Al Museo Thyssen Bornemisza di Madrid la grande retrospettiva del maestro americano
Artisti sotto la tenda del circo: perplessi era il titolo di un film del regista tedesco Alexander Kluge che nel 1968 vinse a Venezia il Leone d’Oro. Quel titolo, dove possiamo metaforicamente interpretare il circo come il mondo in cui ci troviamo a vivere, sembra riassumere alla perfezione la pittura di Edward Hopper, uno dei grandi artisti del ’900 non solo americano. Lo si capisce vedendo la retrospettiva, con oltre 75 opere, tra tele, acquerelli e incisioni, che gli dedica a Madrid il Museo Thyssen Bornemisza, in tandem con la Réunion des musées nationaux de France (a ottobre la mostra approderà a Parigi al Grand Palais). A firmare l’esposizione sono Tomàs Llorens e Didier Ottinger.
Hopper è stato uno dei più acuti interpreti della modernità e se Munch a cavallo tra 800 e 900 aveva espresso l’angoscia dell’uomo contemporaneo Hopper riesce, con il suo realismo e le sue atmosfere ovattate, ad esprimerne la solitudine e soprattutto la perplessità. È lo stato d’animo che leggiamo nei personaggi dei suoi quadri, a partire dal suo stesso e celebre autoritratto con il cappello in testa degli Anni 25-30. Pensiamo alla donna di Hotel room del 1931, con un libro tra le mani (difficile stia leggendo vista la distanza dagli occhi), le valigie in un angolo, i vestiti su una poltrona. O all’uomo dalla balconata del Teather Sheridan, 1937, lo vediamo di spalle, che guarda dall’alto non sappiamo cosa. O alla segretaria, che sembra esitare, davanti allo schedario, e al suo capo che sta alla scrivania, in Office at night, del 1940 o ancora alla ragazza seduta sul letto che guarda il sole entrare nella stanza nel celeberrimo Morning Sun del 1952. E il bello in Hopper è che, grazie ai sapienti giochi di luci e di ombre, che orchestra sulle tele, sembrano perplessi anche molti degli edifici o degli ambienti che dipinge su e giù per l’America (da un certo punto in poi soprattutto a Cape Cod dove ha preso una casa per le vacanze). Si potrebbero citare, solo per fare un esempio, Down in Pennsylvania del 1940 o Second Story Sunlight del 1960.
Forse la perplessità era un tratto che gli veniva anche dalla propria esperienza personale. Pur essendo stato un enfant prodige (a cinque anni i genitori furono impressionati dal suo talento di disegnatore e a tredici anni realizzò la prima tela) al successo arrivò tardi, quando aveva più di quarant’anni: il primo quadro Sailing lo vendette infatti nel 1913 (era nato nel 1882), e il secondo, l’acquerello Mansard Room dieci anni dopo, al Brooklyn Museum of Art. Nel 1930 finalmente, grazie al collezionista Stephen Clark, che l’aveva sempre sostenuto, il suo House by the Railroad approdò nelle raccolte del neonato MoMa (più tardi ispirerà Hitchcock per la casa di Psycho): fu la consacrazione che gli permise di abbandonare definitivamente il lavoro di illustratore pubblicitario con cui fino ad allora si era pagato la vita e i viaggi in Europa.
Era stato infatti più volte a Parigi ma anche a Berlino, Bruxelles, Amsterdam. Nella Parigi degli impressionisti e dei post-impressionisti aveva integrato le lezioni che gli impartiva alla New York School of art il suo maestro Robert Henri, che si batteva per un’arte autenticamente americana autonoma dalle influenze europee. Hopper studia le opere di Pissarro, Renoir, Sisley ma anche Valloton, Sickert, Degas, ne subisce in parte l’influenza ma, proprio come teorizzava Henri, la centrifuga elaborando uno stile personale e «americano». Ci riuscirà a tal punto che oggi molte delle sue opere sono considerate icone dell’American Way of life non solo tra le due guerre. In mostra vediamo i suoi lavori accanto a una piccola selezione di opere degli «europei»: così la Girl at a Sewing Machine del 1923 è accanto alla cucitrice di Vallotton del 1905, o la Ennui di Sickert del 1914 accanto a Appartament House del 1923.
Per i curatori lo snodo fondamentale tra l’apprendistato e la maturità espressiva in Hopper è rappresentato dalle incisioni degli Anni 20, in cui ha modo di mettere a fuoco i rapporti tra luce e ombre e in cui inizia a capovolgere in perplessità l’ottimismo che metteva a piene mani nelle illustrazioni per la pubblicità. Non dimentica, nelle incisioni, l’antico amore per le imbarcazioni e i luoghi di mare. Notevoli sono anche gli acquerelli dello stesso periodo, in cui elabora temi che ritroveremo nei capolavori della maturità. Fra questi in mostra manca il celeberrimo Nighthawks, del 1942, ormai intrasportabile, in compenso ci sono icone come Gas, del 1940, Morning Sun del 1952, Morning in a city, New York Office del 1962, Fino a Two Comedians del 1966 che già prefigurano l’uscita di scena di Hopper: morirà il 15 maggio del 1967. Tra le curiosità si può vedere anche Conference at night del 1949, il quadro che prima gli fu acquistato e poi restituito, perché in pieno maccartismo quell’opera poteva essere accusata di filo-comunismo.
La mostra madrilena è molto più ricca e incomparabilmente più interessante di quella vista a Milano due anni fa, ma perde ai punti, con la retrospettiva che a Hopper dedicò la Tate di Londra nel 2004. Oltre a non affollare i quadri in un bunker la mostra londinese proponeva tra l’altro certi paesaggi fluviali del maestro americano in sale che si affacciano sul Tamigi: una magia difficilmente ripetibile.
EDWARD HOPPER
MADRID, MUSEO THYSSEN BORNEMISZA FINO AL 16 SETTEMBRE POI AL GRAND PALAIS DI PARIGI
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