Alla Galerie Canesso l’artista secentesco definito il Paganini della
pittura. A febbraio le sue tele approderanno ai Musei di Strada Nuova di
Genova
Era il periodo in Italia dei pomposi ritratti imparruccati di Pompeo
Batoni o degli angioletti vaporosi, svolazzanti dei Tiepolo. In Francia
c’erano le arcadiche Feste Galanti di Watteau, che avrebbero
suggestionato Verlaine, le silenti nature morte, già morandiane, di
Chardin, o i chiavistelli libertini di Fragonard (pittore profumato, cui
il parigino Musée de Luxemburg dedica una fastosa, sciroppante
retrospettiva). Ma ecco lo choc: se d’incanto si balza, in rue Lafitte
26, nella valorosa Galerie Canesso, tutto miracolosamente si spegne ed
arde, i colori si svenano, come per una rabbuiata e cospirante messa
nera, dalle tombe zampillano cadaveri, quasi fossero putrescenti grilli
malefici, e si finisce regalmente soggiogati, impantanati in antri scuri
e muscosi. Tra tangheri che cospirano nel buio, gitani che brandiscono
armi affilate ed arzigogolate, come riccioli ribelli e sinistri, e
monaci scalcagnati. Eccolo qui, il malmostoso artista Magnasco, che con
un camicione usurato e tremante da febbre malarica, sotto un
cappellaccio da brigante, si rappresenta come Pittor pitocco,
in un misero contesto slabbrato. Tra una zingara sbrecciata, che sotto
una finestra caravaggesca offre sfrontatamente le poppe ad un bimbo
ignudo, ed un «birbo» cencioso, un ciarlatano da strada, accartocciato
come una bestia, che bercia a bocca sguaiata.
Alessandro Magnasco, venne definito dal Bonzi «il Paganini del
pennello», perché era genovese come il sulfureo e virtuoso «mago delle
Streghe e del Moto Perpetuo» e perché «la sua scrittura inimitabile ha
caratteri musicali più che grafici, con pizzicati, crescendi, fortissimi
e pianissimi». Dipingeva in effetti capricci, toccate lambiccate,
invenzioni macabre, che all’epoca venivano demonizzate, come «arte della
forfanteria» stregonesca e minacciosa. Disprezzata per le tematiche
«basse, abjectes, pas noble», come testimonia un intenditore raffinato
quale il Mariette. Nato nel 1667 figlio di un modesto pittore, allievo
però del movimentato, barocco Valerio Castello, il Lissandrino,
soprannominato così perché era mingherlino di costituzione e dagli
«occhi canzonatori», lo racconta il suo biografo Ratti, molto prima di
Goya e di Füssli o di John Martin, incomincia a inzuppare la sua fosca
pittura di gitani, di furfanti, di pitocchi, di «moineries», ovvero di
fraterie gremite e cenciose. Persino la natura allucinata pare
partecipare surriscaldandosi, come nella rapinosa onda scarmigliata del
Sant’Agostino e l’angelo, che è una sorta di parabola allegorica
visualizzata. «Nessuno mai prima aveva fatto sibilare il vento e muggire
le onde così», scrive il Sambon. Sant’Agostino dispiega (tra alberi che
paiono accendersi come zolfanelli e l’ondata, che tutto pare
travolgere) ch’è vano cercare di afferrare le troppe nature di Dio, come
tentare di vuotare il mare con un cucchiaino.
È il mondo da romanzo nero e gotico, che la Spagna retrograda ed
inquisitoria lascia all’Italia occupata, andandosene: la Spagna dei
romanzi picareschi di Quevedo, di Mateo Alèman e del Lazarillo de
Tormes, che Magnasco ben conosceva, frequentando le colte famiglie
aristocratiche di Milano: i Borromeo, gli Archinto, i Durini. Ma anche
il Granduca di Firenze, Ferdinando, che probabilmente gli fa conoscere
le stampe miserabiliste delle Miserie della Guerra di Callot e ascoltare
il Trillo del Diavolo di Tartini. O i
virtuosismi barocchi del suo cortigiano Corelli. È lo stesso mondo del
bergamasco Ceruti, detto non a caso Pitocchetto, che però era di
trent’anni più giovane di lui, ma che pone lo stesso problema: quale
nobile magione di committenti poteva accogliere in casa e richiedere
iconografie così scomode e personaggi così cenciosi e ricattatori?
Certo, una classe avvertita ed anti-conformista, che da spagnola si fa
austriacante ed avverte precoce i venti dell’albeggiante rivolta
illuminista.
Il gallerista italiano Canesso, che ha avuto quest’ardimento museale
di far conoscere alla Francia un pittore così negletto come il Magnasco,
che ha richiamato visitatori illustri come Rosenberg, Fumaroli, o il
pittore Barcelò, con una mostra curata da Fausta Guelfi, che avrà una
tappa anche al Palazzo Bianco di Genova, con opere diversificate,
ricorda come fu l’italianista Dante Isella a spiegargli la Milano di
Magnasco e di un grande commediografo satirico come il Maggi. È la
Milano riformista e dotta, che con Magnasco accoglie pure il libertario
Muratori e di Scipione Maffei, dei quali il pittore pare mettere in
immagine i testi, contro la superstizione religiosa e l’oscurantismo. A
Milano arrivano i Quaccheri, e lui li racconta con minuziosità, così
come fa con le lezioni dei monaci fratacchioni e catechisti, che son
tenuti ad acculturarsi, e hanno ruoli specifici, pittoreschi. Il
Pescatore che va a ricercare i ritardatari, il Silenziere con brubero
campanello, per rimbrottare i renitenti ed il Cancelliere, che insegna a
compitare e far il segno della Croce. Ma c’è anche malizia mozartiana,
quando Magnasco «pizzica» le monache mondane, che si fanno acconciare
vezzose dalle novizie i veli maliziosi, sorbiscono la demonica bevanda
del Cioccolatte, col mignolo ritto, e hanno
appena deposto il sensuale violoncello, riflettendosi in proibite,
vanitose specchiere rococò. Così che nell’allegorico salotto delle Arti
irrompono i simbolici cinghialetti della lussuria, specchiandosi anche
loro, vanitosi, e travolgendo goffi cavalletti e mappamondi. Ma Magnasco
è anche un magistrale tele-cronista ante-litteram, quando descrive con
flash raccapriccianti il furto sacrilego, in una chiesa vicino a Pavia.
Alessandro Magnasco
Parigi, Galerie Canesso.
Fino al 31 gennaio.
Genova. Musei di Strada Nuova.
dal 25 febbraio
FONTE: Marco Vallora (lastampa.it)
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