mercoledì 27 maggio 2015

Chagall, la vita e l'amore in 140 opere al Chiostro del Bramante

 
L'amore, ovunque. Dalla passione per la moglie Bella, la sua più grande fonte di ispirazione, alla nostalgia profonda per Vitebsk, fino allo stupore di fronte alla maestosità della natura: il mondo poetico e fantastico di Marc Chagall è raccontato nella mostra Love and Life, al Chiostro del Bramante fino al prossimo 26 luglio.

Centoquaranta opere provenienti dall'Israel Museum in un allestimento curato da Ronit Sorek e prodotto da Dart e Arthemisia Group, che raccontano uno Chagall «sconosciuto», che parla d'amore e di nostalgia. «Solo l'amore mi interessa - scriveva Chagall -. Sono a contatto solo con cose che hanno a che fare con l'amore».

«Il messaggio centrale che l'artista vuole portare - ha spiegato Sorek - è l'amore per la vita. Un amore che si esprimeva per il suo villaggio, la sua infanzia, l'ebraismo, sua moglie Bella, fino a quello per la natura».

«L'intento di questa mostra - ha spiegato ancora la curatrice - era proprio quello di far conoscere al visitatore uno Chagall inedito. Abbiamo esaltato aspetti diversi dell'artista rispetto a quelli che siamo abituati a vedere. Chagall usava molto i colori, noi qui abbiamo esposto soprattutto raffigurazioni in bianco e nero che esprimono il messaggio universale di Chagall, che è l'amore. L'amore per la vita - ha continuato - per la sua patria, la Russia, per l'ebraismo, per la Francia e soprattutto per sua moglie Bella, che da terreno diventa ideale».

La mostra ha anche una parte interattiva, opera del francese Fabien Iliou, che ha animato alcune illustrazioni in bianco e nero di Chagall con i colori con cui il pittore amava realizzare le sue opere. Nella sala centrale del Chiostro del Bramante è infatti installato uno schermo sul quale il visitatore può osservare le fasi di composizione dell'opera.

In un'altra sezione invece il visitatore può immergersi, e fotografarsi mettendo il suo viso al posto di quello dei due amanti, in uno dei dipinti più famosi e poetici dell'artista russo, La passeggiata (di cui alla mostra è presente una gouache del 1919).
 
FONTE: ilmessaggero.it

sabato 23 maggio 2015

Ebru: a Roma l'incredibile pittura sull'acqua

 
Partendo da una vasca piena di liquido e colore, Danilo Giannoni scrive, disegna e definisce nuove forme di "caos"
 
Un caleidoscopio di colori e di emozioni, colori che danzano soavemente, soggetti fluidi impressi per sempre, il tocco delicato di un artigiano che diventa passione, pennellate che sembrano infuocate, fiumi che sembrano rompere gli argini: soggetti in movimento che conquistano l'eternità, rabbia che diventa pace e silenzio. Sono queste alcune delle impressioni che si vivono osservando queste preziose opere, realizzate con una tecnica particolarissima e antichissima, unica al mondo, chiamata Ebru, parola turca che deriva dal persiano ebri "nuvoloso".

Sarà inaugurata giovedì 21 maggio presso gli spazi espositivi de Il Margutta RistorArte, in via Margutta 118 a Roma, la mostra personale di Danilo Giannoni “Caos liquido”, voluta ed interpretata dalla sensibilità di Tina Vannini, a cura di Francesca Barbi Marinetti e organizzata da Anita Valentina Fiorino. La mostra sarà visitabile sino al 9 luglio ad ingresso libero.  Nelle zone dell’India e dell’Iran quella Ebru era una tecnica applicata praticamente per la maggior parte dei libri ed è lecito supporre che tragga origine dalla zona di Bukhara (attuale Uzbekistan) e risalga ad almeno 3000 anni fa. La tecnica si è poi diffusa lungo la Via della Seta fino in Iran, India e nei Paesi Arabi, sino ad affermarsi in Turchia nel corso del XVII secolo. L'origine del nome allude poeticamente alla sua mutevolezza e labilità poiché, come una nuvola o un insieme di nubi, ogni quadro è unico e irripetibile.  Partendo da una vasca piena di acqua e colore, Danilo Giannoni, uno dei pochissimi seguaci di questo stile artistico in Italia, scrive, disegna, definisce linee e forme dipingendo in una grande massa di liquido. Il colore, grazie a sostanze esclusivamente vegetali che gli permettono di rimanere a galla, diventa fluido e soggetto a modifiche, permettendo la creazione di macchie, venature, onde, profili, sagome, che diventano tutto e niente, che ipnotizzano ma rilassano, creando una serie di emozioni contrastanti che colpiscono grazie al loro ordinato caos multicolore. Una volta terminato, un foglio di carta di riso renderà questo frenetico ed eterno “panta rei” immobile, ma incredibilmente soggettivo. “Quando vado in studio e sono ispirato a dipingere mi piace molto accendere la musica – spiega l’artista Danilo Giannoni - Ho una sound track del mio lavoro che è molto particolare parte da Mozart a Bach, da Pergolesi a Vivaldi, da Coldplay a Mina, dalla divina Callas a Renata Tebaldi. Mi lascio così trasportare da una routine artistica e meccanica, cercando di limitare, se non escludere in toto, la mia influenza nell'opera. Io sono la pioggia di colori che con l'aiuto del vento e del movimento dell'acqua crea questi mondi: ognuno di questi si muove, evolve, lotta, fino alla conquista del Caos. Forse l'ispirazione principale è sempre e solo stata la vita, cercare di riprodurre la creazione di un mondo con tutti i suoi tormenti, sviluppi, fallimenti, successi e paure”. Dopo una formazione d’eccellenza alla scuola orafa valenzana, che gli permette nella vita di avviare un’attività d’alto livello, Danilo Giannoni per soddisfare una sete creativa che lo portasse oltre il mestiere di fine artigianato, si accosta alla conoscenza dell’ebru ad Istanbul dove si ferma per apprenderne l’arte per ben cinque anni. Si mescolano qui motivazioni personali e la volontà di realizzare le visioni della propria ricerca interiore che nella vita lo aveva spinto allo sconfinamento estetico e culturale. “Pregno di storia e profondità simbolica, l’antica arte dell’ebru per Danilo Giannoni è stata una folgorazione sulla via di Damasco - afferma la curatrice Francesca Barbi Marinetti - tecnica e opera sono tutt’uno, connubio esemplare del percorso dell’artista e della sua poetica. Le dimensioni cercate sfuggono al tradizionale utilizzo dell’ebru, obbedendo invece al polso e alla sete creativa. È in questo passaggio che avviene la differenza, che l’opera d’arte si fa tale. In un viaggio del corpo e dell’anima attraverso territori e culture differenti Giannoni riconosce come denominatore comune gli elementi primari e primordiali. Acqua, Fuoco, Terra, Aria. Nella visione alchemica sono gli elementi alla base delle origini del mondo dal caos e dell’equilibrio che regola le leggi cosmiche”. Danilo Giannoni è un artista contemporaneo piemontese, attualmente residente a Hong Kong. L'antica tecnica pittorica turca della pittura sull'acqua è la sintesi della tradizionale tecnica ebru combinata a nuovi metodi e materiali, sino all'aggiunta di sagome e figure sulle tele. Danilo è stato protagonista di diverse mostre, dal 2002 al 2006, in Turchia, nel 2005 a Milano, dal 2010 al 2012 in Cina. Ma è anche il fondatore di Giamore, brand italiano di gioielleria di alto lusso. L’azienda di gestione italo-francese fondata nel 2012 è già una solida realtà nel panorama internazionale, con un laboratorio a Hong Kong e alcune collaborazioni in Italia. I suoi gioielli sono caratterizzati da una manodopera altamente specializzata nella ricerca e nell'acquisizione di pietre rare e nella creazione di pezzi unici, realizzabili su misura, secondo il gusto e la personalità della propria clientela e dei collezionisti.
 
FONTE: Francesco Salvatore Cagnazzo  (ilmessaggero.it)

sabato 16 maggio 2015

Camouflage per riflettere sull’identità

 
Le fotografie di Lucia Fainzilber pongono l’accento sul meccanismo di ‘mimetizzazione’ delle persone
 
Lucia Fainzilber è una fotografa e art director argentina che vive a New York, che ha realizzato un progetto fotografico con sé stessa come soggetto in una serie di immagini che ne dissolvono completamente l’identità. ‘Somewear' è il nome del progetto in cui Lucia si è autoritratta con abiti e accessori (lenzuola, scialli) che la mimetizzano con lo sfondo. Una sorta di camouflage inserito nei contesti più disparati, dal supermercato alla siepe, passando per la carta da parati al cielo terso.

Il suo intento non è tanto la precisione della mimetizzazione, che anzi appare volutamente poco curata, piuttosto alimentare una riflessione sul concetto di identità, su ciò che siamo e ciò che la società decide per noi. Mettere sé stessa di fronte all’obbiettivo è l’esercizio di partenza da cui scaturisce la riflessione, un modo per guardare la propria immagine da un punto di vista differente, mentre lo step successivo è il camouflage. Tecnica che utilizzano gli animali per cacciare o per non essere predati, e che utilizzano i soldati per non esporsi al fuoco nemico: anche Lucia Fainzilber ‘scompare’ sullo sfondo per creare l’illusione ottica di venirne inglobati, di non essere più quello che si è.

Le immagini sono interessanti e, se a prima vista appaiono come un esercizio di stile, ad un approccio più profondo riflettono il concetto di società che ci plasma, dello ‘scomparire’ nella massa, dell’uniformarsi esteticamente ma anche nel modo di pensare, per sentirsi parte di un tutt’uno piuttosto che emergendone. Rinunciare alle proprie peculiarità per mimetizzarsi con la società: Lucia Fainzilber trova un modo interessante per proporci una riflessione in merito. Per vedere tutte le immagini del progetto.
 
FONTE: lastampa.it

giovedì 14 maggio 2015

A Venezia per vedere tutti i futuri del mondo

 
La mostra curata dal nigeriano Okwui Enwezor si addentra con impeto nei problemi di un pianeta dove il tempo della storia non è lo stesso dovunque. Qualità e visibilità per gli italiani
 
Con il padiglione centrale dei Giardini listato a lutto la prima cosa che viene da dire è «Si comincia male!». Anche perché le bandiere nere sono opera del pessimo e sopravvalutato artista Oscar Murillo stella piangente, più che nascente, del mondo e del mercato dell’arte. Appena entrati la sensazione potrebbe essere confermata da una serie di opere con la parola «FINE». Nemmeno si è iniziato che già tutto è finito? Assolutamente no.  
 
Il vestibolo ottagonale con la cupola decorata agli inizi del ’900 da Galileo Chini è dedicato tutto al nostro Fabio Mauri. Chi si lamenta del numero scarso di artisti italiani selezionato da Okwui Enwezor, curatore di questa 56ma Biennale, qui si renderà conto che non è una questione di numero ma di qualità e visibilità. Se non ricordo male, non credo che il padiglione principale abbia mai avuto nelle ultime edizioni della Biennale la prima sala tutta dedicata ad un Italiano. Il funereo Murillo è già dimenticato. Enwezor con la sua mostra intitolata Tutti i futuri del mondo è riuscito a dire e a fare quello che né Expo né gli imbecilli dei Black Block sono stati capaci di fare e di dire. Il mondo o meglio i tanti mondi che compongono il nostro pianeta è fatto di problemi e delle loro possibili soluzioni.
 
Come un teatro  
Il curatore Nigeriano oggi direttore dell’Haus der Kunst di Monaco di Baviera le mette in scena con grande potenza ed eleganza aiutato nell’allestimento della mostra dall’architetto inglese David Adjaye. Dire che la mostra di Enwezor, almeno questa parte ai Giardini, sia una ventata di aria fresca sarebbe fuorviante. Il vento di Enwezor soffia violento e pesante non è certo un ponentino. I temi ed i protagonisti che mette sul suo palcoscenico (perché questa Biennale è un vero e proprio pezzo di teatro), arrivano da luoghi, società e culture dove la modernità sta ancora facendo i conti con diverse realtà, spesso contraddittorie e conflittuali: dall’Africa al Sud America all’Asia. 
 
Il fatto che la sala centrale tutta ricoperta di moquette rossa sia stata trasformata in un arena dove non si espongono le blu chip ovvero le opere d’arte più eclatanti, ma si narrano in vari modi i problemi presenti e passati del mondo è un segno chiaro di come il curatore abbia voluto trasformare l’esposizione in manifestazione, nel senso vero e proprio del manifestare in modo vocale lo stato delle cose.  
 
Si recita il Kapital Oratorio, dal Capitale di Karl Marx, diretto dall’artista inglese Isaac Julien o si ascoltano le canzoni dei lavoratori e degli schiavi cantate in modo emozionante dalla coppia di artisti Julian Moran e Alicia Moran Hall. Non sarà una Biennale facile da digerire, molti film e molti video e tanto tanto tanto da leggere, ma non solo. Ci sono anche sculture disegni e pitture. Bellissimi i quadri dell’americana Ellen Gallacher e quelli del pittore di Chicago Kerry James Marshall e pure le tele angosciantissime del giovane artista giapponese suicida Tetsuya Ishida. Delicatissimi i lavori dell’egiziana Inji Efflatoun a conferma che Enwezor ha scavato a fondo evitando il più possibile l’effettaccio biennalesco.  
 
Deserti e praterie  
Un’altra italiana alla quale è stato dedicato un bello spazio è Rosa Barba con un film, leggermente sul palloso, che mostra deserti e praterie, ma confesso di non averlo visto tutto, magari ad un certo punto ci si diverte pure con qualche azione a sorpresa. Lo svizzero Thomas Hirschhorn ha sfondato invece, o cosi sembra, il tetto di una delle stanze, facendo piovere in mostra pagine di testi di filosofia greca, possibile, ma non garantiamo, citazione alla crisi economica della Grecia. In un’altra sala tantissimi disegni a matita del tailandese Rirkrit Tiravanija, un veterano delle Biennale. I disegni sono presi da immagini di manifestazioni di protesta in giro per il mondo. In un disegno c’è un cartello che dice «Stop Arguing», smettete di litigare, che forse riassume il titolo della Biennale.  
 
I mondi potrebbero avere un futuro se si smettesse di litigare. Ma c’è un’altra opera simbolo di questa parte della Biennale. E’ di Hans Hacke artista iperpolitico che però in questa vela blu degli Anni 60 che galleggia sostenuta da un semplice ventilatore ci offre l’opportunità di sperare che anche nei problemi ci possa essere un lato poetico nel quale abbandonarsi e abbandonare le nostre preoccupazioni. In un video del francese Chris Marker, ecco che appare la scritta «Life is very long», la vita è molto lunga. Anche questa frase rappresenta bene questa Biennale, nel senso che per godersela tutta è necessario avere una vita molto lunga davanti. 
 
Un giorno libero  
Noi curatori siamo sempre ottimisti. Si esce dalla stanza dell’Inglese Jeremy Deller con uno stendardo che dice «Hello today you have a day off», salve oggi hai un giorno libero. Frase che va mano nella mano con quella di Marker. Una vita lunga e molti giorni liberi per poter capire una Biennale che ha il coraggio di raccontarci non solo il mondo dell’arte ma i mondi nell’arte dovrebbe aiutare a migliorare la vita e non a complicarla. 
 
FONTE: Francesco Bonami (lastampa.it)