In una giornata di studio al Museo Pigorini, sembra sia stato finalmente risolto un giallo archeologico ultrasecolare, quello della Fibula Prenestina. Una Fibula (non fibbia, come si potrebbe essere tentati di tradurre, ma spillone, che si usava per tenere uniti lembi di tessuto) molto celebre: non solo per la sua semplice eleganza e la preziosità dell’oro, ma per un’iscrizione che per i linguisti vale ancor più dell’oro stesso, in quanto espressione di un latino antichissimo: Manios med phephaked Numasioi. In latino classico sarebbe Manius me fecit Numerio, cioè: Manio mi ha fatto per Numerio.
Si usa la prima persona come se a parlare fosse il prezioso oggetto; per gli studiosi dell’evoluzione delle lingue antiche, il testo potrebbe risalire al VII secolo a.C. Due illustri specialisti, Daniela Ferro (CNR) e Edilberto Formigli (La Sapienza) hanno esposto i risultati di nuove indagini condotte con tecniche avanzatissime, e cioè con la microscopia a scansione elettronica accoppiata alla scansione per raggi X, studiata per acquisire dati certi sulla composizione chimica senza danneggiare in alcun modo il metallo. Il verdetto è perentorio: la Fibula è autentica.
Perché a questa conclusione si arriva solo ora? Vediamo. Il pezzo fu presentato dall’archeologo Wolfgang Helbig nel 1887, e la provenienza fu indicata in Palestrina. Nel 1889 il proprietario, l’antiquario Francesco Martinetti, la donò al Museo di Villa Giulia; nel 1900 fu trasferita proprio al Pigorini (che allora era al Collegio Romano). Helbig, grande studioso, era però molto legato ad antiquari (fra cui lo stesso Martinetti) e collezionisti. Qualcuno sospettò che il passo da antiquario a falsario potesse essere breve: Helbig oltretutto era ritenuto troppo bravo, bene in grado di inventare un’iscrizione in latino arcaico. Nel secolo scorso, pesante fu l’intervento negli anni ’80 dell’epigrafista Margherita Guarducci, che lanciò una condanna postuma per quel mondo di trafficanti di alto bordo fin-de-siècle.
Ma ecco l’assoluzione. Già da anni Formigli, in base all’esame della struttura fisica, si era pronunciato per l’autenticità del gioiello, lasciando al momento nel dubbio l’iscrizione; questa poi però era stata riabilitata da Annalisa Franchi De Bellis (Università di Urbino). Ora, dopo la prosecuzione delle analisi con la Ferro, il quadro è più completo.
La Fibula è costituita di ben 12 componenti, anche di dimensioni minime, e per ogni pezzo la lega impiegata (oro, argento, rame) presenta raffinate variazioni percentuali a seconda delle necessità (maggiore elasticità, maggiore resistenza, maggiore precisione per la cerniera…): è una caratteristica nota nelle oreficerie etrusche. Di più: l’oro col tempo cristallizza, e qui la cristallizzazione è uniforme pure su una piccola riparazione (che perciò è anch’essa antica) e soprattutto sui solchi dell’iscrizione, che quindi non è stata incisa in un secondo momento. Tutto risolto? No: la Fibula è autentica, ma il dibattito, già fra i numerosi presenti alla giornata di studio, si rilancia. Viene davvero da Preneste? Che vuol dire esattamente quel testo? Manios è autore o committente? Era un oggetto che si usava nella vita quotidiana, o era un dono per il corredo di un defunto? Non finisce qui.
Dubbi e polemiche si scatenarono immediatamente. Etruscologo, epigrafista, gran conoscitore di Pompei, autore di un monumentale catalogo dei musei di Roma, Helbig fu figura di spicco dell’Istituto Archeologico Germanico a Roma, ma proprio in quel 1887 si dimise per protesta, non essendone stato nominato direttore. Restò attivissimo però come studioso, sviluppando inoltre una serie di relazioni con gli antiquari (fra cui proprio il Martinetti, autore di quel dono) e con spregiudicati collezionisti, come Carl Jacobsen, che andava realizzando a Copenaghen la Gliptoteca Ny Carlsberg, dal nome della birra da lui prodotta.
Da antiquario a falsario il passo talvolta è breve, e proprio questo qualcuno rinfacciò a Helbig, che oltretutto era ritenuto in grado di inventare un’iscrizione in latino del VII secolo a.C. Così nell’interminabile querelle che ha attraversato il Novecento l’epigrafista Margherita Guarducci fece eseguire fra l’altro analisi dell’oro, e concluse che si trattava di un falso.
Ma due anni fa un’illustre studiosa dell’Università di Urbino, Annalisa Franchi De Bellis, ha riaperto la questione: quel med phephaked (mi ha fatto) della discussa iscrizione, che ormai consideravamo invenzione del geniale ma disonesto Helbig, in realtà lo troviamo in iscrizioni falische di recente scoperte: e i Falisci, si sa, avevano origini comuni con i vicini Latini, e anche una lingua analoga. Ora, la Ferro e Formigli hanno condotto nuove indagini, stavolta microanalitiche, con microscopio elettronico a scansione. Avranno risolto il giallo, come il titolo della conferenza sembra suggerire? Potrà considerarsi recuperato quel remoto antefatto del latino a noi noto?
FONTE: Sergio Rinaldi Tufi
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