E se la lussuria non fosse solo carnalità sguaiata ed eternamente insoddisfatta ma consapevolezza piena delle proprie sensazioni e coraggio di sorprendersi in dimensioni traboccanti di gioia?
E se la gola fosse un modo quasi pittorico di “naturalizzare” la rotondità delle proprie forme trasformandole in frutti rosei, in acini succosi, in liquori che strappano il primato al nettare degli dei? E se la superbia fosse arte dell’eleganza e della seduzione senza urgenze; l’accidia una molle predisposizione verso un mondo che non capisce e che non ci dà gli stimoli giusti per esaltare il nostro io, le nostre risorse; l’avarizia un modo soave di gestire i propri doni perché non vengano sprecati dalla ruffianeria e dalla rapacità di chi ci osserva; l’invidia una croce e una delizia che ci sfianca dentro ma ci fa sentire presenti in mezzo alla differenza ingovernabile degli altri, e l’ira un prezzo da pagare a una serenità che non teme le prevaricazioni ma le morde o le previene?
Se i peccati capitali fossero “anche” questo, ci troveremmo senz’altro nel pieno del progetto artistico, ideativo, spirituale di Sandra Inghes, artista “visionaria”, come si diceva un tempo, quando l’esercizio artigianale dei pennelli e dell’acrilico, delle masse e dei contorni, era anche legato a una concettualizzazione pura e audace della vita, e non a una rimasticazione di stilemi e di deliri di onnipotenza, servi della provocazione fine a se stessa, dello star system.
Sandra Inghes, progettista d’interni e apprezzata pittrice, romana, classe ’58, ha inaugurato proprio ieri una mostra intitolata “Eroticando” (promossa dalla Apas, Accademia per le Arti, le Scienze e lo Sport), presso il Caffè Veneto di via Veneto, storico locale della Dolce Vita. Una mostra che intende proprio rivisitare i sette “peccati capitali”, dogma inaggirabile della cristianità, in chiave femminile, trovando in quelli che la fede cattolica ha sempre considerato come l’abbandono della retta via e l’allontanamento, volontario e colpevole, dalla luce di Dio, un motivo, invece, di riscatto, di slancio morale, paradossalmente di virtù.
In un melting che unisce nelle tele della Inghes l’astratto e il figurato in un impasto molto onirico e suggestivo, linee che richiamano delicatamente Botero, accostamenti cromatici alla Klimt e urti quasi espressionisti che ci turbano nei “folli” della pittura come Ligabue, ritroviamo una donna che si consegna, allo sguardo di chi si affaccia sul bordo di queste tele-abisso, come in una perenne metamorfosi, come se cercasse di uscire dal viluppo di organi e sangue e materia per ritrovare un divenire, una identità, una libera profferta di sé. Quella che la Storia le ha spesso negato, e con essa la nitidezza di un rapporto alla pari con l’uomo e un fiorire fuori dalle etichette normalizzanti e soverchianti delle religioni, dei poteri costituiti, dei mondi patriarcali, delle sopraffazioni moralistiche cieche e cicliche.
«La Lussuria, legata alla quantità del piacere, all’esaltazione della libidine, è nata per caso - dice l’autrice che quasi ci aiuta a passeggiare fra le sue opere-, da un accenno di onde marine che poi mi hanno dato lo spunto nel rappresentare il sesso femminile ben evidenziato, quasi trasfigurato, violentato ed un sesso maschile che può essere quasi scambiato per una mammella. L’Avarizia, l’ho rappresentata grazie a un corpo femminile graffiato e circondato da mille cose tra cui delle calle nere, sorta di imbuti per travasare non solo le cose materiali ma anche i sentimenti. La Superbia, con una donna nuda, di spalle, quindi già in atto di sprezzo, che si sistema vezzosamente un cappello e che, attraverso le sue autoreggenti, fa nascere il senso del peccato, della tentazione, rendendosi però inavvicinabile, inespugnabile e che gode nel degradare gli altri per emergere, ricercando la propria superiorità, per costringere a svilire o a negare l’effettività delle doti di beltà di altre donne e contrastarle come se fossero antagonisti pericolosi. La Gola rappresenta il piacere fine a se stesso attraverso una donna che si nutre di fichi maturi tanto da vomitarne l’eccesso che ha ingerito. L’Invidia: una croce di colore rosso che delimita la tela in quattro riquadri ognuno dei quali viene occupato dagli organi della digestione (fegato, bile e pancreas) e da un cuore trafitto da chiodi di ferro».
Nell’Accidia e nell’Ira è ancora più direttamente tratteggiato questo dolente contendere la vita da parte della donna ai condizionamenti esterni che sembrano sempre metterla a regime, disattivarla, privarla di scintille e focolai di rivolta. L’adagio dell’accidia è appunto un esserci, un essere lì, pronta a fare, a tessere le passioni, a manipolare il mondo, se solo ci fosse un abbraccio fatale e non una consegna di morte. E l’Ira stessa, simboleggiata dalle spire del drago e da una lingua infuocata, è come ponderata e pareggiata da una pozione di tranquillità e moderazione, di comprensione umana avvolgente, che aspetta lì nell’ombra della bestialità del mitico rettile per ridare la giusta misura a quel patire che ritrova bellezza, equamente nella battaglia come nell’ascolto.
“Eroticando” è la vera “mostra”, quella che ci riconcilia con i “mostri” che ci portiamo dentro, con le vertigini dell’anima, e che solo nella nobile arte del vedere possono trovare un guinzaglio o un nuovo paradiso dove pascolare docili e fruttuosi.
FONTE: Carmine Castoro (ilmessaggero.it)