L'Alte Pinakothek celebra l'anniversario della fondazione con una grande mostra dedicata all'influenza dell'artista su Raffaello
Giustamente l’Alte Pinakotek di Monaco, uno dei più ragguardevoli musei d’Europa, in una città colta e musicale, che di musei prestigiosi ne presenta moltissimi, ha deciso di salutare i suoi 175 anni di fondazione con la celebrazione d’un quadro benedetto e dal pedigree simbolico (che torna in pompa magna al museo, dopo un lungo, necessario, sapiente restauro, senza troppe sgargianti vernici all’americana). Ovvero La Visione di San Bernardo, di Pietro Perugino, uno dei suoi indubbi capolavori, da tempo emigrato ed acquistato per questa stessa istituzione, in tempi emblematici, dal Re di Baviera stesso, quel Ludwig I (nonno dell’eccentrico, wagneriano Ludwig II) statista ed anche lui relativamente dissipatore di sostanze patrie, ma non in capricci e castelli. Piuttosto con acquisti mirati di opere vistose di pittura, propugnatore del neoclassicismo e committente di quella celebre Galleria delle belle donne, in cui alcune bellezze femminili del momento erano state immortalate in una sorta di harem dipinto (nessun mistero che fosse stato anche il folle amante di Lola Montez, anzi, costretto all’abdicazione).
Qui, invece, con la Visione siamo alla pietas religiosa più immacolata. Il Santo cistercense, seduto al suo scranno, entro una magnifica architettura prospettica fiorentina, aperta su uno scorcio di tremula natura tosco-fiamminga, quasi ipnotizzato dalla visione che scolpisce nell’incantesimo le sue mani stuporose, accoglie accanto a sé una Vergine, contigata e verissima, se pure accompagnata in corteo da angeli melodiosi. E non stupisce che intorno a quest’opera centrale il museo abbia come ri-architettato la disposizione stessa delle sue collezioni nazionali. Che hanno in gran parte un tenore nordico (Altdorfer e Dürer, Memling e Breughel, Rubens e Rembrandt) facendo dialogare alcuni armoniosi Perugino con altri artisti d’Italia centrale, tipo il soave Francesco Francia, d’una Madonna pensosa e sommessa. Ma anche da portentosi disegni, soprattutto di Perugino e Raffaello. A mostrare la loro stretta fratellanza (anche se il «naturalista» Perugino è degno talvolta di Leonardo).
La mostra principale s’intitola infatti, in modo abbastanza curioso: «Perugino, maestro di Raffaello». Come a sottolineare questa sudditanza un po’ ingiusta: in realtà oggi si pensa piuttosto che Raffaello sia stato allievo del padre Giovanni Santi e che l’incontro con Perugino sia avvenuto come in una sorta di fratellanza ideale, trasognata. Lo dimostra qui la vicinanza-confronto, con alcuni disegni, che lascian intendere in fondo quale fosse la loro differente visione della pittura spirituale ed idealizzata. Perugino più sentimentale e come raddolcito dal suo talento naturale (non dolciastro, come una scolastica polemica lascia talvolta intendere). Raffaello più sperimentale ed inquieto (anche se poi il giovane urbinate presenta un momento grafico quasi sovrapponibile mentre Perugino, quando deve schizzare le «prime idee», sa improntare gesti grafici e nervosi. Vedi qui la bellissima Pietà come scheggiata).
Certo, non c’è dubbio che quando Ludovico di Baviera acquista, ad una somma importante, il «suo» Perugino, pur sapendo che è Perugino, lo compra probabilmente perché non trova sul mercato un Raffaello disponibile (per la Madonna della Tenda seppe attendere oltre vent’anni di trattative) e quell’incantata visione virginale gli pare colmare un incolmabile vuoto. Imperdonabile, per il gusto palatino. Popolarissimo al suo tempo (tra pittori non meno virtuosi e richiesti. Del resto esce dalla prestigiosa bottega del Verrocchio, dove ha accanto un sensazionale garzone, dal nome Leonardo e compagni di strada che si chiamano Botticelli e Ghirlandaio) risulta fin troppo vessato dalle committenze ricche. Al punto che la solita scolastica detrattiva vuole che con la sua fiorente bottega sia divenuto in tarda età una sorta di fabbrica stereotipata d’opere-clone. Così conobbe presto un’eclissi di notorietà assai ampia. Sino a quel tardo Ottocento, purista e nazareno, che lo rese quasi proverbiale: «pittor divino» e ispiratore-principe di quel gusto un po’ bamboleggiante e mièvre, immaginetta, ch’è tipico di certo tardo Ottocento oleografico.
Così a Monaco, una piccola mostra nella mostra, permette di verificare come, nelle incisioni, tra Neoclassicismo e Biedermeier, il leggendario «maestro di Raffaello» (conosciuto nei viaggi di nozze più romantik) si trasformasse in un soggetto ideale per la pittura di storia calligrafica, talvolta persino voltato nella lucida porcellana da salotto (anche se la presenza qui di omaggi di Degas e Redon dimostra quali palati sofisticati sapesse titillare). Poi l’eclissi e il quasi-disprezzo, in vero cavalcato già dal Vasari, che certo non lo sopportava (probabilmente per emulazione con l’adorato Michelangelo, che, messo in discussione dal Perugino stesso, lo trattò per rivalsa da «pittorucolo goffo»). Sono soprattutto morali, le obiezioni di Vasari (e per noi paradossali): «Fu Pietro persona di assai poca religione e (...) con parole accomodate al suo cervello di porfido, non se gli poté mai far credere l’immortalità dell’anima». Poverissimo nell’infanzia, rimase così sempre attaccato al denaro e, avido, lavorò fin troppo, «avendo sempre davanti agli occhi il terrore della povertà, faceva cose per guadagnare».
Malignità proverbiale di Vasari? Certo, se da Monaco si passa a Campione d’Italia (curioso che necessiti di restare all’estero, per scoprire delle mostre degne sul «divin pittore») si capisce meglio questo discorso sul declino di un grande maestro. Per quanto i curatori si sforzino di far tornare i conti sull’autografia di queste minime tavolette da polittico, inedite ed offerte da un collezionista del Canton Ticino, il dubbio rimane e gli esperti dovranno pronunciarsi su questa pennellata tarda, che ora risulta più incerta e sommaria. Accanto, due «ritratti» sacri, di influenza molto veneta, che s’ipotizza fossero legati da un dittichetto di devozione privata. Da studiare.
FONTE: Marco Vallora
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