domenica 17 gennaio 2016

A Parigi picari, monaci e furfantinel bel mondo di Magnasco

Alla Galerie Canesso l’artista secentesco definito il Paganini della pittura. A febbraio le sue tele approderanno ai Musei di Strada Nuova di Genova

Era il periodo in Italia dei pomposi ritratti imparruccati di Pompeo Batoni o degli angioletti vaporosi, svolazzanti dei Tiepolo. In Francia c’erano le arcadiche Feste Galanti di Watteau, che avrebbero suggestionato Verlaine, le silenti nature morte, già morandiane, di Chardin, o i chiavistelli libertini di Fragonard (pittore profumato, cui il parigino Musée de Luxemburg dedica una fastosa, sciroppante retrospettiva). Ma ecco lo choc: se d’incanto si balza, in rue Lafitte 26, nella valorosa Galerie Canesso, tutto miracolosamente si spegne ed arde, i colori si svenano, come per una rabbuiata e cospirante messa nera, dalle tombe zampillano cadaveri, quasi fossero putrescenti grilli malefici, e si finisce regalmente soggiogati, impantanati in antri scuri e muscosi. Tra tangheri che cospirano nel buio, gitani che brandiscono armi affilate ed arzigogolate, come riccioli ribelli e sinistri, e monaci scalcagnati. Eccolo qui, il malmostoso artista Magnasco, che con un camicione usurato e tremante da febbre malarica, sotto un cappellaccio da brigante, si rappresenta come Pittor pitocco, in un misero contesto slabbrato. Tra una zingara sbrecciata, che sotto una finestra caravaggesca offre sfrontatamente le poppe ad un bimbo ignudo, ed un «birbo» cencioso, un ciarlatano da strada, accartocciato come una bestia, che bercia a bocca sguaiata.  

Alessandro Magnasco, venne definito dal Bonzi «il Paganini del pennello», perché era genovese come il sulfureo e virtuoso «mago delle Streghe e del Moto Perpetuo» e perché «la sua scrittura inimitabile ha caratteri musicali più che grafici, con pizzicati, crescendi, fortissimi e pianissimi». Dipingeva in effetti capricci, toccate lambiccate, invenzioni macabre, che all’epoca venivano demonizzate, come «arte della forfanteria» stregonesca e minacciosa. Disprezzata per le tematiche «basse, abjectes, pas noble», come testimonia un intenditore raffinato quale il Mariette. Nato nel 1667 figlio di un modesto pittore, allievo però del movimentato, barocco Valerio Castello, il Lissandrino, soprannominato così perché era mingherlino di costituzione e dagli «occhi canzonatori», lo racconta il suo biografo Ratti, molto prima di Goya e di Füssli o di John Martin, incomincia a inzuppare la sua fosca pittura di gitani, di furfanti, di pitocchi, di «moineries», ovvero di fraterie gremite e cenciose. Persino la natura allucinata pare partecipare surriscaldandosi, come nella rapinosa onda scarmigliata del Sant’Agostino e l’angelo, che è una sorta di parabola allegorica visualizzata. «Nessuno mai prima aveva fatto sibilare il vento e muggire le onde così», scrive il Sambon. Sant’Agostino dispiega (tra alberi che paiono accendersi come zolfanelli e l’ondata, che tutto pare travolgere) ch’è vano cercare di afferrare le troppe nature di Dio, come tentare di vuotare il mare con un cucchiaino.  

È il mondo da romanzo nero e gotico, che la Spagna retrograda ed inquisitoria lascia all’Italia occupata, andandosene: la Spagna dei romanzi picareschi di Quevedo, di Mateo Alèman e del Lazarillo de Tormes, che Magnasco ben conosceva, frequentando le colte famiglie aristocratiche di Milano: i Borromeo, gli Archinto, i Durini. Ma anche il Granduca di Firenze, Ferdinando, che probabilmente gli fa conoscere le stampe miserabiliste delle Miserie della Guerra di Callot e ascoltare il Trillo del Diavolo di Tartini. O i virtuosismi barocchi del suo cortigiano Corelli. È lo stesso mondo del bergamasco Ceruti, detto non a caso Pitocchetto, che però era di trent’anni più giovane di lui, ma che pone lo stesso problema: quale nobile magione di committenti poteva accogliere in casa e richiedere iconografie così scomode e personaggi così cenciosi e ricattatori? Certo, una classe avvertita ed anti-conformista, che da spagnola si fa austriacante ed avverte precoce i venti dell’albeggiante rivolta illuminista.  

Il gallerista italiano Canesso, che ha avuto quest’ardimento museale di far conoscere alla Francia un pittore così negletto come il Magnasco, che ha richiamato visitatori illustri come Rosenberg, Fumaroli, o il pittore Barcelò, con una mostra curata da Fausta Guelfi, che avrà una tappa anche al Palazzo Bianco di Genova, con opere diversificate, ricorda come fu l’italianista Dante Isella a spiegargli la Milano di Magnasco e di un grande commediografo satirico come il Maggi. È la Milano riformista e dotta, che con Magnasco accoglie pure il libertario Muratori e di Scipione Maffei, dei quali il pittore pare mettere in immagine i testi, contro la superstizione religiosa e l’oscurantismo. A Milano arrivano i Quaccheri, e lui li racconta con minuziosità, così come fa con le lezioni dei monaci fratacchioni e catechisti, che son tenuti ad acculturarsi, e hanno ruoli specifici, pittoreschi. Il Pescatore che va a ricercare i ritardatari, il Silenziere con brubero campanello, per rimbrottare i renitenti ed il Cancelliere, che insegna a compitare e far il segno della Croce. Ma c’è anche malizia mozartiana, quando Magnasco «pizzica» le monache mondane, che si fanno acconciare vezzose dalle novizie i veli maliziosi, sorbiscono la demonica bevanda del Cioccolatte, col mignolo ritto, e hanno appena deposto il sensuale violoncello, riflettendosi in proibite, vanitose specchiere rococò. Così che nell’allegorico salotto delle Arti irrompono i simbolici cinghialetti della lussuria, specchiandosi anche loro, vanitosi, e travolgendo goffi cavalletti e mappamondi. Ma Magnasco è anche un magistrale tele-cronista ante-litteram, quando descrive con flash raccapriccianti il furto sacrilego, in una chiesa vicino a Pavia.  

Alessandro Magnasco  
Parigi, Galerie Canesso.  
Fino al 31 gennaio.  
Genova. Musei di Strada Nuova. 
dal 25 febbraio  

FONTE: Marco Vallora (lastampa.it)

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