A Firenze una grande mostra capovolge il luogo comune d’un pittore algido e glaciale. Nel suo Manierismo ci sono già Ribera e Caravaggio
Senza un filo di retorica. Ma se ci è dato di vedere una mostra così grandiosa ed intelligente e realmente innovativa, vuol dire che ancora un briciolo di speranza ci resta, in questo paese quasi perduto e arrangiato e pasticcione, anche (soprattutto?) per quanto riguarda le cose dell’arte e della cultura. Imparagonabile, a quel che passa d’abitudine il convento: nell’ottimo, discreto quando grandioso allestimento blu-nero e bronzinesco di Luigi Cupellini ci avverti i quattro intensi anni di studio e preparazione, da parte d’una coppia affiatata ed entusiasta come Carlo Falciani e Antonio Natali. E godi epidermicamente (le stoffe, gli sguardi, le sprezzature) ma anche intellettualmente, d’un sorprendente rivolgimento d’immagine. Non solo del solo Bronzino, popolarissimo ma sconosciuto, a quanto qui appunto si scopre. Ma pure d’un periodo-chiave, quale quello del Manierismo, che credevamo ormai, con sufficienza, redento, sarchiato e sistemato. Congelato.
Ma appunto: qui è in gioco, trionfalmente, scenograficamente e pure capillarmente, il gran teatro, folgorante e liquido, dello scongelarsi degli stereotipi critici, e degli aggettivi e degli attributi «frigidi», cristallini, che da sempre si son appioppati all’incolpevole Bronzino. Che non faceva bronzea scultura, ma che soprattutto non si meritò quel nome d’arte perché dipingeva con forme metalliche, incise, di pietra dura - come si pensa (anzi, qui si scopre che non dipingeva, episodicamente, nemmeno sul cupreo, vibrante rame, ma sul più sordo, sommesso stagno) soltanto forse perché era di pelle scura: un paradossale «meticcio» fiorentino. «Algido», «glaciale», «aulico», sentenziano tutti in coro, e Adolfo Venturi, con la sua prosa immaginosa, lì a descriver «ritratti, nel quale è inciso il segno come su cristallo, tornita la forma, e grande l’elezione stilistica. (Sinché) l’artificio s’impadronì dei corpi e della natura circostante, vi sparse l’acqua colata dalla ghiacciaia del Concilio di Trento e della Controriforma».
Ma se si fosse letto meglio quel volpone di Longhi, ben presente ai nostri curatori (ed indeciso lui, al bivio decisivo fra Piero della Francesca e Caravaggio, nel '27) forse certe scorciatoie rigide nel definire la Bella Maniera non avrebbero preso campo. Intanto perché si era reso conto che «più di quanto non si pensi, Firenze nel secondo Cinquecento era una fucina di tendenze e che proprio nel cuore dei movimenti più irrealistici di Bronzino e Pontormo si possono leggere con una buona lente d’ingrandimento frammenti e residui di una vena naturalistica, amorosa e dedita alla apparenza ottica delle cose, ai “valori” che è probabilmente eredità di uno degli aspetti dello spirito figurativo del Quattrocento», ma che procede «entro l’ambiente, con una lucidità di “valori” degna di un olandese del secolo dopo».
L’infilata di soli capolavori, scelti con cognizione, è disposta con logica stringente nelle varie sale a capitolo: la formazione fiorentina tra Raffaellino del Garbo e Pontormo (con la sola dolorosa assenza dell’Alabardiere di quest’ultimo) lo scatto incredibile tra Urbino e Pesaro, ove assorbe Piero, Bellini, Barocci, Tiziano, lavora accanto a Dosso, e forse usa Parmigianino e Lotto, poi il rapporto con i Medici, il dialogo pittura/scultura, l’arte sacra, ecc... Questa prima monografica a lui dedicata nasce là dove si era chiusa la mostra sull’Officina della Maniera, funestata dalle bombe mafiose, e non cancella, va da sé, l’impressione prima e tribunizia (alludiamo alla Tribuna degli Uffizi, ove prima dei restauri, dominava quel suo tono effettivamente austero e specchiato e scostante) di un Bronzino, smaltato di bellezza e superbo d’ornamenti e di gioielli di parata. Sarebbe stolto ribaltare la vulgata. Ma se lo si legge con più amore, quell’amore consigliato dal Longhi, si percepiscono assai meglio e più sovversivamente, il trepidare di certe carnagioni umanissime, la complicità più accostante per quel pupattolo baffuto, ancora col suo dentarolo di corallo ma già progettato cardinale, che è Don Giovanni, e l’accidia «more Carlo V», imperial-asburgica, di Cosimo, e il sopracciglio malandrino di tanti dandy spadaccini dell’epoca.
Vasari tiene a dire che Bronzino era di Pontormo «dolcissimo e molto cortese amico, di natura quieto e non ha mai fatto ingiuria a niuno». Tranne che con il fiele del pennello: come quando s’accanisce contro quella parvenu arricchita della mercantessa di stoffe, dalla mutria pienotta da bottegara avida, e tutt’intorno uno zampillare disordinato di seterie, già ingresque, che fanno molto pezze intrattenibili da bancone, e che son così atipiche, per l’olimpico Bronzino (mentre il consorte più intellettuale può vantare una Venere pudica, di blu già molto Yves Klein). E quei cagnoni festosi ed invadenti, che aggrediscono le balaustre, pur di rimaner vivi, inguinzagliati dallo scatto. Si rilegga Vasari, infatti, che concede a Bronzino quel che non passa allo «scorretto» ritrattista Tiziano: «Belli a meraviglia e condotti con infinita diligenza, tanto naturali che paiono vivi e che non manchi loro se non lo spirito».
Poi ci segnala anche «un Cristo crocefisso, onde ben si conosce che lo ritrasse da un vero corpo morto confitto in croce»: ed eccolo qui, incredibilmente riscoperto a Nizza, in odore di eresia riformata. Terribilmente nudo e solo: agonia della bellezza. Giansenista quasi, anche se subito mescolato alla sua musa comica (il sonetto bernesco alle cipolle) perché era anche poeta e sarcastico. Lo cacciano dall’Accademia, e richiesto del suo autorevole parere sulla disputa tra scultura e pittura, risponde con una lettera che provocatoriamente non finisce e con un portentoso nano Morgante, nudo, dipinto davanti e dietro, prima e dopo la caccia, come a dire che la pittura può imitare la varietà di prospettive e il passare del tempo, come la scultura. Nudo, storpio, scandaloso: e nella stanza, come storce il naso ulcerato, la puritana poetessa Battiferri, con il suo petrarchino come scudo, e l’urticato casentino da corazza. Non vuol assistere a tanto annuncio del Seicento naturalista: che par già di Ribera, o d’un caravaggesco.
FONTE: Marco Vallora (lastampa.it)
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