All’Ara Pacis i lavori dell’artista marchigiano
Si veda, nell’insolito catalogo Skira, dalle oblunghe vedute pieghevoli, di questo scarmigliato Bellotto marchigiano-moderno, quante mai pagine e pagine luminose, da parte di firme illustrissime e consonanti, spesso recidive, sian gemmate dall’osservazione complice e devota di quest’ormai conclamata «magnifica ossessione» dei duplici volti vissuti: insieme appezzamenti territoriali di fisionomie umane, e trafficati «visi» di leopardiani paesaggi. Ma le parole riemergono ogni volta fresche, inedite, senza mai voltarsi a ripetere quello che già è stato osservato. Come ora, nel caso di Bodei, D’Amico, Federica Pirani.
Ma simile virtù non è pregio soltanto di tanti abili naviganti nel mar della parola. È piuttosto insita nella qualità, nella fantasia inesauribile di Pericoli, che diresti ogni volta riaffrontare l’ennesimo refrain alla Lully, le più prevedibili fioriture belcantistiche dei suoi «soliti» colli del Tronto o la carta del tenero dei suoi più consolidati concittadini d’anima, e invece ogni volta si lascia scoprire incredibilmente e superbamente reinventato, ed anche qui ci regala una mostra-sorpresa del tutto nuova, magnetica e soggiogante, all'Ara Pacis.
E bisognerà ammettere che questi nuovi olii (pregni di terre sorvolate e di guance trafficate da umana sofferenza), mappe smarcate per sempre dalla pur degnissima matrice originaria, che è quella del disegno dettagliato e scritto, hanno raggiunto ormai un’autonomia cromatica di così adulta sprezzatura, che ci regala il fascino assoluto e rapinoso della pura pittura di materia: con quelle ciglia-cespuglio, arrugginite d’aranci e quelle graffiature d'azzurri malati, cementati nello smalto d'un vedere vissuto.
Ed è felicissimo anche il titolo di «Lineamenti», che unisce indissolubilmente i due «volti» di Pericoli, maestro nello scavare entro la genealogia parallela e superficiale di questi terreni interiori. D’Amico avvicina convincentemente questo lieto incontro, con l’impatto avuto al cospetto dei sulfurei ritratti di Artaud, Ponge, Michaux, azzannati da Dubuffet, che anche lui amava «trascorrere una buona villeggiatura nei volti» degli amici: «farci passeggiate e viaggi».
Ma se il santone Art Brut accecava di terra e di detriti le amate fisionomie, Pericoli ha raggiunto una levità quasi orientale, ove i tratti, pur infallibili, dei caratteri raccontati, s’incamminano verso la spiaggia dell’ineffabile e dell’indistinto: ai confini sfuggenti della fragile intrusione psicologica. I tratti lievemente induriti di Magris, Pollini perduto in una sua cantabilità interiore, gli occhialetti ridenti di Botta e l’ineffabile sorriso di Calasso, come il gatto del Cheshire di Lewis Carrol: che, svanendo, non ci lascia che il ciuffo nomade del ridere nicciano. E su tutti l’idolatrato Beckett, con quella magnifica carnagione di tweed, tramata di rughe e disincanto.
FONTE: Marco Vallora (lastampa.it)
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