Perché quel Cristo si eleva in una torsione bizzarra che sembra sfidare secoli di iconografia sacra? E perché quel san Giovanni spicca in primo piano, monumentale, vestito di una tunica scomposta, alzando le braccia al cielo al pari delle altre figure sullo sfondo, senza veli, in una danza dionisiaca?Perché insomma El Greco sembra oggi così moderno? Così vicino ai giorni nostri, perfettamente a suo agio nel gusto pop con i suoi colori fortissimi, acidi; così aderente a un modo di pensare che, nel secolo scorso, ha infranto regole su regole, arrivando all’informale?
Ce lo chiediamo oggi, a quattrocento anni dalla morte, mentre uno strano destino si va via via delineando per questo pittore che rappresenta uno dei misteri più fitti della storia dell’arte. Nato a Candia (Creta) nel 1541, Dominikos Theotokopoulos è stato probabilmente il primo vero artista «europeo»: sin da bambino si forma alla Scuola cretese, un movimento pittorico post bizantino che predilige figure allungate e sottili, mani eleganti, cura dei dettagli, particolari inediti nell’iconografia sacra. Poi si sposta e va a Venezia (abbandonando moglie e figlio) e si incanta davanti ai volti di Tiziano, Veronese, Tintoretto. I suoi dipinti si addolciscono, i colori diventano più accesi. Infine, va in Spagna, elegge Toledo «città adottiva» e qui resterà fino alla morte, nel 1614.
Strano destino, si diceva. Sì perché mentre con il suo tempo El Greco ingaggiò spesso furibonde lotte per affermare una certa indipendenza artistica, la sua vera riscoperta si è avuta con la modernità, a cavallo tra Otto e Novecento. No, non ebbe vita facile: nonostante fosse amico di personalità sofisticate come il poeta Luis de Góngora (il quale, sull’epitaffio del pittore, scrisse qualcosa come: «Infuse il naturale nell’arte/ e l’arte nella ricerca») la sua arte era vista come troppo«fuori dagli schemi» per una committenza in gran parte formata da chierici e aristocratici vicini alle alte sfere ecclesiastiche.
Per dire, nel 1581, Filippo II fece rimuovere una pala di El Greco dall’Escorial perché proprio non riusciva a raccogliersi in preghiera davanti a quelle figure inquietanti, forti, latrici di messaggi profondi e spesso indicibili.
Lo hanno amato e odiato con pari impeto. Giambattista Marino lo definiva «uno sciocco pintor», le cui opere meriterebbero «aqua e foco», ma Théophile Gautier, in un viaggio in Spagna alla metà del XIX secolo, parlava di «follia geniale». Così non stupisce che sia stato proprio il più anticonformista dei francesi ottocenteschi, Édouard Manet, a imporlo come esempio di straordinaria modernità in Europa. In Francia, a metà ’800, al Louvre era stata allestita la «Galérie Espagnole», mostra che fu una sorta di rilancio per il cretese. Però bisognerà aspettare ancora.
Aspettare quella straordinaria vitalità edipica che, nell’arte e non solo, portò a un vero e proprio parricidio nei confronti delle tradizioni. Picasso che riscopriva l’arte africana, Kandinski che prendeva a indagare le origini figurative della sua tradizione. Fu così che questo artista così puro, incorrotto, libero dagli schemi, venne preso a modello. Una mostra allestita a Düsseldorf nel 2012, dal titolo «El Greco e il Modernismo» ha fatto luce su questo tema, composto di assonanze, rimandi, echi ben percepibili. Pare che Picasso abbia dipinto Les demoiselles d’Avignon dopo aver visto L’apertura del quinto sigillo di El Greco, un’apoteosi panica del sacro (contrapposizione voluta, cercata, rimarcata); La terribile Deposizione dalla Croce di Max Beckmann esalta queste figure emaciate, stravolte; persino in certi cupi ritratti di Kokoschka si ritrovano gli incubi del cretese. Ma furono davvero incubi?
O forse furono più opportunamente suggestioni culturali, etiche e religiose che gli venivano dal suo tempo, dal Paese che aveva scelto, persino dalla città che aveva eletto come sua (Toledo, il cuore della Santa Inquisizione). Non lo sappiamo e forse non è nemmeno giusto chiederselo. Di certo, nelle grandi mostre che la Spagna propone in questo 2014 dedicato al El Greco, da Toledo a Madrid, avremo modo di studiarlo. O, meglio, di sentirlo.
FONTE: Roberta Scorranese (corriere.it)