Si apre oggi ad Arles la mostra dedicata al grande fotografo che ha usato le sue immagini come un’arma contro il razzismo
Una delle tante leggende su Gordon Parks vuole che abbia iniziato ad amare la fotografia quando, nel 1934, poco più che ventenne, faceva l’inserviente sui treni Chicago-Seattle: la gente lasciava sui sedili Life e Vogue e lui, intelligenza sveglia di chi nasce ultimo di 15 figli in una famiglia nera e povera del Kansas, imparava da autodidatta, sfogliando quelle riviste patinate, cosa fosse e come si costruisse un’immagine. Certo poi avrà altri maestri come Roy Stryker, mitico direttore della Fsa (Farm Security Administration, culla della fotografia documentaristica americana), che l’accoglierà a Washington e lo porterà poi con sè alla Standard Oil. Alla Fsa il giovane Parks cerca di sbollire la rabbia per il razzismo di cui si sente circondato anche a Washingotn realizzando un reportage sulla vita della donna nera che fa le pulizie in quegli uffici: strizzando l’occhio al celebre quadro di Grant Wood la ritrae (siamo nel 1942) sotto una bandiera americana, con la scopa in una mano e nell'altra uno strofinaccio, e titola l’immagine American Gothic. Subito nessuno gliela pubblica, ma diventerà un’icona della fotografia americana del dopoguerra.
A realizzare la prima grande retrospettiva italiana su Parks è stata nei mesi scorsi la Fondazione Forma a Milano e la stessa mostra, curata da Alessandra Mauro e Sara Antonelli, approda da oggi ai «Rencontres de la photographie» di Arles, che François Hebel dedica quest’anno al bianco e nero. La mostra segue l’evoluzione di Parks, dalle prime foto documentaristiche degli Anni 40 ai grandi reportage degli Anni 70 (dopo, il poliedrico Parks diventerà anche compositore di musica e regista cinematografico e, in una vita piena di record, sarà il primo nero a girare un film per le major hollywoodiane). Si può leggere la carriera di Parks fotografo come un proseguimento della sua fascinazione giovanile per Life e Vogue, perché Parks non sarà solo un grande documentarista ma anche un raffinato fotografo di moda e lavorerà da professionista per entrambe le testate.
Ci sono, nella fotografia, vari modi di operare: c’è chi teorizza e pratica il distacco assoluto dai soggetti che riprende, e chi invece si fa coinvolgere al punto da viverci insieme per mesi e di andarli a cercare anche anni dopo gli scatti per vedere che fine hanno fatto e come se la passano e magari aiutarli a trovar casa o a risolvere problemi economici. Gordon Parks appartiene a questa seconda categoria: i suoi reportage - che abbiano per oggetto la donna delle pulizie della Fsa, le Pantere Nere e i movimenti antirazzisti Anni 60, Malcolm X o la famiglia Fontenelle che vive di stenti a Harlem, Cassius Clay o Luther King o i giovani delle gang di strada a New York - sono per lui fonte di incontri e amicizie che durano nel tempo.
Il suo talento si manifesta anche nei ritratti di personaggi del mondo del cinema, artisti, musicisti o gente del jet-set: si va da Ingrid Bergman (celebre la serie a Stromboli sul set dell’omonimo film, quando lei viveva la sua storia d’amore con Rossellini) a Giacometti, da Carlo Levi (lo riprende nel suo studio mentre dipinge una modella) a Leonard Bernstein. Parks non si cimenta solo con il bianco e nero, ma lavora con risultati notevoli anche con il colore: basti pensare al reportage del 1957, «sporco» e cinematografico alla Cattivo tenente, in cui segue per un po’ di giorni la polizia di Chicago, o alle eleganti foto di moda dei primi Anni 50 o alle acciaierie della Pennsylvania o a The Learning Tree. C’è in Parks anche una vena letteraria: non solo scrive articoli e testi che accompagnano le sue foto, ma talora realizza reportage che si ispirano a celebri romanzi, come nel caso dell’Uomo invisibile di Ralph Ellison.
Il taglio delle immagini, lo sguardo di Parks, il suo modo di comporre si possono definire classici: forse per valorizzare ancora di più gli emarginati o i discriminati di cui si occupa, il fotografo ha un’attenzione non comune per la forma, per i rapporti tra luce e ombra, e non mancano (non solo nel caso di American Gothic) i rimandi all’arte. E sono molte le immagini della mostra che rimangono scolpite nella mente: si tratti della fila di scarpe su un selciato di Harlem, della bambina che beve alla fontana per «coloured only» in Alabama, della donna nera che aspetta il tram su un marciapiede di Washington, delle modelle newyorchesi con taglio alla garçonne. E se pensiamo ai conflitti razziali di quegli anni possiamo davvero dar ragione a Parks (morirà 94enne nel 2006) quando diceva che la macchina fotografica è stata per lui «un’arma da usare contro tutto quello che non mi piace dell’America: la povertà, il razzismo, la discriminazione».
GORDON PARKS, UNA STORIA AMERICANA
ARLES MAGASIN ELECTRIQUE
FINO AL 22 SETTEMBRE
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