Una grande mostra al Palaexpo riabilita il realista sovietico che amava la monumentalità e lo sport. Come Sironi fu condannato all’ostracismo
Finalmente una degna retrospettiva di quel curioso artista (e siamo consapevoli d’usare un aggettivo un po’ pavido) che è Alexader Deineka. Giustamente il curatore (e fautore) italiano Matteo Lafranconi, in un illuminante saggio lo preserva dalle secche d’una stolta profilassi ideologica (che lo umiliava come un deleterio vignettista del realismo socialista zdanoviano) e ricorda come Deineka sia stato beneficiato da una grazia tardiva, soltanto con la grande mostra assolutoria di Düsseldorf, nell'82. Ma certo la vera benedizione avvenne con l’inserimento delle sue grandi tele ossigenate, nella rivoluzionaria mostra di Jean Clair sui «Realismi», che lo catapultò negli occhi dei più perspicaci.
Alieno dalla grande pulizia puritana e iconofoba degli avanguardismi astratti russi, da Kandinskij a Malevic al costruttivista Tatlin, Deineka (e lo sappiamo d’irritare ancora i neo-puristi ciechi e caparbi) veicola un suo costruttivismo privato e stakanovista. Questo ha agli esordi un sapore inconfondibile di limatura di ferro, di sudori operai, di canottiere al vento e muscoli stirati. Il senso della grande, monumentale potenza pittorica comunque (magari nutrita alla lunga di Hodler, di Puvis de Chavannes, dell’austriaco Egger Lienz, così importante anche per il nostro Sironi) lo riscatta però completamente da ogni moralistica requisitoria contro-realistica, pur ingabbiandolo nelle spire d’una imperdonabile «colpa» retrivo-kitsch. Sappiamo ormai che esistono, per fortuna, molte modernità, ed è inutile lasciar giacere questi grandi «negletti» solo nei testi che demonizzano il linguaggio totalitario: sia stalinista, che nazista, che littorio.
Alieno dalla grande pulizia puritana e iconofoba degli avanguardismi astratti russi, da Kandinskij a Malevic al costruttivista Tatlin, Deineka (e lo sappiamo d’irritare ancora i neo-puristi ciechi e caparbi) veicola un suo costruttivismo privato e stakanovista. Questo ha agli esordi un sapore inconfondibile di limatura di ferro, di sudori operai, di canottiere al vento e muscoli stirati. Il senso della grande, monumentale potenza pittorica comunque (magari nutrita alla lunga di Hodler, di Puvis de Chavannes, dell’austriaco Egger Lienz, così importante anche per il nostro Sironi) lo riscatta però completamente da ogni moralistica requisitoria contro-realistica, pur ingabbiandolo nelle spire d’una imperdonabile «colpa» retrivo-kitsch. Sappiamo ormai che esistono, per fortuna, molte modernità, ed è inutile lasciar giacere questi grandi «negletti» solo nei testi che demonizzano il linguaggio totalitario: sia stalinista, che nazista, che littorio.
Ora se anche Sironi è stato mondato delle sue colpe ideologiche, è giusto tentarci con Deineka, con Vera Muchina, con altre vittime della purga modernista, visto inoltre che il Nostro è stato presto condannato dalla ortodossia stalinista, proprio come «il formalista» compositore Shostakovic. Ma se del confratello-opposto Sironi, il non meno monumentalista ed artigiano Deineka («io sono un uomo-orchestra» diceva di sé, e «suono tutti i possibili strumenti dell’arte») non condivide certo il pessimismo fangoso e lugubre del suo rovinismo Novecento, anzi è sempre arioso, ossigenato, e sporto sul trampolino ottimistico del trionfale futuro proletario, di Shostakovic, non può condividere quegli Scherzi acidi e macabri, che allarmarono il Potere. Più vicino, forse, all’entusiasmo macchinico d’un Prokofiev, è sempre la fede nel futuro dell’uomo sano, che lavora e che fa sport, a profilarsi agonisticamente all’orizzonte della sua pittura da Dudovich sovietico, appunto tacciata dai burocrati luckacsiani di cartellonismo occidentale. E che pantografa comunque il mondo del Presente, come rosolandolo entro un altoparlante cosmico e solare (del resto non è lui che dice di voler portare la «luce mattutina all’interno pure di quella littoria catacomba tecnologica, che è la metropolitana Majakovskaja di Mosca, alternando musivamente trattori contadini nel kolchoz ad atleti volteggianti tra colombe pasquali?).
Lo sport, innanzittutto: perché, lui lo ripete, anche la natura non ha senso, se sullo sfondo non si profila un podista sudato, o un vecchio treno umano che sbuffa, non già insensatamente dechirichiano, ma concreto. Che trasporta utili merci, pure le merci del ricordo, che lui vuol «rimettere a posto» (ricongiungendolo col padre operaio-ferroviere, tradito per farsi pittore). Una pittura magra di pigmento, imborotalcata, non come fa la diva baudleriana bistrata alla sua toilette, ma semmai il sano atleta michailkoviano, con le mani callose, che devono padroneggiare il volteggio. Ed anche la pittura di Deineka volteggia libera nell’aria (è il suo «en plein air» da aviatore, non però aero-futurista) e soprattutto padroneggia l’istante fatale del calcolato gesto sportivo: «l'angoscia del portiere prima del calcio di rigore», per dirla con il consonante romanziere Handke. O, dice Deineka, dello studente che deve rispondere all’esame.
Lo sport, innanzittutto: perché, lui lo ripete, anche la natura non ha senso, se sullo sfondo non si profila un podista sudato, o un vecchio treno umano che sbuffa, non già insensatamente dechirichiano, ma concreto. Che trasporta utili merci, pure le merci del ricordo, che lui vuol «rimettere a posto» (ricongiungendolo col padre operaio-ferroviere, tradito per farsi pittore). Una pittura magra di pigmento, imborotalcata, non come fa la diva baudleriana bistrata alla sua toilette, ma semmai il sano atleta michailkoviano, con le mani callose, che devono padroneggiare il volteggio. Ed anche la pittura di Deineka volteggia libera nell’aria (è il suo «en plein air» da aviatore, non però aero-futurista) e soprattutto padroneggia l’istante fatale del calcolato gesto sportivo: «l'angoscia del portiere prima del calcio di rigore», per dirla con il consonante romanziere Handke. O, dice Deineka, dello studente che deve rispondere all’esame.
Si guardi l’aritmetica delle forze contrapposte dpun quadro bellico quale La difesa di Pietrogrado del '28: uno sguardo sovietico dal ponte. Oppure quei carrelli da minatore, in bilico grafico sull’abisso: ma non il c’è terrore dell’incognita ctonia, solo l’attesa dell’alba futuro, nel decoroso gesto eroico del dio- lavoratore. Che inserito in una sorta di marchingenio sociale, di collettivismo inespressivo, perde la sua identità, in una ripetitività seriale, che avrebbe potuto attrarre un Warhol. Lo slancio del portiere che si tuffa, allunga anche la «gamba» dell’orizzontalità esacerbata della tela, e le suole puntute delle scarpette assumono un ghigno grottesco, da anticipare un Philip Guston. Che mai abbia visto o «ceduto», nei suoi viaggi in Italia o in America, difficile dire, certo alcune sue opere in mostra potrebbero, sputate, essere di Pirandello o Gianquinto. Certo, quando il Soviet s’affloscia, anche lui diventa un vedutista spento, mondano, finto-Dufy o Vertès: la sua Roma, una floscia «vignetta» di Breveglieri.
ALEKSANDR DEINEKA
IL MAESTRO SOVIETICO DELLA MODERNITÀ
ROMA, PALAEXPO
FINO AL 1° MAGGIO
FONTE: Marco Vallora (lastampa.it)
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