Alla Scuola di San Rocco a Venezia il confronto tra il maestro del’ 500 e il suo “allievo” del ’900 Emilio Vedova
Il taccuinetto con spirale ha un’aria non dimessa, ma professionale, tascabile: «Architetto» c’è scritto sopra in caratteri austeri, bodoniani, e più in alto una «A» archetipica, vitruviana. Come ad incipit di tutt’una esistenza. Cataclismatica. È già lì, bruciante, a mettersi in moto, quel fornelletto alchemico di trasformazione bio-biologica, che macchia la tiepida ante-porta progettuale e che inghiotterà l’interno trafficatissimo del notes, in un terremoto lapillico di segni, di frasi esplose, di appunti auto-conflittuali. Difatti quella pulizia apollinea di superficie non dura che un istante. Il pittore ci verga sopra, con sgraziata euforia urlata di scolaro ribelle, una raffica di sgorbi slabbrati, in nerea, frettolosa penna-feltro. Quasi ad appropriarsi, ad espugnare quel vestibolo educato, immacolato, anonimo: da professionista. Arruffato dis-architetto della demolizione interrogante: e giù una sparata a shrapnell di punti interrogativi, di domande irrisolte: 1990? 1991??? Con in più una crocetta ribattuta, arpionante, che riassume tutta la veemenza clamatoria di Vedova, proprio a sottolineare l’importanza strategica di quel taccuino.
Certo che sarebbe interessante fermare filologicamente la cronologia del taccuino, per questa mostra veneziana così essenziale, germinale. Ma in fondo non c’è mai un vero arresto pausato, nella sua ventosa, rapinosa biografia di zingaro incatenato della tellurica voracità pittorica. Ed in fondo il suo rapporto con Tintoretto, che è il fulcro assoluto della mostra e di questo suo notes d’interrogazione d’amore, balbettato ed esploso nell’eccesso di carnale devozione, è esistito da sempre: è quasi pre-natale, consustanziale. Per cui lo scrupolo di datazione, cui ci fa assistere, perentoriamente, in copertina, «suona» quasi caricaturale (in fondo il taccuino non è che una sorta di partitura visiva iper-sonante, alla Nono-Maderna -la grafia vibrata e scabbiosa, come un’Onda Martenon). Ha pochi anni, questo precocissimo ragazzino della ribellione scolare, anche pittorica, quando entra alla Madonna dell’Orto è viene come travolto, soggiogato, trascinato per la vita e i capelli, da quel vortice vorticante che è il giovanile Giudizio Universale tintorettesco, che macina stupori e seduzioni morbose: abissale volano impazzito e stregante. E non smetterà più di tormentarlo, con il suo morso d’infuocata salamandra, dolcissimamente avvelenato. Vedova veleggia ormai verso gli ottanta, e ribatte ancora le stesse solfe che pensava ragazzino e che ha pensato e megafonato per tutta la vita: «Tintoretto è stato una mia identificazione».
Identificazione, attenzione: non già musa, o ispiratore (tiepido), maestro. Per carità! No, «identificazione» assoluta: senza distanza. Vedova vuole annullarsi, «traslarsi», in un’alterità senza confini: traslitterare energia pura, e tutta tintorettesca. Non c’è più spazio, né tempo, soprattutto, nemmeno per l’organizzazione benpensante della sintassi, per la punteggiatura del respiro, trafelato: «quello spazio appunto una serie di accadimenti quella regia a ritmi sincopati e cruenti, magmatici di energie di fondi interni di passioni di emotività commossa». La pittura (e lo si vede in mostra, conLacerazioni e molti Oltre) come sfondamento, frullar d’ali maligne, turba cromatica inarrestabile: non è più superficie risolta, risposta-messaggio dipinto, risultato incorniciabile e mercantizzabile. Ma è caos, accadimento, apertura perenne sul baratro nero e fuoco del nulla.
Rien, inizia esistenzialisticamente il suo immedesimato racconto sull’adorato Tintoretto (a scapito dell’ «odioso» borghese Tiziano) il partigianissimo Sartre, del Sequestrato di Venezia: pagine esemplari sulla fulmineità-Tintoretto, che indignava i patrizi veneziani, tutti propensi al più senatoriale Veronese.
Vedova rimane lo stesso sedicenne di quando, più esaltato dalle volute barocche del Longhena della Chiesa della Salute, che non dal nitore apollineo e Redentore di Palladio, prende uno specchio, lo getta a terra (indifferente al rischio di trovarsi in balia di mille, immillati riflessi sbrecciati) e dipinge baroccamente, dal sotto in su, un Sé, che diventa progressivamente, vulneratamente e vorticosamente: Altro. Atomica guerra di smantellamento dell’Identità anche pittorica (senza disturbare i francesi, o Derrida).
«”Rotto” da Altro, da possibili in bilico –smarrito». Non-accademico allievo, soltanto, della Schola di Tintoretto, quasi a risarcimento dell’incongrua accoppiata con il pop Lichtenstein, nei suoi violati ateliers (che l’avrà fatto infuriare nel suo «Al di Là Comunista») Vedova rientra invece con tutte le pompe trionfanti, alla fratelli Gabrieli, nella sua «casa del Padre»: la Schola di San Rocco, abbinato al suo genitore. Dove può tornare a covare a meraviglia i suoi incesti, con la pittura infuocata del Tintoretto, e ci sta da papa nero, sovversivo, grazie alla mallevadoria di Germano Celant e Stefano Cecchetti, che firma un intenso testo nel catalogo Marsilio, rapito dal confronto impressionante del volto di Vedova e l’Autoritratto atrabiliare del Tintoretto.
Ma sono da leggere anche il saggio di Giovanni Villa sui rapporti del Veneziano con la Modernità ed il toccante saggio dell’amico-assistente Fabrizio Gazzarri, che lo ri-fotografa in studio, in quegli incantati momenti di «sospesione», ove s’infiltrava subdola e felice, la febbre del Tentor.
VEDOVA TINTORETTO
VENEZIA SCUOLA GRANDE DI SAN ROCCO
FINO AL 3 NOVEMBRE
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