatto di confrontarci con questi tumultuosi racconti allegorici di Colonne d'Ercole infrante e di mitologiche imprese, la sorpresa e l’incanto risultano altissimi. Ma quest’intelligente e innovativa mostra, curata da Alvaro Soler del Campo e che proviene da Washington, con la nomea cavalleresca d’un successo imprevisto, non si limita solo all’incanto estetico, che pure è palpabile, ma dimostra quando l’arte debba allo studio delle armi, e quanto le armi abbian influito sull’arte e contribuito ai suoi significati: realtà abitualmente trascurata dall’iconologia. Brilla, in mezzo alla sala introduttiva, una mitica celata splendente, destinata a Carlo V, dalla premiata ditta «mediolense» (così si firma, con elegante cartiglio) dei Negroli. Non latitano che i suoi occhi di bragia: l’elmo bucato ricoperto di riccioli d’oro, le orecchie d’acciaio. La sua presenza magnetica è come evocata in absentia. Ma in un'altra «borgonota» o elmo da guerra, senti già odor di battaglia. Un negro, nudo di bronzo, arrovesciato sulla calotta istoriata, lascia fiorire due grandi baffoni da turco (è il simbolo dell’Islam vinto, infatti) imbrigliati da due dame allegoriche, la Vittoria e la Fama. Qui davvero l’arte (del cesellatore virtuoso) è tutta al servizio della propaganda politica. E non stupisce che lo stesso elmo riverberi nella pittura vibratile di Velázquez, a pochi passi (la novità eccelsa di questa mostra, rispetto a Washington, è che qui sono miracolosamente balzati, alla ribalta, dei capolavori inamovibili, di Tiziano, Moro, Rubens, Velázquez, appunto).
Lo si ritrova, l’elmo, depositato sul capo di Marte e dipinto alla fulminea, da Velázquez. Marte appare un soldato in pensione che ha smesso da troppo tempo esercizi ed anabolizzanti, il classico gesto melanconico della mano, che sostiene il capo pesante e l’elmo smidollato, che pare un amaro cotillon. Siamo ormai all’epoca di Filippo II, il figlio di Carlo V che rifiuta d’andare in battaglia (e alle disfide decisive ci spedisce il fratellastro, Giovanni d’Austria). Riflessivo, non amava troppo le armi, e dicono che, caduto da cavallo, esclamasse: «basta, armature!». Preferì accreditarsi piuttosto come il «Re papelero», il Re delle scartoffie e della buona amministrazione: Primo Impiegato di stato. Anche quando si siede, goffo, in una sorta di tête-à-tête psicoanalitico con il padre, armato invece di tutto punto, pronto a scattare al richiamo del corno di guerra, lui prende pose femminee, calze di seta e scarpini da ballo, e quanto gli va stretto, quel poco di corazza che si concede! I pittori più prensili fiutano l’impaccio. Come Tiziano, che preferisce approfondire l’arma del volto e della psicologia e non ha nessuna cura filologica nel ritrarre le corazze (mentre si mostrano qui i pass nominali di Rubens e Velázquez, che sfilano diligenti in armeria, per copiare). Eccolo lì, il Re Papelero, le labbra carminio da sciantosa, gli occhi febbrili di assenzio, ad indossare la sua leggendaria armatura «a fioritura», della battaglia di San Quentin.
Che costumi diversi, dal padre Carlo, che andava di persona in guerra, per battagliare. Anche se nel regale ritratto per la battaglia di Muehlberg, che sgomina la lega protestante di Smalkalda, non resta che la posa romana, a cavallo (omaggio a papà Massimiliano d'Asburgo) e la celeberrima corazza, approntatagli da Desiderius Helmschmid. È vero, se non ci fosse quella lancia (che ricorda il Miles Christianus, secondo i dettami di Erasmo, e la lancia di Longino, che trafisse il costato di Cristo) potrebbe passar davvero per una passeggiata refrigerante, in un crepuscolare boschetto giorgionesco. Ma l’iconologo Panofsky ne ha spiegato le ragioni: Carlo V sbaraglia la lega protestante, ma non vuole innescare una guerra di religione, anzi, si pone come il Re Prudente che cerca, senza riuscirci, di far dialogare i due mondi religiosi. La corazza basti, dunque, quale simbolo politico eloquente. La recente ripulitura svela un altro dettaglio eloquente. Non è una sporgenza di sella, quella che dipinge Tiziano, bensì una delle sue varie pistole, amate come levrieri, a dire la doppiezza di Carlo, cavaliere antico eppur fanatico dell’ultima tecnologia, a polvere da sparo. Dopo di lui, la sua stessa simbolica corazza passa a nobili guerrieri (che liberano Genova dal giogo franco-sabaudo o «bonificano» Napoli da Masaniello) poi giunge, come una corona dinastica, alla stirpe dei Borboni. Anche Luigi XIV, Re Sole, l’indossa, ma è ormai un accessorio vezzoso, sepolto da sete e piumaggi. E l’incedere marziale di Carlo si trasforma in un passo di minuetto, alla Lully.
FONTE: Marco Vallora (ilsole24ore.it)