Le «espressioni» di un lombardo che anticipò la globalizzazione
Mission impossible. Come comprimere una grande metropoli in un’unica mappa, quando ci vorrebbe un atlante. Design, architettura, ceramica, decoro di interni, grafica e riviste sotto lo stesso tetto, da un’unica mano. Mai specializzato né settoriale, libero di spaziare traducendo materia poetica in prodotti di serie. Inaugura oggi alla Triennale di Milano «Espressioni di Gio Ponti», curata da Germano Celant, in collaborazione con Gio Ponti Archives e gli Eredi di Gio Ponti, una mostra che nasce da un profondo (ed eroico) lavoro d’archivio, per «catturare » uno dei maestri del Novecento nell’immensa rete di materiale che ha prodotto.
«Per me è stato un viaggio, un’incredibile avventura — racconta Celant —. Ed è stato bello perdersi in questo labirinto, in questo arcipelago d’arte». Nella missione impossibile, serviva una chiave interpretativa. Celant ha lavorato sulle emergenze di un iceberg immaginario, esaltandone imponenza e versatilità. Una mostra che riflette il carattere di caleidoscopio progettuale, ma soprattutto culturale, che ha segnato il dinamismo della vita di Ponti. Perché era un tuttologo, uno capace di «fà tuttcoss», come si direbbe nel dialetto a lui più caro. Architetto multiforme, capace di disegnare posate, navi transoceaniche o alzare grattacieli come il Pirelli di cui ricorrono i 60 anni e dove, fino al 31 luglio, si terrà la mostra parallela «Il fascino della ceramica».
In un’epoca in cui tutti invocano il rinnovamento, torna più che mai d’attualità l’architetto che ne ha fatto uno stile di vita. Essere attuali a tutti i costi. «Tradizione è fare cose nuove bene come cinquecento anni fa», ripeteva spesso. Quasi una metafora dei giorni d’oggi. Una continua ricerca, con un unico punto fermo. C’è l’arte, poi tutto il resto. Ogni mostra è un racconto e come tale deve avere un incipit. Qui si parte da leggerezza e colore. Una Superleggera e tutto il campionario delle sedie pontiane piovono dal cielo galleggiando nell’aria sopra le 1778 piastrelle in dodici colori diversi del pavimento progettato per gli uffici del giornale Salzburger Nachrichten nel ’76. Ma questo è un percorso che si può leggere dalla A alla Z, come mescolando le carte. Perché «l’attraversamento di Ponti» non può avere una forma o un’unica direzione. «È come se queste sale non riuscissero a contenerlo: qui ognuno può cercare il suo filo », spiega Celant.
Duecentocinquanta pezzi (solo otto sono stati ricreati al Politecnico, il resto è originale) in mille metri quadri di esposizione. Ci sono gli schizzi a mano, per Venini o Ginori, i taccuini di studio, non i progetti tecnici. Tracce delle sue collaborazioni con Piero Fornasetti e Fausto Melotti, il bianco e nero da due piccoli display, davanti alla ricostruzione del suo studio, dove scorrono come in un film interviste ed immagini. C’è il mobile «Positivo Negativo», trionfo del superfluo, dato che non ci si può mettere dentro niente: apri un’anta e tutto è bianco, la chiudi e tutto diventa marrone. Il tavolo «di stoffa» per casa Trunfio del ’51, la macchina del caffè La Cornuta che luccica come se corresse ancora l’anno 1949. I primi numeri di Domus e di Stile, i suoi libri, anche quelli non scritti.
«Ponti si era preso la libertà di essere curioso», spiega Celant. Difficile rapportarlo alle archi-star di oggi. «Ha vissuto un’altra epoca e proprio per questo la sua attenzione alla comunicazione lo rende così moderno — racconta il curatore —. La sua attitudine a lavorare sulle contraddizioni di un linguaggio per immagini che poteva affidarsi a qualsiasi cosa, nave o piatto, sedia o grattacielo, hotel o poesia, gli ha permesso un approccio liberatorio che nel contesto di una cultura monolitica è risultato dirompente e sconvolgente», aggiunge. E così scorrendo le opere si coglie come se Ponti si divertisse a giocare a scardinare ogni giorno con un nuovo materiale l’ordine assoluto che dominava l’arte del Novecento. Come a mettere disordine in una camera troppo perfetta e sempre uguale a se stessa.
Ponti era un architetto globale, capace di lasciare il segno a Hong Kong, come a Baghdad, New York o Caracas. Ma poi c’era Milano, la città dove è nato, cresciuto e che ha lasciato nel settembre del ’79. Il centro nevralgico della sua produzione. «Milano è il più recente fenomeno continuativo della storia d’Italia», diceva Ponti. Nella sala, le miniature dei grattacieli chiuse in una teca restano un simbolo tangibile di volumetria pura, di una Milano che guarda in alto e, salendo verso il cielo, gonfia il petto sentendosi città moderna. Ma il cielo della stanza non può rendere l’impatto totale di Ponti su Milano. Per questo, il filo prosegue fuori dalla Triennale. Come seguendo i sassolini che col tempo si è tolto dalle tasche, sono stati pensati una serie di itinerari ad hoc (al sabato) tra le sue opere per le strade della città. Ponti ripeteva spesso «mi è venuta un’idea», mai «ho creato un’idea». Inventare vuol dire trovare e Gio Ponti non ha mai smesso di cercare, (sempre) giovane esploratore, nonostante i capelli bianchi.
FONTE: Stefano Landi (corriere.it)
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